"Processo dell'Islam alla civiltà occidentale" raccontato, nel 1955, da Guido Piovene
Testata: La Stampa Data: 03 ottobre 2006 Pagina: 29 Autore: Enzo Bettiza Titolo: «Piovene va alla jihad»
Dalla STAMPA del 3 ottobre del 2006:
«L’ISLAM non prevede confini, ma l'unità dei musulmani solidali fra loro. Tale unità esclude partiti e gruppi. L'Occidente ha portato invece i parlamenti, i partiti, le camarille. L'Occidente ha imposto la manomissione dello Stato sui beni di Dio e non potrà migliorare: preso dal culto del denaro e della forza, resterà infecondo. Si riconosca che le leggi dell'Occidente in Oriente hanno fatto fallimento. L'Islam subisce, non accetta, la civiltà europea». Riecheggiano in queste parole, che fra poco dirò quando e dove sono state pronunciate, alcuni degli argomenti che oggi contrappongono l'idea di una civiltà islamica risorgente e militante nei confronti di una civiltà occidentale «infeconda» e in declino. Vi ritroviamo, insieme con la refrattarietà alle pratiche democratiche, l'esaltazione di una umma coranica senza confini: la vasta, fluida comunità dei seguaci di Maometto che, vedendo nel Corano il codice dei codici, rifiuta nell'intimo i concetti laici di diritto e Stato di diritto come li concepiamo in Occidente. Anche se in quelle parole non si nomina ancora l'impeto purificatorio della jihad, né si parla del martirio degli shahid, vi si avverte tuttavia come un preannuncio ideologico delle violenze terroriste e teologiche del XXI secolo: sebbene pronunciate quasi cinquant'anni fa, esse sembravano configurare già uno sfondo teorico di contrapposizione agli odierni tentativi d'innesto di una moderna civiltà politica in Iraq, in Afghanistan, in Libano, in Palestina. Sembravano, addirittura, preannunciare lateralmente, nel ripudio del senso dello Stato e della razionalità giuridica, la grande disputa su ragione, fede e diversità monoteiste che ha portato di recente perfino l'Islam moderato allo scontro col Pontefice di Roma. Orgoglio integralista
Le parole citate risalgono al settembre 1955, e furono ribattute con reciso orgoglio integralista dal magistrato e giurista libanese Hassan Kabalan che coronò il suo intervento dicendo: «Mi sono già fatto un giudizio sulla civiltà occidentale leggendo i libri occidentali: la condanna è definitiva. Il musulmano, di qualunque ceto, luogo di nascita e grado di cultura, porta l'idea d'essere superiore o almeno eguale agli altri». Tali osservazioni, superbe e dure, e nel fondo anche minacciose, non vennero comunque espresse in uno scontro polemico a distanza tra un maomettano erudito, islamista ante litteram, e qualche infedele o gruppo di infedeli lontani. Vennero distillate, con pacata tonalità accademica, a distanza ravvicinata, in un convegno di autorevoli intellettuali musulmani e italiani riuniti a Venezia nell'avvolgente silenzio conventuale della palladiana Fondazione Cini. La squadra italiana era presente con alcuni grandi dell'islamistica del Novecento: l'orientalista Giorgio Levi della Vida, l'arabista Francesco Gabrieli, l'insuperato curatore della versione italiana del Corano Alessandro Bausani. Ma la cosa forse più importante da ricordare è che la cronaca di quell'interessante simposio, tanto remoto nel tempo quanto attuale negli argomenti, ci è stato tramandato da uno dei più folgoranti intellettuali del secolo scorso: Guido Piovene. Convenuto speciale all'isola di San Giorgio, outsider d'eccezione nel dibattito, Piovene qualche anno dopo ne pubblicherà il resoconto con il titolo Processo dell’Islam alla civiltà occidentale: libretto d'una ottantina di pagine di cui quasi nessuno s'accorgerà. La medesima disattenzione verrà riservata alla riedizione dell'opuscolo che, ripescato dagli Oscar Mondadori con una postfazione di Franco Monteforte, entrerà silenziosamente nelle librerie proprio due mesi dopo l’11 settembre 2001. Il silenzio, che del resto circonda anche le opere maggiori del grande scrittore vicentino, ci appare tanto più strano e immeritato se messo a confronto con le aggressioni jihadiste contro l'Occidente e quindi con la scottante attualità dei temi trattati: la compatibilità tra Islam e democrazia, i malintesi di un dialogo vacuo tra le religioni, la necessità di chiarire senza edulcorare le diversità di fondo tra la Bibbia e il Corano, la possibilità di integrazione tra l'universo musulmano e il sistema civile ed economico occidentale. Dolce e impenetrabile
Piovene in questo suo straordinario reportage culturale si fa egli stesso protagonista del dibattito; vi assume il ruolo di dibattente via via acuto, appassionato, disincantato, fino a diventare vero e proprio protagonista e giudice della discussione. Per esempio s'imprime con forza nella nostra memoria lo scatto, per così dire audiovisivo, con cui egli inquadra la figura e «l'oratoria omerica» dell'egiziano Taha Husein, nutrito di pensiero occidentale, perfetto conoscitore del francese, che l'Europa del tempo considerava il maggior scrittore del Medio Oriente musulmano: «Lo vedo salire alla tribuna a piccoli passi sostenuto dal segretario, col suo volto affilato, dolce e impenetrabile, gli occhi dissimulati da occhiali neri. Figlio di contadini poveri dell'alto Egitto, Husein si ammalò agli occhi nella prima infanzia; fu affidato a un guaritore popolare anziché a un medico, e fu accecato dalla cura. I suoi discorsi hanno un fondo irto, tagliente, ma la durezza sostanziale è ravvolta in un'eloquenza scorrevole, melliflua, insinuante, senza sbalzi di tono. Nell'ascoltare quei discorsi così incantevoli, tutti in chiave spiritualistica, nei quali un'intransigenza fondamentale è mascherata dalla forma conciliativa, si direbbe di maneggiare una crema che celi qualche frammento di rasoio». Le accuse che all'epoca l'intelligencija islamica muoveva agli occidentali, come si evince dalle schermaglie sofisticate del convegno veneziano, erano quasi sempre caratterizzate da un miscuglio di «crema» e di «frammenti di rasoio». Lo scontro interreligioso non era ancora dichiarato apertamente, anzi si tendeva a confonderlo e neutralizzarlo con la supposizione teorica di una certa parentela libresca e abramitica delle confessioni monoteiste. In quell'epoca segnata dal nasserismo rampante, dai nazionalismi arabisti insorgenti, la polemica politica con l'Occidente prevaleva sulla disputa teologica: si parlava della crisi algerina, si sparavano le ultime feroci bordate contro il colonialismo morente, si preparavano le guerre contro gli ebrei e si elevavano i palestinesi al rango di popolo eletto della umma islamica. Incalzava l'incoercibile Taha Husein: «L'accusa si rivolge dunque contro la colonizzazione, contro la volontà di credersi superiori agli altri. Non contro il Cristianesimo. La prova è che gli occidentali hanno la coscienza inquieta, sentendosi in peccato contro i loro stessi principii». La diagnosi però dava adito a molti dubbi: sembrava evitare di proposito il contrasto tra religione occidentale e orientale, per diluirlo nel contrasto mondiale tra oppressori e oppressi. Ma, sotto sotto, come un cupo brontolìo d'accompagnamento s'avvertiva al tempo stesso l'ebollizione di un atavico risentimento religioso che, più tardi, avrebbe rafforzato e inasprito e infine rimpiazzato il fronte dei nazionalismi anticolonialisti. Non appena si sfiorava il tema religioso, diversi fra gli studiosi musulmani presenti, una volta stabilite e sceverate certe superficiali convergenze tra Islam e Cristianesimo, convenivano nel dire che l'insegnamento islamico era comunque meno tragico e meno disumano di quello cristiano: più aperto alla tolleranza, più vicino alla vita, più refrattario alla morte, al sacrificio, alla follia della crocefissione che uccide Dio stesso fattosi uomo. Ma anche qui ricompariva l'Islam che già Hegel definiva «mare infinito» e «patria della mutevolezza» dove nulla era saldo e permanente. Comunismo d’origine divina
Dopo l'osanna alla tolleranza e alla libertà, Hassan Kabalan, magistrato del Libano, cominciò a prendersela con gli occidentali che non riuscivano o non volevano comprendere l'integrità del diritto orientale. «Impossibile per esempio», disse, «far comprendere agli europei perché il musulmano uccide la donna, e specialmente la sorella, che commette il male». Un suo collega definì «ubriaconi» i francesi, un altro rimpianse Annibale la cui sconfitta impedì al mondo di diventare «più africano», un terzo asserì che nella religione islamica 400 milioni d'uomini vivono all'unisono e commentò: «Il nostro è un comunismo molto pericoloso per i comunisti perché d'origine divina». Nei giorni nostri, che, secondo la profezia di Khomeini, vedono il «comunismo d'origine divina» sostituire il comunismo ateo nella lotta al «Grande Satana», la religione islamica ospita oltre un miliardo di credenti. La conclusione di Piovene, pur relativistica in alcune proposizioni («la civiltà dell'Occidente non è la civiltà assoluta»), era stata alla fine del convegno molto lucida ed esplicita: «Sotto una compitezza formale e di maniera, l'atteggiamento musulmano è stato quello di uomini che non vogliono dimenticare d'essere parte in un conflitto. Come nei comunicati di un Paese in guerra, essi non volevano ammettere la minima colpa, anche storica, qualsiasi fatto tale da indebolire la loro posizione di grandi accusatori». Tutto questo già nel remotissimo 1955.
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