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Antologia Hannah Arendt a cura di Paolo Costa Casa Editrice: Feltrinelli In un mondo sfigurato dal totalitarismo e dall’Olocausto non separò mai critica e comprensione: oggi, a un secolo dalla nascita, un’antologia di scritti, un carteggio con Broch e numerosi saggi ne misurano virtù e contraddizioni Anche e soprattutto le contraddizioni rendono grande la figura di Hannah Arendt. Nata ad Hannover il 14 ottobre 1906, cresciuta intellettualmente con Husserl, Jaspers e Heidegger, emigrò prima in Francia e poi definitivamente negli Stati Uniti: quest’anno compirebbe cent’anni. Tale distanza mette in moto quel metronomo che segna la Storia con la maiuscola, impone un confronto con la sua esperienza. Non che sia una comoda soluzione per risolvere i problemi dell’oggi, questo confronto: è piuttosto una lezione complessa, su cui riflettere senza lesinare le energie spirituali apportate dal futuro che lei non ha fatto in tempo a conoscere. Cominciando proprio da quelle specie di contraddizioni – o forse sono “soltanto” arditi accostamenti – che la contraddistinguono. Hannah Arendt scrisse molto – testi, saggi, critiche d’occasione – ma con un sorriso ironico spiega a Gunter Gaus che “se avessi avuto in dono una memoria così prodigiosa da conservare davvero tutto ciò che penso, dubito fortemente che avrei scritto alcunché – conosco la mia pigrizia”. Il suo è un pensiero essenzialmente politico, nel senso originario e alto della parola: si occupa della polis, cioè del vivere insieme. Della natura sociale dell’uomo, con il potenziale catastrofico che essa implica. Eppure, quasi tutta la produzione intellettuale di Hannah Arendt dettata dalla sua esperienza individuale, da ciò che ha vissuto in prima persona: “Per esempio da bambina sapevo di avere delle fattezze ebraiche, di essere diversa dagli altri bambini. E ne ero pienamente consapevole,ma non nel senso che mi sentissi inferiore: semplicemente le cose stavano così”. Anche addentrandosi nel suo pensiero spicca la coabitazione di “richiami” molto diversi, che sono proprio la chiave della sua originalità. Hannah Arendt è stata la grande esploratrice del fenomeno totalitarismo. La sua indagine nell’oggetto uomo ruota intorno al mistero politico e sociale della sopraffazione. E’, per l’appunto, un’indagine radicalmente politica: dove però insieme al “comprendere” c’è sempre una misura di stupore. Di sbigottimento. E’ permeata, questa ricerca, da una combinazione di “responsabilità e passione, di lucidità e partecipazione”. “Biograficamente, l’Olocausto, le notizie sulla soluzione finale e sui campi di concentramento nazista rappresentarono un vero e proprio trauma emotivo e cognitivo per Hannah Arendt, “qualcosa con cui era impossibile venire a patti”. Questo fatto può aiutarci a comprendere il pathos “essenzialista” che caratterizza l’interpretazione arendtiana del totalitarismo, l’insistenza, cioè, sul carattere di novità assoluta e unicità del fenomeno totalitario”, scrive Paolo Costa in prefazione all’”Antologia” che Feltrinelli manda in libreria in questi tempi di anniversario (mentre Bruno Mondatori ripropone il saggio di Simona Forti “Hannah Arendt tra filosofia e politica” e Fazi annuncia gli scritti di Paolo Flores d’Arcais “Hannah Arendt, Esistenza e libertà, autenticità e politica). Proprio all’indomani della guerra in Europa,mentre le notizie sulla catastrofe da vaghe ombre si tramutavano in certezze inequivocabili, risale la conoscenza fra Hannah Arendt e Hermann Broch: siamo nel 1946. Lui è uno scrittore affermato nonché formidabile tombeur de femmes, lei ha vent’anni esatti meno di lui. Ma non era ammissibile che la loro relazione restasse entro i confini dei ruoli tradizionali: diventò invece un sodalizio segnato da cauta, ironica distanza – usarono sempre il “lei” per dialogare. Ne è testimone un nutrito carteggio lungo cinque anni- fino al 1951, appena prima della morte di lui – che l’editore Marietti pubblica ora in traduzione italiana (con vari materiali in appendice), a cura di Roberto Rizzo. Iniziando il carteggio, Hannah Arendt sapeva “benissimo a cosa andava incontro”: entrava nella zona di seduzione di Broch, mera propedeutica all’abbraccio. Eppure queste lettere sono sempre prova di un magistrale equilibrio che non esclude affatto una reciproca confidenza ai limiti della complicità. Arendt giudica i libri di Broch, in particolare “La morte di Virgilio”, ne suscita reazioni e considerazioni, il tutto sospeso in uno spazio autonomo che sembra escludere ogni altro membro della loro vivace comunità sociale. Il senso di appartenenza – al mondo ebraico, alla comunità degli esuli, alle menti pensanti – è sempre mitigato, se non negato, da Arendt. “Non ho mai cercato appartenenza, nemmeno in Germania”. E questa è la chiave per leggere i saggi raccolti da La Giuntina sotto il titolo “Hannah Arendt. Percorsi di ricerca tra passato e futuro. 1975-2005. Con una eccezione di cui la pensatrice parla spesso e volentieri a dispetto del carico di sofferenza che comporta: il suo rapporto con la lingua tedesca. Mai rinnegata, come comprensibilmente fecero molti esuli. Anzi: “Mi sono sempre deliberatamente rifiutata di perdere la mia lingua madre. Ho sempre mantenuto una certa distanza rispetto al francese, che un tempo parlavo molto bene, come pure rispetto all’inglese, la lingua in cui scrivo oggi….In tedesco mi permetto delle cose che non oserei mai fare in inglese…..la lingua tedesca è la cosa essenziale che è rimasta e che ho sempre volutamente conservato”, racconta a Gaus nella bella intervista che apre l’antologia di Feltrinelli. Il suo rapporto con la lingua madre risente presumibilmente dei tre cardini “metodologici” del suo pensiero: comprendere, perdonare, criticare. Queste tre azioni intese nel senso filosofico di atteggiamento mentale, rappresentano il suo approccio alla storia. Alla storia che si fa collettiva per eccellenza, o meglio per infimità, quando diventa sterminio di massa ad opera del totalitarismo nazista, e di quella personale irrimediabilmente intrecciata con essa. In questo senso “L’umanità in tempi bui”, scritto in occasione del conferimento del premio Lessing (1959) è una sintesi completa del percorso arendtiano. Ora è disponibile nella traduzione di Laura Boella sia entro l’antologia di Feltrinelli sia in volume a parte, pubblicato da Raffaello Cortina. Qui,verso la fine, Hannah Arendt spiega quale misura di attinenza alla realtà s’abbia da tenere presente in un mondo sfigurato, divenuto inumano: spiega cioè la ragione di quella istanza a comprendere che tiene insieme tutto il suo pensiero. Giustifica il perché, alla domanda “chi sei?”, la sola risposta adeguata - in quegli anni, prima di “emigrazione interiore” in una Germania sempre più nazificata e poi di fuga per la sopravvivenza -, l’unica risposta possibile (malgrado il ribadito rifiuto d’ogni appartenenza) fosse: “un’ebrea. Perché “solo questa risposta teneva conto della realtà della persecuzione” e qualunque altra risposta sarebbe risultata come una grottesca e rischiosa fuga dalla realtà. Elena Loewenthal La Stampa |
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