martedi` 26 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Il Foglio Rassegna Stampa
29.09.2006 Impensabile un ritiro italiano dall'Afghanistan
parla il sottosegretario agli Esteri Vernetti

Testata: Il Foglio
Data: 29 settembre 2006
Pagina: 1
Autore: la redazione
Titolo: «“Il ritiro dall’Afghanistan non è proprio pensabile»
Dal FOGLIO del 29 settembre 2006:

Roma. Il ritiro dell’Italia dall’Afghanistan non è pensabile. La guerra al terrorismo non è conclusa e quindi l’impegno del nostro governo deve proiettarsi sul lungo periodo, perché “senza sicurezza non c’è né democrazia né sviluppo”. Gianni Vernetti, sottosegretario agli Esteri, ha le idee chiare – e spesso non condivise dai suoi compagni di coalizione – sul futuro delle missioni militari all’estero. E dice che “si commette un errore” a dire che “l’Afghanistan è cattivo e il Libano è buono”, perché entrambe le operazioni sono espressione di un mandato multilaterale e internazionale. Ma c’è un ma, e si chiama Nato e con la Nato si fa molto più la guerra di quanto non la si faccia con le Nazioni Unite – che decide l’invio di Caschi blu al confine tra Israele e Libano senza neppure dare chiare regole d’ingaggio, e gli unici che protestano sono i generali, e ieri l’Onu ha chiesto ufficialmente conto delle lamentele agli italiani dell’Unfil – e quindi alle sinistre più sinistre la faccenda non va giù. Ecco perché l’Italia in Afghanistan la guerra la fa, ma non lo dice. Ieri il ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, incontrando Alexander Downer, il collega australiano e membro della prima ora della “coalition of the willing” che combatte anche in Iraq (e che ci ha sostituito nella provincia del Dhi Qar, nel sud del paese), ha ribadito che al momento non è prevista “alcuna rimodulazione” del contingente italiano a Kabul e Herat. Le proteste da parte di Pdci, Rifondazione e Verdi dopo l’uccisione del caporal maggiore Giorgio Langella e il ferimento di altri nostri militari erano state immediate: ripensare la missione, ritirarsi, abbandonare un contesto di guerra. La reazione della sinistra più radicale è automatica e scontata, pur se sempre pericolosa. Ma due giorni fa dallo stesso partito del capo della Farnesina si sono alzate voci preoccupate. La diessina Marina Sereni, che pure ha escluso il disimpegno, ha detto: “A luglio, decidendo il ritiro dall’Iraq e finanziando le altre missioni, abbiamo disposto un comitato di monitoraggio e abbiamo impegnato, con un atto parlamentare, il governo italiano a ridiscutere la presenza internazionale in Afghanistan nella sedi competenti, come la Nato e l’Onu”. E’ dunque una missione a breve scadenza? Secondo Vernetti non è possibile. Perché il progetto italiano tra Kabul e Herat – e in tutto l’ovest del paese – si muove su tre direttive: “La sicurezza data dall’impegno militare, la cooperazione civile soprattutto nell’ambito della giustizia, e la cooperazione e sviluppo in senso tradizionale”. Del primo punto – il combattimento – si preferisce non parlare. Eppure se l’offensiva talebana – i “colpi di coda”, come li definisce Vernetti, il quale è convinto che i terroristi siano in difficoltà e per questo ancor più disperati nell’intensificare i loro attacchi – si è rivolta in modo sempre più sistematico contro i soldati italiani un motivo ci sarà. La nostra visibilità è alta nel settore ovest ma la copertura politica della missione è bassa. Per Vernetti non c’è una relazione di causa ed effetto, “l’impegno italiano è forte e sentito” e quindi gli attacchi talebani ci colpiscono. Gli attentati non sono un buon motivo per andarsene. Anzi, semmai è il contrario. “Siamo andati in Afghanistan dopo l’attacco dell’11 settembre”, ricorda Vernetti, mettendo in chiaro i tempi e le relazioni causaeffetto tra terrorismo e reazione al terrorismo, e “abbiamo ribaltato un regime che sosteneva e finanziava al Qaida”. Gli impegni a livello internazionale – con Nazioni Unite, Nato e gli altri paesi europei – sono stati definiti fin dall’inizio e “una scelta unilaterale” come sarebbe quella di “un’exit strategy repentina” andrebbe contro il contesto multilaterale della missione. Contro quel pezzo di guerra al terrore che si sta facendo insieme. L’operazione non può essere lasciata a metà, insomma. La stabilizzazione riguarda il “coinvolgimento regionale” dei vicini, del Pakistan per esempio. “Senza sicurezza non c’è sviluppo”, ribadisce Vernetti, rilanciando l’impegno civile anche sul fronte della lotta al business della droga che gonfia le tasche dei signori della guerra. La guerra si fa e si dice, altrimenti non si vince.

Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione del Foglio

lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT