La guerra non serve a combattere il terrorismo, ripete Timonthy Garton Ash ma non sa indicare un'alternativa
Testata: La Repubblica Data: 29 settembre 2006 Pagina: 1 Autore: Timonthy Garton Ash Titolo: «Il terrorismo e i dubbi Usa»
Basato su una sintesi tendenziosa del rapporto delle agenzie americane di intelligence sullo stato della guerra al terrorismo (vedi, per un'informazione precisa e completa questo articolo ripreso dal Foglio )per , l'articolo di Timonthy Garton Ash pubblicato da La REPUBBLICA del 29 settembre 2006 ripropone un luogo comune degli oppositori della guerra al terrorismo: per sconfiggere il jihadismo ci andrebbe altro. Ash aggiunge un appello a chi la pensa come lui affinchè si unisca al necessario sforzo per delineare una strategia alternativa che finora nessuno ha saputo trovare. Ash stesso, tuttavia, sembra a corto di idee in proposito, e manca di avanzare una proposta.
Nell'attesa ci sembra che all'Occidente aggredito non resti che continuare a difendersi.
Ecco il testo:
QUI a Washington, cinque anni dopo che George Bush ha dichiarato la sua «guerra globale al terrorismo» in risposta agli attacchi dell´11 settembre, registro uno di quei lievi smottamenti sotterranei che potrebbero far presagire un significativo spostamento in politica estera. Movimenti come questo si rilevano parlando in privato con alti funzionari dell´amministrazione americana, nelle allusioni e nelle frasi lasciate a metà, nel non detto come nel detto, nelle mancate obiezioni a quanto affermi, nel linguaggio del corpo e nelle espressioni del viso, in tutti quei registri di comunicazione che non si colgono attraverso internet, la televisione, l´email o il cellulare, a dire il vero attraverso nulla di alternativo all´esperienza, tuttora insostituibile, del colloquio faccia a faccia tra due esseri umani. E poiché si tratta di un movimento così tenue e sotterraneo, a malapena ravvisato nei discorsi pubblici, figurarsi negli atti politici pubblici, si ha anche la consapevolezza che potrebbe non realizzarsi mai. Basta che salti fuori qualcosa, che nella Sala ovale una argomentazione decisiva spinga in direzione opposta e si trasformerà in una mancata svolta. Comunque, ecco quello che credo di vedere. Non solo è sempre più netta la percezione che gli Usa hanno di fronte un numero maggiore di terroristi jihadisti rispetto a cinque anni fa, e che sotto l´occupazione guidata dagli americani l´Iraq è diventato il loro campo di addestramento, grido di guerra e «causa celebre», per citare il documento segreto di valutazione dell´intelligence nazionale dell´aprile 2006, il cui contenuto è parzialmente trapelato lo scorso fine settimana agli organi di stampa ed è stato in parte desecretato dall´amministrazione Bush martedì sera. Da martedì è ufficiale. Sul sito web del Direttore dell´Intelligence Nazionale (www.dni.gov) è consultabile «il giudizio-chiave» consolidato espresso da sedici agenzie di intelligence americane. L´interpretazione politica di tale giudizio è ancora oggetto di acceso dibattito, soprattutto con l´approssimarsi delle elezioni di medio termine, previste tra soli 40 giorni, ma sarebbe arduo ora come ora negarne le conclusioni fondamentali. È una conferma di ciò che la gran parte dei giornalisti e degli analisti indipendenti e molti militari sul territorio denunciano da mesi, se non da anni. Ma lo smottamento che registro va più in profondità. È la sensazione sempre più diffusa non solo che la «guerra al terrorismo» non si vince esclusivamente con i mezzi militari (l´amministrazione Bush lo ha sempre riconosciuto, quanto meno in linea di principio) ma che in questi ultimi cinque anni si è fatto eccessivo affidamento sulle armi e sui soldati, sfruttando troppo poco gli altri strumenti a disposizione. Robert Hutchings, che per due anni, dall´inizio del 2003 all´inizio del 2005, ha presieduto il National Intelligence Counsel incaricato di raccogliere le Valutazioni dell´intelligence nazionale la sintetizza così: gli Usa, sostiene, hanno «sovramilitarizzato» la lotta al terrorismo. Seduto tra le pareti ristrutturare del Pentagono, questa cittadella della potenza militare americana stranamente vecchio stile, un alto funzionario mi dice che la chiave per il successo delle operazioni di «controinsurrezione» è all´80 per cento politica e solo al 20 per cento militare. Questo al Pentagono. Sull´altra sponda del Potomac, al Dipartimento di Stato, non si parla d´altro che di conflitto multidimensionale, generazionale, che associa la diplomazia classica e l´esercizio del potere economico alle nuove strategie per promuovere la democrazia nel mondo islamico. Le analogie si pongono con la guerra fredda, non con quella «calda». Chiaramente a qualcuno ancora piace caldo, in particolare nell´ufficio del vice presidente Dick Cheney – ma il numero e l´influenza di questi personaggi sono diminuiti con l´ulteriore peggioramento della situazione in Iraq. Il banco di prova, a giudizio di tutti, oggi è l´Iran, non l´Iraq. Che differenza fanno una consonante e cinque anni. La politica oggi in Iraq mira a contenere il danno. La Valutazione dell´intelligence nazionale parzialmente desecretata conclude che «il conflitto in Iraq è diventato la [nota bene, la, non una] "causa celebre" per gli jihadisti, alimentando un profondo rancore per il coinvolgimento americano nel mondo musulmano e facendo proseliti per il movimento jihadista globale». E prosegue: «Se gli jihadisti, lasciando l´Iraq, avessero e dessero la sensazione di aver fallito, a nostro giudizio il numero di combattenti ispirato a portare avanti la lotta sarebbe minore». Il primo giudizio è basato su dati di fatto, il secondo su un´ipotesi informata, ma è un´ipotesi sufficientemente plausibile. Rispetto all´Iran, grande vincitore della guerra in Iraq, gli Stati Uniti si trovano di fronte a dilemmi di altro genere. Nel momento in cui questo articolo va in stampa non sappiamo se il capo dei negoziatori iraniani, Ali Lariani, abbia l´autorizzazione del leader supremo, l´Ayatollah Khameini (è lui, faremmo bene a non dimenticarlo, il vero presidente dell´Iran) a dare avvio ai negoziati circa il programma nucleare iracheno basati sulla sospensione del processo di arricchimento dell´uranio. Se la sua risposta sarà affermativa, avremo lo straordinario spettacolo del Segretario di Stato americano seduto ufficialmente al tavolo negoziale con il governo della Repubblica Islamica dell´Iran, cosa mai verificatasi nei 27 anni trascorsi dalla rivoluzione islamica. Se la sua risposta sarà negativa, gli Usa solleciteranno la Russia, la Cina e noi europei a percorrere la via delle sanzioni con l´autorizzazione dell´Onu. Ma questa scelta immediata apre un interrogativo più ampio: il presidente George W. Bush sarà pronto a lasciare la Casa Bianca con l´Iran che, per vie traverse, potrebbe continuare a cercare di sviluppare in segreto un´arma nucleare? È preparato a bombardare l´Iran per impedire o, quanto meno, per frenare questo processo? Sappiamo che il Pentagono dispone di piani di emergenza per bombardare sospetti impianti nucleari. L´aeronautica si dichiara pronta a farlo, ma l´esercito protesta perché saranno poi le truppe in loco a dover fronteggiare la rappresaglia iraniana in Iraq e altrove. Nell´ambito di una minuziosa vigilanza e pianificazione gli uomini della Cia e le forze speciali a quanto pare sono arrivati al punto di mappare i condotti di aerazione, filtrare l´aria calda alla ricerca di tracce di radioattività provenienti da possibili impianti nascosti (o forse solo locali caldaia o esche). Sappiamo anche che stando alle simulazioni del Pentagono, gli Usa usciranno pesti dal bombardamento dell´Iran. E che in pratica tutti i consiglieri politici all´interno del governo sono contrari. Ma alla fine a decidere sarà uno solo: George W. Bush. E qui torniamo a quel sotterraneo smottamento verso un mutato approccio nei confronti del ricorso alla forza militare come mezzo più valido per vincere la «guerra al terrorismo». Ha toccato il presidente? Lo toccherà? La sua retorica tracotante e ancora militaristica sul quinto anniversario dell´11 settembre fa pensare di no. Ma i discorsi sono una cosa, la realtà un´altra. Giunti a questo punto cruciale, anche noi che viviamo nel resto del mondo, oltre la tangenziale di Washington, ci troviamo di fronte ad una scelta. Possiamo restare a guardare, come gli spettatori al cinema, mentre le immagini di un Terminator 4 della vita reale ci scorrono davanti agli occhi e poi tornarcerne a casa, forti del raccapriccio provato, rassicurati dalla compiaciuta certezza della nostra superiorità morale, fino al momento in cui una bomba jihadista ci farà saltare in aria. Oppure possiamo cercare di rafforzare il cambiamento che si profila a Washington contribuendo a trovare un modo migliore dei fucili e dei missili per affrontare l´Iran militante, le orribili conseguenze della illegittima guerra in Iraq, le cellule terroristiche locali, e gli altri pericoli reali che ci minacciano ancor più direttamente di quanto minaccino gli attuali inquilini del civico 1600 di Pennsylvania Avenue. (traduzione di Emilia Benghi) www.timothygartonash.com