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La Stampa Rassegna Stampa
03.10.2006 E' scomparso lo scrittore André Schwarz-Bart
un ricordo di Elena Loewenthal

Testata: La Stampa
Data: 03 ottobre 2006
Pagina: 29
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «Addio a Schwarz- Bart tutto in un romanzo»
Da La STAMPA del 3 ottobre 2006:

CI sono scrittori che segnano la storia sommessamente, come in punta di piedi. Il più delle volte sono autori di un libro soltanto, o quasi: come se dopo, o prima, scrivere fosse impossibile. È questo certamente il caso di André Schwarz-Bart, nato a Metz in Lorena nel 1928 e morto ieri, nel giorno ebraico del Kippur. Che è un digiuno di espiazione ma non soltanto questo: è in fondo il momento dell’anno in cui cielo e terra sono più vicini che mai ed è difficile prendere per casuale questa concomitanza. In fondo il suo romanzo, L’ultimo dei giusti, è un dialogo continuo fra l’alto e il basso, fra la storia concreta e quella, quasi indicibile, dell’anima.
André Schwarz-Bart era nato in una città dove in quegli anni un abitante su dieci era ebreo. La sua famiglia vi era giunta dalla Polonia nel 1924, ma la guerra e lo sterminio nazista non le diedero il tempo di ambientarsi. Rinchiuso in un centro d’internamento di Parigi con i fratelli, André riuscì a salvarsi con molte vicissitudini, entrando poi appena quindicenne nei ranghi del Maquis, la resistenza francese, e perdendo gran parte dei suoi cari. Dopo la guerra riuscì faticosamente a terminare gli studi alla Sorbona.
L’ultimo dei giusti resta di fatto il suo primo e unico ­ grande ­ romanzo. Pubblicato in francese nel 1959 e ben presto esportato in varie lingue, fu tradotto in Italia, da Feltrinelli, già nal 1960, nella versione di Valerio Riva. E si conquistò subito il rango di mesta, seppure imperfetta, icona della letteratura ebraica novecentesca, con il suo carico di inesprimibile dolore. Imperfetta, sì, perché basata su una lettura «corrotta» della leggenda che il titolo evoca. Dice infatti la tradizione d’Israele che il mondo è sorretto dalle opere buone di 36 santi che in ogni generazione vivono nella assoluta clandestinità della loro grandezza. Forse neppure sanno di essere così importanti, per la sopravvivenza del mondo che altrimenti non avrebbe in sé sufficiente misura di bontà da convincere l’Eterno a tenerlo in piedi. Questa leggenda si dirama lungo la storia del popolo ebraico in una quantità di suggestioni morali e poetiche. È come se, in fondo, la tradizione andasse sempre, sommessamente, in cerca di questi modelli di virtù nascosta grazie ai quali tutti noi acquisiamo il diritto di vivere.
Schwarz-Bart riprende questa leggenda e la racconta a suo modo: come fosse una catena di discendenze, una sorta di eredità familiare trasmessa di generazione in generazione. Il risultato è quella che viene definita, in modo approssimativo, una «Passione» del popolo ebraico. Collettiva e individuale al tempo stesso, partendo dal buio Medio Evo («La vera storia comincia molto prima, verso l’anno Mille della nostra era, nella vecchia città anglicana di York. Più precisamente l’11 marzo del 1185) fino ad arrivare a Erni Levy, l’ultimo dei giusti con il quale la catena s’interrompe perché una storia terribile come nessuno avrebbe mai potuto immaginare ha voluto che così fosse.
L’interpretazione arbitraria (come è del resto ogni leggenda ogni volta che di nuovo si racconta) genera un romanzo straziante e dolce, commovente in un modo che stupisce ogni lettore. Carlo Bo, ad esempio, diceva che «la lettura di questo libro è assai più dolorosa per un cristiano che non per un ebreo. Come è stata possibile l’enorme vampata di vergogna e di ignominia?». Erni, il protagonista, non è solo l’ultimo dei giusti, è anche il custode di tutto ciò che in quei secoli s’è trasmesso e vissuto, sofferto e rimpianto. Il romanzo di Schwarz-Bart ha una incredibile sequenza di toni, una musicalità aspra, tutta sua. È una specie di lungo soliloquio ma anche l’eco di un coro innumerevole: «Talora, è vero, il cuore vorrebbe scoppiare di dolore. Ma spesso anche, e specie di sera, non posso fare a meno di pensare che Erni Levy, morto sei milioni di volte, sia ancora vivo, in qualche posto. Ieri, mentre fremevo disperato in mezzo alla strada, inchiodato al suolo, una goccia di pietà cadde dall’alto sul mio viso; non un alito di vento nell’aria, non una nube in cielo. C’era soltanto una presenza».

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