Sul CORRIERE della SERA di oggi, 8/10/2006, a pag.19, un articolo di Elisabetta Rosaspina sui rapporti Hamas-Fatah. Corretto il titolo, "Hamas insiste, no allo Stato di Israele", come anche l'articolo che riproduciamo integralmente. Un unico appunto: a Damasco non ci sono i "capi di Hamas in esilio", come scrive Rosaspina, c'è molto più semplicemente l'ufficio terroristico ospitato e protetto dalla Siria. Khaled Meshal non è in esilio, ma ospite gradito.
Ecco l'articolo:
GERUSALEMME — Né gli scioperi, né la faida con Fatah, né le ristrettezze economiche, né la minaccia di elezioni anticipate sono ancora riusciti a piegare Hamas. Per quanto affamata non soltanto dal Ramadan ma anche dal congelamento degli aiuti finanziari occidentali, l'organizzazione fondamentalista islamica non apre spiragli al riconoscimento dello Stato d'Israele, premessa indispensabile a qualunque trattativa di pace tra governo palestinese e quello israeliano.
Sotto il sole di Gaza e quasi disidratato dal digiuno rituale del mese sacro, Ismail Haniyeh, primo ministro palestinese e leader di Hamas, è collassato a metà del suo comizio allo stadio, l'altro ieri: «Il corpo può essere stanco, ma lo spirito è ancora forte», ha rassicurato i suoi diecimila spettatori, riprendendo l'arringa contro Israele: no al riconoscimento di Israele, no alla rinuncia al diritto di ritorno per i palestinesi, Gerusalemme capitale del futuro Stato. Sì soltanto a una lunga tregua, se gli israeliani si ritireranno entro i confini del '67 e non pretenderanno un centimetro in più.
Per convincere l'uditorio che le sofferenze imposte dall' isolamento internazionale saranno ripagate, Haniyeh ha fatto leva sull'orgoglio della bandiera: «Nessun altro governo al mondo avrebbe saputo resistere a ciò che noi stiamo subendo - sanzioni, omicidi, arresti, aggressioni - da sette mesi».
Ma Haniyeh non ha nemmeno potuto prospettare al suo popolo il termine di quella che rischia di diventare emergenza umanitaria, o degenerare in guerra civile. Gli scontri tra uomini di Hamas e forze di Fatah fedeli al presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen), hanno provocato 15 morti in otto giorni: un bagno di sangue tra palestinesi senza precedenti negli ultimi dieci anni. «Aspetto con urgenza i capi di Fatah e Hamas nel mio ufficio per mettere fine agli scioperi e alle manifestazioni», ha aperto le porte a un governo di unità nazionale il primo ministro, che ha invece escluso un governo di tecnici, capace di indurre Ue e Usa a riaprire i finanziamenti: «Sarebbe soltanto uno stratagemma per escludere Hamas dal governo».
Critiche dagli ambienti dell'«anti-premier» Abu Mazen: «Haniyeh cerca di aizzare i palestinesi contro Fatah — ne conclude il portavoce, Azzam Al Ahmad —. Vogliamo una soluzione alla crisi, non discorsi sentimentali. Se non è in grado di farlo, elezioni anticipate».
La rissa tra le due fazioni sembra contenerne un'altra, all'interno di Hamas, fra i capi di Gaza e quelli in esilio a Damasco, sulle condizioni per la liberazione di Gilad Shalit, il soldato israeliano rapito nella Striscia. Un consigliere di Haniyeh, Ahmed Yousef, ha negato che tra le condizioni ci sia il ritorno dei leader in Siria, tra cui il capo politico Khaled Meshal: «Ci sarà uno scambio di prigionieri con Israele prima della fine del Ramadan, una soluzione entro due settimane».
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