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Libero Rassegna Stampa
12.10.2006 Se Mohamed Daki non è un terrorista, Tariq Ramadan non è un fondamentalista
una sentenza della Cassazione sconfessa Clementina Forleo, una recensione di Andrea Morigi smaschera l'intellettuale islamista

Testata: Libero
Data: 12 ottobre 2006
Pagina: 13
Autore: - Andrea Morigi
Titolo: «Processo da rifare per il»

Da LIBERO del 12 ottobre 2006, un articolo sulla sentenza della Cassazione che annulla l'assoluzione di  Mohammed Daki, a suo tempo decretata da Clementina Forleo sulla base della distinzione tra "guerriglia" ( che includerebbe gli attentati suicidi) e terrorismo.
Ecco il testo:
 

MILANO Ancora un processo, il quarto. Ma sarà difficile rimettere Mohamed Daki sul banco degli imputati. Dopo due assoluzioni a Milano, l'unica sentenza vera l'ha scritta e fatta eseguire Giuseppe Pisanu: «Daki - scrisse - appartiene a un'organizzazione fondamentalista islamica collegata al gruppo di al Zarqawi. È pericoloso per la nostra sicurezza». E con questa stringata motivazione, l'ex ministro dell'Interno, lo rispedì in Marocco. Un sopruso e un rischio mortale per tanti. A Rabat vanno per le spicce, disse Daki: «Ho paura di essere rimpatriato, ho paura che di lì magari mi mandino negli Stati Uniti». Nessuno, invece, gli ha torto un capello. Si trova ancora lì. E non ha avuto difficoltà Vainer Burani, il suo avvocato, a comunicargli la decisione per telefono. «È una sentenza che non capisco», il commento. «In primo grado era stato un solo giudice a decidere, ma in appello erano otto». È che a tracciare il solco è stato proprio il primo giudice. Tutti gli altri quel solco lo hanno scavato, o si sono prudentemente adeguati. Persino a Roma il procuratore generale Vittorio Meloni, che ancora ieri aveva chiesto la conferma delle due assoluzioni. Era stata il gup Clementina Forleo, in un processo col rito abbreviato e dunque a porte chiuse, a trasformare quell'imputato per terrorismo, in un mezzo eroe, in un «guerrigliero». La Forleo non arrivò a negare che Daki e compagni arruolassero volontari, kamikaze da spedire in Iraq. Sostenne però che la violenza è legittima in uno scenario di guerra se non semina terrore indiscriminato verso i civili. E fece di più, mise in dubbio l'appartenenza di Daki ad Ansar Al Islam e la stessa contiguità della formazione terroristica ad Al Qaeda. Inevitabili e forti le reazioni, inclusi degli inutili ispettori ministeriali a Milano. Ma le proteste politiche, proprio quelle più scomposte, contribuirono a fare di Clementina un personaggio da copertina. La Cassazione, accogliendo il ricorso del procuratore Laura Bertolè Viale, ha detto che col terrorismo non si fa spettacolo, che non si gioca con l'interpretazione delle norme. E ha annullato la sentenza, sembra, "per vizi di motivazione". «Questo mi succede solo perché non sono nessuno», ha detto invece Daki, con quel suo tono monocorde da vittima designata. Ma quando ha aggiunto «mi trovo in questa situazione solo perché avrei ospitato della gente per due giorni», è entrato nel cuore del problema. Tra la gente ospitata nella sua casa, quando ufficialmente studiava ad Amburgo, c'era, infatti, anche Mohammed Atta. Proprio il capo del commando che portò il primo aereo a schiantarsi contro la Torre Nord. Dimostrato poi il contatto col coordinatore dei finanziamenti per i terroristi dell'11 settembre. Ramzi Bin al Shibh usava l'indirizzo di Daki ad Amburgo per spedire la propria corrispondenza. Altro che nessuno, Daki, stando a intercettazioni di telefonate partite dalla Siria, era un «personaggio importante da tener protetto per incarichi futuri». Certo più importante di Ben Maher Bouyhia Abdelazi e di Toumi Alì Ben Sassi, coimputati tunisini che, assolti dalla Forleo nel gennaio 2005, furono condannati a 3 anni in appello nel novembre successivo. Forse neppure loro assisteranno al nuovo processo. Il primo, con l'indulto, è stato appena scarcerato, l'altro è ancora in carcere, ma non per molto. Il resto, per ora, sono le dichiarazioni di sobria soddisfazione. Secco Armando Spataro, coordinatore del pool antiterrorismo: «Mi pare evidente che la Cassazione abbia confermato le valutazioni della Procura e cioè che la sentenza era sbagliata». La decisione per Alfredo Mantovano, senatore di An e magistrato, «rende merito alla saggezza di Pisanu». «E' un bel giorno per la Giustizia» per il senatore Roberto Calderoli insolitamente ottimista. Forse anche per la querela e il rinvio a giudizio dopo gli apprezzamenti dedicati alla Forleo. Che si fa scudo della seconda assoluzione, quella in appello: «Questa pronuncia non riguarda la mia sentenza».

Nelle pagine della cultura Andrea Morigi recensisce il libro di Tariq Ramadan, islamista detto "moderato", pubblicato da Rizzoli.
Ecco il testo:

All'interno della comunità islamica si discute animatamente se Roma vada conquistata attraverso la predicazione o a colpi di spada. Nessun dubbio che l'ultrafondamentalismo abbia scelto la prima via, di cui si occupano l'antiterrorismo e la magistratura. Nella strategia di islamizzazione dal basso, cioè quella già sperimentata con successo in Palestina dai Fratelli Musulmani e da Hamas, sono invece coinvolte case editrici blasonate come la Rizzoli, che pubblica ora in traduzione "L'Islam in Occidente. La costruzione di una nuova identità musulmana" di Tariq Ramadan. In quattro righe, su un risvolto di copertina, si sintetizza l'attività dell'intellettuale, diviso tra l'insegnamento presso l'Università di Oxford e quella di consigliere di Tony Blair per i rapporti con la comunità islamica. Quali consigli dispensi al governo di Londra, lo sanno solo il premier britannico e i suoi stretti collaboratori. Di certo, quando esce dal n. 10 di Downing Street, li tratta come nemici e, rivolgendosi ai suoi confratelli, Ramadan indica «il sistema capitalista neo-liberale che si è imposto in tutto il mondo» come «un universo della guerra, che sostiene una logica economica responsabile della morte di decine di migliaia di esseri umani ogni giorno». Lo definisce anche, in arabo, «un 'alam al-harb» per i musulmani che «devono fare resistenza e proporre un'alternativa». "Harb" è la traduzione meno ambigua possibile del termine "guerra". Quando passa a parlare di jihad, l'autore assume toni più sfumati e così dribbla la solita questione sul senso ascetico o bellico della parola. Sono vecchie trappole, a cui sfugge costringendo a uno slalom il lettore che voglia capire con chi sta confrontandosi. A salti, una sistematicità del pensiero di Ramadan infine emerge e si coagula su alcuni temi, religiosi e soprattutto politici. Innanzitutto, propone «di lavorare alla promozione di un vero pluralismo religioso e culturale sul piano internazionale». Cerca «partner decisi», nella sua lotta, e li identifica con i no global, cioè «il movimento internazionale dei cittadini sviluppatosi di recente in tutto il mondo». Avverte di non confonderli con i gruppi violenti e li identifica tra gli altri con il movimento francese Attac, protagonista delle manifestazioni contro il G8, oppure con i sostenitori cristiani della «teologia della liberazione e della resistenza». Saranno questi i compagni di strada e di corteo delle avanguardie islamiche. Pacifisti e centri sociali si prestano sempre allo scopo quando si tratta di attaccare Israele e gli Stati Uniti per appoggiare i terroristi di Hezbollah e di Hamas. A volte organizzano perfino collette per Saddam Hussein. Del resto, sarebbe inutile cercare tra le pagine del volume una condanna esplicita di Al Qaeda e delle sue azioni. Semmai, «dall'11 settembre le cose si sono aggravate», rispetto al periodo appena precedente, quando «i musulmani sperimentavano ogni giorno la realtà del sospetto e della discriminazione». Tutta colpa dell'immagine dell'islam «veicolata dagli avvenimenti che accadono sulla scena internazionale». Attentati, rapimenti e sgozzamenti, stragi, violenza non meritano nemmeno una citazione. In luogo di un esame di coscienza sociale, Ramadan si concentra su un obiettivo esterno: «La situazione politica dei Paesi musulmani e le manipolazioni dei loro governi gettano una luce molto negativa sui musulmani che vivono in Occidente e animano tutta una serie di pregiudizi e idee preconcette sull'islam». Per sciogliere i tanti luoghi comuni sulla sua religione, l'autore fa riferimento direttamente al Corano, dove recita: «Perché i credenti son tutti fratelli». Quanto al resto del genere umano tace, perché tanto è noto che i miscredenti sono da considerare inferiori ai musulmani. È la prima di una lunga serie di omissioni, che toccano la libertà religiosa - ridotta alla libertà di culto - e si allargano a macchia d'olio: «Se, nel merito, l'esposizione dell'universalità dei diritti umani non pone problemi, possono essere invece discusse le modalità della loro formulazione e la struttura della loro esposizione». In pratica, non vanno d'accordo con la legge coranica. Perciò «la coscienza musulmana avrebbe aggiunto, prima dell'enunciazione dei diritti universali, una serie di articoli vincolanti sulle responsabilità e gli obblighi degli esseri umani», cioè la sharia, lo strumento legislativo storicamente più efficace per assoggettare gli infedeli. Con un capolavoro di stratagemma, a metà dell'opera Ramadan ribalta il concetto per renderlo digeribile ai futuri "dhimmi": per un musulmano «applicare la sharia significa esplicitamente rispettare il contesto costituzionale e legale dello Stato di cui è cittadino». Tranne un'eccezione: la «clausola di coscienza». Buoni cittadini, seppure con riserva, che teorizzano di «essere rispettati in quanto musulmani» ma non accettano compromessi sul loro patrimonio culturale e manovrano per imporlo come norma generale alla società. Anzi, all'«universo di guerra», come ama definirlo lo scrittore islamico. Tra chi accetta la sottomissione, da ora, si distingue anche il gruppo editoriale RcsMediaGroup, che contribuisce così a dare dignità alle tesi rifiutate, in Francia, perfino da Le Monde e da Libération, per una volta d'accordo con gli americani che hanno considerato Ramadan "persona non grata", negandogli il visto di ingresso negli Stati Uniti. Ma ai fondamentalisti preme più Roma di New York e Parigi. E passano da Milano.

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