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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Zalkind Hourwitz Apologia degli ebrei 02/10/2006
Apologia degli ebrei –      Zalkind Hourwitz
Casa Editrice              Medusa



Venditore ambulante per necessità e filosofo per vocazione, trasandatissimo
nel vestire ma poliglotta, figlio di un rabbino ma fieramente avverso
all’autorità dei maestri della Torah. Zalkind Hourwitz fu un ebreo fuori
luogo, che riuscì a lasciare una traccia nella storia del pensiero europeo,
nonostante il proprio destino d’irregolare.
Nato nei pressi di Lublino, in Polonia, nel 1751, si trasferisce quasi
subito a Berlino per avvicinarsi alla cerchia di Moses Mendelssohn, il
principe dell’illuminismo ebraico. Ma la città di Federico il Grande non è
che l’inizio di una parabola di sradicamento, a cui fanno seguito Nancy,
Metz, Strasburgo e infine Parigi. Nella capitale francese, Hourwitz offre
di giorno la propria merce per la strada e studia di notte in un tugurio
della rue Saint-Denis finchè, nel 1789, arriva la svolta. La rivoluzione
scuote dalle fondamenta anche la condizione ebraica e Zalkind non si lascia
sfuggire l’occasione.
Entra nella Guardia nazionale e soprattutto  si fa notare con un’apologia
degli ebrei che attira, fra gli altri, gli elogi di Mirabeau. Grazie a
questo testo, scritto in uno stile ironico e disinvolto, si assicura la
fama di difensore pubblico degli ebrei e ottiene il posto di conservatore
dei manoscritti orientali alla Biblioteca reale.
L’”Apologia”, pubblicata ora per la prima volta in italiano da
Medusa,rispondeva ad un quesito lanciato dall’Accademia delle scienze e
delle arti di Metz: “Esistono sistemi per rendere gli ebrei più utili e più
felici in Francia?”. Di fronte al razionalismo illuminista della domanda,
la risposta di Hourwitz suona provocatoriamente semplice: “Smettere di
renderli infelici e inutili, accordando o piuttosto restituendo loro il
diritto di cittadinanza, di cui sono stati privati in contrasto con tutte
le leggi divine e umane”.
La forza del pamphlet viene soprattutto dallo spaesamento dell’autore, da
quel suo sentirsi abitante di un territorio culturale sospeso tra un “non
più” e un “non ancora”. Hourwitz sa di non appartenere più alla tradizione
religiosa del giudaismo, che pur conosce bene. Allo stesso tempo sa che la
Francia, come gran parte dell’Europa, giudica ancora gli ebrei secondo
pregiudizi millenari. Ed è per questo che la sua prosa ritorna
ostinatamente al concetto di normalità, per dimostrare che non esiste alcun
caso giudaico, se non nell’immaginario collettivo di chi ha “oppresso gli
ebrei per parecchi secoli senza nemmeno sapere perché”. Proprio le
persecuzioni e la condizione di inferiorità in cui sono costretti a vivere
rende gli ebrei “infelici e inutili per lo Stato”, scrive Hourwitz, mentre
sarebbe assai semplice trovare loro un posto in un nuovo ordine sociale. La
ricetta si basa sui principi rivoluzionari: libertà di movimento e
commercio ed eguaglianza con gli altri cittadini. Non manca qualche affondo
polemico contro il potere dei rabbi. Secondo Hourwitz, l’emancipazione
ebraica deve infatti accompagnarsi con l’assoluto divieto per i rabbini di
esercitare qualsiasi autorità al di fuori della sinagoga.
Ma questa polemica in nome della ragione non impedisce a Hourwitz di
condannare l’antigiudaismo di molti illuministi, primi fra tutti Rosseau e
Voltaire, che “hanno calunniato un popolo infelice l’uno per spirito di
paradosso e l’altro per risentimento personale”.
Negli anni del “terrore”, Hourwitz prese le distanze da processi
rivoluzionari e si ritirò dalla vita pubblica. Morì in grande povertà nel
1812,mentre lavorava febbrilmente al grande sogno della sua vita, quello di
una lingua universale, che unisse gli uomini in una semantica della
normalità.

Giulio Busi

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