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Europa Rassegna Stampa
05.10.2006 Secondo Janiki Cingoli se Abu Mazen affronta Hamas non dobbiamo sostenerlo
i paradossi del "dialogo ad ogni costo"

Testata: Europa
Data: 05 ottobre 2006
Pagina: 2
Autore: Janiki Cingoli
Titolo: «Se Abu Mazen tira troppo la corda con Hamas»

Dal EUROPA del 5 ottobre 2006, un articolo di Janiki Cingoli, che sconsiglia, nel momento in cui si profila nell'Autorità palestinese un aperto confronto tra Fatah ed Hamas, un sostegno "cieco" al presidente palestinese Abu Mazen.
Come dire che Abu Mazen va sostenuto fintantochè riesce e vuole mediare con il gruppo terroristico fondamentalista, che rifiuta per motivi religiosi ogni riconoscimento di Israele.
Una posizione che rivela la natura paradossale dell'idea per la quale la "politica" e il "dialogo" devono essere sempre preferiti al confronto. Idea che approda al suo contrario: proprio quando un leader palestinese sembra disposto a giocare il proprio potere sull'ipotesi dell'effettivo riconoscimento di Israele e di un negoziato che escluda la violenza, si decide che non lo si può sostenere.
Il percorso verso la soluzione "politica" e negoziata del conflitto mediorentale cioè, è sbarrato proprio dalla pretesa che nessuno, nemmeno Hamas, nemmeno chi vuole la distruzione totale di Israele (Hamas è controllata da Meshal a Damasco, non da Haniyeh, che comunque non ha mai espresso dissenso rispetto alla statuto genocida dell'organizzazione) sia escluso dal "dialogo".
Ecco il testo:

Il braccio di ferro in corso tra Fatah e Hamas negli ultimi giorni è straripato nelle strade di Gaza, con morti e feriti.
Alla base degli scontri vi sono le manifestazioni promosse da organizzazioni legate al Fatah, che protestano per il mancato pagamento degli stipendi dei pubblici dipendenti e il peggioramento generale delle condizioni di vita della popolazione: manifestazioni che le forze di sicurezza legate al governo Hamas cercano di reprimere, scontrandosi con quelle fedeli a Abu Mazen.
Il presidente palestinese sviluppa così la sua strategia di inclusione-competizione verso l’organizzazione islamica vincitrice delle passate elezioni: da un lato il negoziato sul governo di unità nazionale, dall’altro l’erosione del consenso nelle piazze.
Secondo quanto lui stesso ebbe a dirmi nel corso di un incontro, egli pensa che le elezioni non abbiano dato un’effettiva maggioranza a Hamas, e che solo il meccanismo elettorale e la dispersione dei voti di Fatah abbia prodotto la vittoria degli islamici.
Pertanto, è convinto di poter vincere in nuove elezioni, che ritiene di poter convocare in qualsiasi momento. Dimostrare il fallimento del governo Hamas può rientrare in questa strategia.
La coincidenza della visita di Condoleezza Rice di questi giorni non è casuale: gli Stati Uniti puntano a rafforzare Abu Mazen, sia con fi- nanziamenti volti a alleviare le condizioni economiche della popolazione, messi a disposizione del presidente bypassando il governo, sia rilanciando i vecchi accordi per facilitare i movimenti delle persone. Si sta discutendo di un accordo sul valico tra Israele e Gaza simile a quello in atto al confine di Rafah, tra Gaza e l’Egitto.
In sostanza, la strategia degli Usa è volta a minare la credibilità del governo Hamas, facilitandone la caduta, nell’ottica della più complessiva lotta all’“asse del male”.
Ciò spiegherebbe l’improvviso indurimento delle posizioni di Abu Mazen nel suo intervento all’assemblea dell’Onu, quando egli ha dichiarato che il governo di unità nazionale in via di formazione avrebbe assicurato il rispetto delle condizioni della comunità internazionale: il riconoscimento di Israele, la rinuncia alla violenza e il riconoscimento dei trattati pregressi, provocando l’immediata smentita di Hamas.
In effetti, i negoziati svoltisi fino a quel momento, basati sul “documento dei prigionieri” e sul Piano arabo di Beirut, prevedevano una disponibilità al riconoscimento dello stato ebraico, una volta conclusi i negoziati e non pregiudiziale; e per quanto riguarda la violenza, una rinuncia alle azioni fuori dai Territori palestinesi (cioè agli atti terroristici dentro Israele), e una tregua alle azioni militari all’interno. Per quanto riguarda il riconoscimento dei trattati pregressi, la delega a trattare data a Abu Mazen in quanto Presidente dell’Olp, e non della Anp, faceva intravedere una via di uscita: è stata l’Olp, e non l’Anp a firmare gli accordi di Washington del ’93.
L’Unione Europea e il Quartetto avevano appoggiato con decisione il negoziato in corso per arrivare al governo di unità nazionale. Gli Usa pare stiano spingendo in altra direzione.
Si tratta, però, di un gioco rischioso. La realtà è che oramai nel mondo palestinese si sono creati due blocchi, Fatah e Hamas, e che nessuno dei due è in grado di rappresentare da solo quella società. Respingere Hamas fuori dal governo significherebbe indurlo ad abbandonare la scelta parlamentare, privilegiando la lotta clandestina. Le crepe apertesi tra i dirigenti dell’esterno, come Meshall, e quelli dell’interno, impegnati nel governo, si ricomporrebbero.
Al contrario, un governo di unità nazionale potrebbe rafforzare la componente interna di Hamas, provocandone una evoluzione centrista, in qualche modo analoga a quella di Kadima rispetto al Likud (anche se certamente Hamas e Likud non son comparabili).
Lo stesso appoggio a Abu Mazen, certo essenziale, non può essere incondizionato e cieco, e deve tener conto di questo più complessivo quadro di riferimento.

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