"Washington e Tel Aviv" (dove il quotidiano comunista ha stabilmente trasferito la capitale d'Israele, ndr) "probabilmente sorridono" di fronte alla prospettiva di una guerra civile palestinese, dato che il loro scopo è la creazione di "uno stato palestinese senza sovranità reale". L'accusa a Israele di voler impedire la nascita di uno stato palestinese ormai ha perso credibilità (in fondo c'è stato il ritiro da Gaza), e così si trasforma in quella di volere uno stato "senza sovranità". Per sovranità, Giorgio intende,come i terroristi, che non riconosca Israele e conservi il "diritto" alla "resistenza".
Intanto "3 milioni e mezzo di palestinesi (...) devono fare i conti ogni giorno con l'occupazione militare israeliana, il blocco economico di Cisgiordania e Gaza e il continuo deteriorarsi delle condizioni di sicurezza."
Il quadro tracciato da Michele Giorgio sul MANIFESTO del 3 ottobre 2006 sarebbe più completo , e più onesto, se ricordasse che l'insicurezza dei palestinesi e la violenza tra fazioni, così come le misure militari israeliane, traggono origine da un'unico fattore di destabilizzazione e di distruzione della sovranità dell'Autorità palestinese: il terrorismo.
Ecco il testo:
Non basteranno gli appelli alla calma e all'unità nazionale a cancellare la «domenica nera» di Gaza, costata la vita a otto persone, tra cui tre civili, e il ferimento di altre 130. Quella di due giorni fa è una ferita profonda, difficile da rimarginare, perché mai come in questi giorni la tensione tra Hamas e Al-Fatah, o meglio tra il governo e la presidenza dell'Anp, è stata tanto alta. L'esecutivo di unità nazionale ormai è un miraggio. Washington e Tel Aviv probabilmente sorridono e pensano che sta per realizzarsi il disegno che vede il presidente Abu Mazen sciogliere con un decreto l'esecutivo di Hamas e convocare nuove elezioni politiche e presidenziali, come peraltro anticipava ieri il quotidiano arabo Al-Khalij riferendo indiscrezioni raccolte durante i recenti viaggi del rais palestinese in varie capitali arabe. Una mossa che potrebbe rappresentare la scintilla della guerra civile, di un bagno di sangue che nessun palestinese vuole, nella consapevolezza che farebbe solo gli interessi di chi sta lavorando per ottenere la creazione di uno stato palestinese senza sovranità reale. Sullo sfondo ci sono 3 milioni e mezzo di palestinesi che devono fare i conti ogni giorno con l'occupazione militare israeliana, il blocco economico di Cisgiordania e Gaza e il continuo deteriorarsi delle condizioni di sicurezza.
Ieri, dopo il ritiro della forza speciale di Hamas, dispiegata in strada a Gaza dal ministro dell'interno Said Siam allo scopo di impedire le proteste per il mancato pagamento dei salari - attuate da giorni dagli agenti dei servizi di sicurezza fedeli ad Abu Mazen - non ci sono state altre vittime ma la giornata è stata segnata ugualmente da episodi di violenza. Non sono serviti a molto gli appelli alla calma lanciati da Abu Mazen e dal premier Ismail Haniyeh. All'ospedale Shifa di Gaza city almeno tre persone sono rimaste ferite in uno scambio di colpi d'arma da fuoco durato una ventina di minuti fra guardie di Hamas e miliziani di Fatah che accompagnavano i parenti di un palestinese ucciso domenica, giunti a ritirarne il corpo. Medici e pazienti si sono dovuti mettere al riparo per non venir colpiti. A Nablus (Cisgiordania), militanti di Fatah hanno aperto il fuoco contro le guardie del corpo del vice primo ministro Nasser Shaer, ferendone due, mentre a Beit Hanun (Gaza) un gruppo di studenti ha prima dato fuoco al ministero dell'agricoltura e poi hanno lanciato sassi contro l'abitazione di un ministro di Hamas. Si è concluso invece senza conseguenze il breve rapimento di Samir Birawi, esponente di Hamas e funzionario del ministero delle finanze, sequestrato da militanti armati che gli hanno anche bruciato l'auto. Hamas da parte sua ha ordinato la chiusura di tutti i ministeri in risposta alle contestazioni, ma a questa decisione Fatah ha replicato proclamando a Ramallah uno sciopero generale. Incidenti anche a Gerico, dove è stato ucciso un negoziante. A Hebron sono stati devastati gli uffici dei deputati di Hamas e scontri a fuoco sono avvenuto anche a Jenin e Qabatiya, dove è stato anche attaccato un centro culturale vicino al movimento islamico. Si attendono ora le decisioni che Abu Mazen prenderà dopo il suo rientro a Ramallah, previsto oggi, al termine della visita in alcune capitali arabe.
In questo clima di tensione altissima tra qualche ora giungerà in Israele e Territori occupati Condoleezza Rice ma l'obiettivo principale del Segretario di stato non è quello di proporre soluzioni a israeliani e palestinesi ma invece compattare e far emergere un «fronte moderato arabo» da contrapporre all'Iran. Oggi Rice parteciperà a una riunione del Consiglio di Cooperazione del Golfo - di cui fanno parte le petro-monarchie arabe alleate di Washington - alla quale saranno presenti anche anche il presidente egiziano Mubarak e re Abdallah di Giordania. Gli Stati Uniti sperano ottenere un «sì» a mezza bocca degli arabi «moderati» alla loro proposta di sanzioni (se non di peggio) contro Tehran ma a Riyadh e nelle altre capitali del Golfo se da un lato è forte l'ostilità verso il programma nucleare iraniano dall'altro nessun leader locale è disposto ad esporsi. Ieri un noto analista arabo, Abdallah Iskandar, di Al-Hayat, ha «spiegato"» al Segretario di stato che se gli Usa sono realmente interessati a rilanciare il ruolo dei Paesi arabi «moderati» e a ridurre l'influenza dell'Iran nella regione, allora devono risolvere con giustizia la questione palestinese e molti altri nodi, compreso quello iracheno. Dovrebbero ridare fiato al piano arabo del 2002 (prevede il ritiro completo di Israele dai territori siriani, libanesi e palestinesi che occupa, in cambio del riconoscimento da parte del mondo arabo) e fare pressioni su Tel Aviv affinché rinunci alla sua politica di «soluzione militare» dei problemi per scegliere invece la via del negoziato e del rispetto della legalità internazionale.
Naturalmente, Iskandar non ha espresso un'opinione ha "spiegato" la necessità di ricorrere a un piano che, giova ricordarlo, chiede anche il riconiscimento del "diritto al ritorno" dei profughi (che , applicato, porterebbe alla distruzione di Israele in quanto stato a maggioranza ebraica) e offre, in cambio di un ritiro totale dai territori conquistati nel 67, soltanto il riconoscimento di un dato di fatto.
Degno di nota anche l'articolo di Stefano Chiarini , per il quale le richieste di un disarmo di Hezbollah sarebbero "ingerenze".
Ecco il testo:
Il mancato completamento del ritiro israeliano dal sud del Libano, dove l'esercito di Tel Aviv ancora controlla il centro di Ghajar e le fattorie di Sheba, darà ad Hezbollah «il diritto di far fronte all'occupazione». Lo ha sostenuto ieri il numero due del movimento sciita, Sheikh Naim Khassem, a poche ore dal ritiro delle truppe israeliane da una decina di centri libanesi a ridosso del confine ma non dalle due strategiche località laddove si incontrano i confini tra Israele, Libano e Siria. «Riteniamo la comunità internazionale - ha continuato l'esponente di Hezbollah, in un'intervista rilasciata al quotidiano progressista «As Safir» con una prima critica alle Nazioni unite - responsabile della continuazione dell'occupazione israeliana». Gli ha fatto eco il «moderato» leader del movimento sciita «Amal», alleato e concorrente degli Hezbollah, Nabih Berri, attualmente presidente del parlamento, secondo il quale «La nostra resistenza rimarrà totale fino a quando Israele manterrà posizioni in territorio libanese» . La dura presa diposizione dei due movimenti della resistenza sciita, se da una parte deriva dalla continuazione dell'occupazione israeliana di parti del territorio libanese, strategicamente molto importanti, come il paese di Ghajar , con le vicine fonti del Wazzani e dell'Hasbani, dall'altra avrebbe anche a che fare con le indiscrezioni dell'Agenzia francese «Afp» secondo la quale le truppe dell'Unifil avrebbero in realtà due «regole di ingaggio», una ufficiale e l'altra «riservata»: per la prima il loro ruolo si limiterebbe al sostegno dell'esercito libanese mentre nelle seconde, avrebbero anche il potere di arrestare eventuali militari degli Hezbollah, di fermare autoveicoli «sospetti» e aprire il fuoco contro chiunque venga visto girare armato nella regione. In altri termini le forze dell'Unifil avrebbero la possibilità di «usare la forza al di là dell'autodifesa per fare in modo che l'area di operazioni Onu (a sud del fiume Litani ndr) non venga utilizzata per attività ostili di qualsiasi natura». Il comandante del contingente francese, interrogato al proposito, ha sostenuto che «non si tratta di disarmare gli Hezbollah o di cercare le loro armi ma di impedirgli di muoversi». Più in generale se l'esercito libanese non dovesse intervenire allora le truppe Unifil avrebbero vasti poteri di intervento: «Se ad esempio dovessimo incontrare dei miliziani armati - ha sostenuto un ufficiale dell'Unifil - e se questi si arrendessero allora li consegneremo all'esercito libanese ma se dovessero resistere possiamo aprire il fuoco». Il tutto sulla base della risoluzione 1701 secondo la quale la zona a sud del fiume Litani non dovrà più vedere una presenza della resistenza libanese. Sarebbero queste le assicurazioni che avrebbero convinto i comandi israeliani a ritirare i loro uomini, sabato scorso, da una decina di villaggi in territorio libanese ma allo stesso tempo a rimanere nella parte libanese del paese di Ghajar, alle pendici del Golan, diviso a metà dalla «linea blu», il confine tra i due paesi stabilito dall'Onu, e a minacciare nuovi raid nel Libano del sud. A tale proposito il comandante in capo dell'esercito libanese, generale Michel Sleiman, ha esortato ieri i suoi uomini «ad essere pronti a rispondere ad ogni aggressione o violazione israeliana» del cessate il fuoco. Intanto le ingerenze internazionali per un disarmo degli Hezbollah stanno esasperando sempre più il conflitto interno al Libano. Ieri si sarebbe avuto un nuovo scontro armato, questa volta sulla Cornish al- Mazra'ah, nei pressi della moschea Abdel Nasser, tra un centinaio di seguaci (sunniti) della Hariri Inc., il partito-azienda «Al Mustaqbal», e un gruppo di militanti sciiti di Amal. Nello scontro, durato più di mezzora, vi sarebbe stato un morto e una ventina di feriti.
Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione del Manifesto