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Il Manifesto Rassegna Stampa
13.10.2006 Con l'"antimperialismo" dell'Iran e di Hezbollah
il quotidiano comunista torna a schierarsi con il fondamentalismo islamico

Testata: Il Manifesto
Data: 13 ottobre 2006
Pagina: 9
Autore: Marina Forti - Michele Giorgio
Titolo: «Tehran, la rivoluzione islamica diventa terzomondista? - L'armata made in Usa»

Intervista di Marina Forti all'ambasciatore in Italia della Repubblica Islamica dell'iran Abolfazl Zohrevand, pubblicata sul MANIFESTO del 13 ottobre 2006.
Si tratta di un'intervista acritica e talora tendenziosa, nel suggerire la possibilità di una trattativa con Teheran, vanificata dall'Occidente.
Ecco il testo con alcuni nostri commenti: 
 

L'ambasciatore Abolfazl Zohrevand rappresenta la Repubblica Islamica dell'Iran ed è in Italia da meno di due mesi. Arriva in un momento in cui le relazioni tra Roma e Tehran sembrano in uno stato di grazia. «Esistono potenzialità per consolidare le relazioni», scriveva il quotidiano Keyhan, la voce più ufficiale dello stato iraniano, presentando un'intervista allo stesso ambasciatore; con il governo Prodi l'Italia ha assunto «una politica estera più indipendente dall'America» (anche se «non significa che essi siano antiamericani», aggiungeva). Una svolta? Siamo andati a chiederlo all'ambasciatore Zohrevand, che ci ha ricevuto con grande cortesia. Inutile chiedergli di libertà di stampa o pena di morte: si trincera dietro «i valori intrinsechi della società iraniana». Conferma invece l'interesse per le relazioni bilaterali, per l'Italia della piccola e media impresa, e anche per un ruolo diplomatico di Roma. Soprattutto, dice che dopo la guerra in Libano l'Iran si sente rafforzato sulla scena internazionale - e si propone come una sorta di guida di nazioni e popoli del terzo mondo.

Ambasciatore, cosa si aspetta dalle relazioni tra l'Italia e l'Iran?
Sono qui per migliorare i rapporti tra i nostri paesi in tutti i settori, sulla base del reciproco interesse. Le relazioni economiche e commerciali tra i nostri paesi sono di antica data. Inoltre a noi interessa molto il vostro modello delle piccole e medie imprese. L'Iran è un paese tra i più giovani al mondo, il tasso di crescita della popolazione è alto e dobbiamo creare occupazione. Pensiamo che una struttura di piccole e medie imprese sia il modo migliore, quello che permette una più equa partecipazione economica di tutti. Insomma, siamo complementari: l'Iran è ricco di risorse umane e di risorse naturali ed è un grande mercato in sviluppo; l'Italia ha tecnologie e capacità manageriali, ha know how da trasferire e cerca mercati: l'Iran può essere uno.

Pensa che l'Italia possa avere un ruolo, ad esempio, in un dialogo sul dossier nucleare?

L'Italia dovrebbe avere un ruolo. E' un importante membro del G8, è tra i fondatori dell'Unione europea, e aggiungo che la Repubblica islamica nutre grande fiducia verso il governo italiano. L'Iran guarda con favore un ruolo attivo dell'Italia; ovviamente che questo avvenga dipende dalla volontà del governo italiano.

Un mese fa sembrava possibile un negoziato tra l'Iran e la comunità internazionale sul nucleare, ora siamo nell'impasse. Perché?

Ovvio che l'ambasciatore risponda che è colpa degli interlocutori europei, meno ovvio che la Forti non ricordi inganni e intransigenze del regime


Credo che il problema stia nei nostri interlocutori, che non riescono ad arrivare a un'unica conclusione. Il punto ora è come avviare negoziati costruttivi. Il Trattato di non proliferazione autorizza ad arricchire uranio per usi civili. L'eventuale sospensione del processo di arricchimento dovrebbe essere il frutto di un percorso negoziale. Se noi sospendiamo l'arricchimento prima di negoziare, di cosa tratteremo?

Giorni fa l'ex presidente Hashemi Rafsanjani ha reso nota una lettera dell'Imam Khomeini in cui diceva, pare, che l'Iran deve pensare alle armi nucleari per difendersi. Perché quella lettera viene fuori ora?
Non sono al corrente di questa lettera. Per la personalità del'Imam, il suo peso spirituale di guida indiscussa della Repubblica islamica, è impossibile che abbia espresso questo auspicio.

Quella lettera non sarà un segno che nell'establishment della Repubblica islamica c'è un dibattito aperto sul programma nucleare?

Una domanda tendenziosa, che mira a dimostrare che l'Iran non è pericoloso come sembra.

Non c'è alcuna divergenza sulla natura civile del programma nucleare tra i responsabili dello stato. Può esserci un diverso modo di interagire con la comunità internazionale e creare un clima di fiducia, come in effetti sono diversi i dirigenti che negli ultimi tre anni hanno condotto le trattative con l'Unione europea.

E con gli Stati uniti? Due ex presidenti iraniani, Rafsanjani e Khatami, hanno espresso il desiderio di normalizzare le relazioni con gli Usa. Perché non è successo?
Bisognerebbe chiederlo agli americani. Non siamo noi a ostacolare il dialogo. Gli Usa hanno adottato una strategia di logoramento verso l'Iran. Ma è logorante soprattutto per loro: in dieci anni hanno logorato la loro posizione non solo in Medio oriente e tra i paesi musulmani, ma sulla scena globale. Al contrario, la posizione dell'Iran si è rafforzata in Medio oriente, tra i paesi islamici, e sulla scena internazionale.

Nè Rasfanjani nè Khatami, però, hanno posto fine al  sostegno al terrorismo e alla repressione del dissenso

Dopo la guerra in Libano alcuni paesi europei hanno invitato a dialogare con l'Iran e la Siria. Ma cosa può fare Tehran per la stabilità del Medio oriente?
Il ruolo dell'Iran deriva dalla sua posizione geopolitica e dall'influenza morale che esercita. I popoli della regione ci vedono come un esempio: per i progressi compiuti dal paese, il benessere raggiunto, le libertà di cui godono gli iraniani e mancano nelle loro società. I popoli della regione possono ispirarsi all'Iran.

 Affermazioni di pura propaganda, che eludono il nodo delle responsabilità iraniane nelle crisi mediorentali, da quella irachena a quella libanese, fino a quella in Cisgiordania e Gaza. In ognuna di esse Teheran sostiene il terrore.

L'Iran è spesso accusato di sostenere movimenti armati che piuttosto ostacolano la ricerca di stabilità in Medio oriente.

"Movimenti armati"? Ci si riferisce a gruppi chiaramente terroristici come Hamas ed Hezbollah?


Se si riferisce a Hamas e a Hezbollah, sono due gruppi fortemente radicati nei loro territori e rappresentano le loro popolazioni.

Nessuna replica, anche se l'intervistato ha totalmente cambiato argomento

Qualche commentatore occidentale ha detto che la guerra in Libano la scorsa estate è stata la prima guerra tra Israele e l'Iran.
Israele e l'Iran non sono confrontabili: Israele senza l'aiuto degli Usa non può ulla, e neppure con l'aiuto americano è riuscito a vincere la resistenza Hezbollah. In una guerra non equa, del resto.

Dice che l'Iran è un modello di libertà: ma perché tanti giornali chiudono? Perché è stato chiuso il giornale Shargh?
In Iran esiste una legge sulla stampa, e chi la viola deve attendersi le conseguenze. Può darsi che ci siano fatti in Iran che non vi sembrano spiegabili secondo i vostri criteri, ma nella società iraniana trovano il loro significato. Il primo criterio è che i mass media non devono mai perdere di vista gli interessi strategici nazionali né i valori intrinsechi della società iraniana.

Tra le cose che ci paiono inaccettabili c'è il fatto che tante donne, anche giovanissime, siano condannate a morte.
La pena capitale è prevista delle nostre leggi per determinati reati. L'Iran è un paese a maggioranza musulmana e le leggi del nostro stato sono ispirate alla religione islamica. Anche noi possiamo preoccuparci di fenomeni che vediamo nel vostro paese e ci appaiono inaccettabili.

Nessuna replica della giornalista a questa risposta evidentemente evasiva

Di recente il presidente Ahmadi-Nejad ha incontrato il presidente Chavez in Venezuela, e ha tenuto un discorso alle Nazioni Unite in cui sembrava parlare a nome del terzo mondo. L'Iran punta a un nuovo «fronte» di paesi non allineati antimperialisti?

Alla fine dell'intervista spunta fuori l'asse antimperialista. l'idea al MANIFESTO piace molto. L'intervista infatti è speranzosamente intitolata "Tehran, la rivoluzione islamica diventa terzomondista?2.

Come dire che tutto va bene per il quotidiano comunista, khomeinismo incluso, purché sia contro l'America, e Israele

Non ne parlerei in questi termini. Non c'è dubbio però che vediamo dei cambiamenti sulla scena internazionale, i popoli sono in fermento. Non bisogna immaginare per forza che questo sia contro qualcuno, ma riguarda la difesa dei propri diritti e interessi. Così vediamo avvicinarsi paesi distanti come Senegal, Malaysia, Venezuela, Indonesia... diversi per geografia, religione, lingua, storia, hanno in comune il desiderio di giustizia. Le grandi potenze, invece di fare dietrologie, dovrebbero capire che l'avvicinamento nasce dal desiderio di difendere i propri diritti e interessi nazionali.

Non per "difendere"il paese da Israele (che non lo ha mai aggredito) ma per "reprimere" gli Hezbollah (dissidenti disarmati?) Usa Francia e Arabia Saudita rafforzano l'esercito libanese.
Sacndalo di Michele Giorgio e del quotidiano comunista, che si schiera così contro la sovranità nazionale del paese dei cedri e a favore della prosecuzione della jihad di Hezbollah contro Israele.
Ecco il testo:


Il sergente Hassan Batal ha un'uniforme nuova, un mitra M-16 lucidato alla perfezione e l'atteggiamento del soldato sicuro del fatto suo. Insomma nulla da invidiare (tranne lo stipendio) ai suoi colleghi stranieri che operano nell'Unifil II che si sta dispiegando nel Libano del sud. «Da qualche tempo ci addestriamo bene e abbiamo ricevuto pezzi di ricambio per i nostri automezzi come non accadeva da tempo», spiega il militare libanese schierato con altri tre soldati a protezione di un posto di blocco a sud di Beirut. Ma che l'apparenza sia il più delle volte ingannevole è prontamente dimostrato dalla vecchia camionetta a disposizione del sergente Batal: divorata dalla ruggine, con un motore sofferente e sempre sul punto di spegnersi. «Purtoppo i pezzi di ricambio non bastano a modificare la nostra situazione, i mezzi di trasporto che abbiamo sono vecchi e andrebbero demoliti ma non ne abbiamo altri», aggiunge il militare con un certo imbarazzo. Non stanno meglio di lui i soldati inviati nel sud del paese, impegnati più nella manutenzione dei loro vecchi M113 che nelle attività di sorveglianza.
Gli Stati Uniti quest'anno hanno versato nelle casse del ministero della difesa libanese poco più di 10 milioni di dollari, con i quali sono stati rimessi in moto autocarri e blindati che da anni non uscivano dalle caserme. Più di cento ufficiali libanesi inoltre hanno partecipato a programmi di formazione nelle accademie statunitensi mentre altri due milioni di dollari l'Amministrazione Bush li ha messi a disposizione delle unità libanesi «antiterrorismo». La generosità americana tuttavia non è beneficenza, al contrario conferma che la delicata partita politica libanese si gioca su molti tavoli. Anche il malandato esercito libanese è destinato diventare un elemento centrale nelle vicende future del paese. La novità più importante è avvenuta a fine di agosto, al termine della devastante offensiva militare israeliana: quindicimila soldati libanesi da allora presidiano il territorio meridionale del paese - terreno incontrastato fino a qualche settimana prima della guerriglia di Hezbollah - e per la prima volta da diversi decenni, pattugliano la frontiera con Israele, con l'«assistenza» dei soldati della Unifil, sulla base della risoluzione 1701 dell'Onu sempre oggetto di interpretazioni diverse. Per il premier Fuad Siniora e per i partiti filo-Usa suoi alleati (il cosiddetto fronte del «14 marzo» schierato contro la Siria e Hezbollah), l'invio dell'esercito nel sud del Libano e l'arrivo della forza internazionale sono una prima rappresentazione della recuperata «sovranità» nazionale. Una posizione largamente condivisa da Washington e da vari governi europei che sostengono la riorganizzazione dell'esercito libanese in funzione anti-Hezbollah.
Al momento i soldati libanesi sono 45mila (più 15 mila riservisti) e hanno a disposizione 310 carri armati e centinaia di autocarri e jeep costruiti negli anni '50, 23 elicotteri Huey (quelli della guerra del Vietnam), 27 motovedette antiquate prive di sistemi radar moderni e una decina di velicoli leggeri da ricognizione. L'ultima volta che l'aviazione militare è entrata in azione - vecchi aviogetti ora non più operativi - è stato alla fine degli anni 80, in sostegno del capo provvisorio del governo, il generale Michel Aoun, durante i combattimenti tra favorevoli e contrari agli accordi di Taif per la fine alla guerra civile. L'attuale capo di stato maggiore libanese, Michel Sliman, con l'appoggio del presidente Emile Lahoud, ha chiesto al governo di costruire un esercito in grado di difendere il Libano da nuove offensive israeliane e ha perciò suggerito di acquistare elicotteri da combattimento Apache e Cobra, mezzi corazzati dell'ultima generazione, navi per la difesa costiera, sistemi moderni di contraerea e artiglieria pesante. Invece Usa, Gb e Francia, principali finanziatori del programma di ammodernamento dell'esercito, non hanno alcuna intenzione di garantire a Beirut armamenti costosi e sofisticati. Per questi paesi, ha spiegato Nicholas Blanford, un esperto di Jane's Defence Weekly, «l'esercito libanese in futuro dovrà garantire più di ogni altra cosa la stabilità interna e dimostrare, con la sua organizzazione ed efficienza, che non c'è più bisogno della milizia islamica (la guerriglia di Hezbollah)». Un disegno che non necessariamente si realizzerà. Hezbollah e i suoi alleati potrebbero porre il veto (e non solo quello) a programmi concordati con gli Stati Uniti che non sono volti a garantire la difesa del Libano. Vi sono poi le pressioni di Israele. Il mese scorso il consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Steven Hadley, ha spiegato i piani americani a due inviati di Ehud Olmert, risultando però poco convincente. Tel Aviv è contraria alla consegna al Libano di armamenti sofisticati, anche leggeri.


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