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La Stampa Rassegna Stampa
29.09.2006 La propaganda di Khatami per convincerci che con il regime iraniano si può trattare
un'intervista acritica

Testata: La Stampa
Data: 29 settembre 2006
Pagina: 14
Autore: Marie-Claude Decamps
Titolo: ««Grazie Usa, per averci liberato dai taleban e da Saddam Hussein»»
Democrazia, progresso, stabilità regionale. Parole d'ordine assai poco credibili, in bocca all'ex presidente iraniano Khatami, responsabile tra l'altro durante la sua presidenza della repressione contro le minoranze ebraica e bahai e del sostegno al terrorismo di Hezbollah.
L'intervista dei giornalisti di Le Monde pubblicata dalla STAMPA del 29 settembre 2006, tuttavia, non mette mai in dubbio le parole dell'esponente del regime degli ayatollah.
Su Israele, per esempio, non viene chiarita la posizione dell'ala "moderata" del regime, che ufficialmente vuole la fine di Israele attraverso un referendum, dopo la costituzione, mediante rientro dei profughi arabi ed espulsione degli ebrei immigrati dopo il 48,  di una maggioranza palestinese.
Ecco il testo: 

Lei ha visitato gli Usa, nel quadro degli incontri di «dialogo tra civiltà» di cui lei è un attivo promotore. Quali lezioni ha tratto?
«Ho affrontato le circostanze inquietanti che oggi ci sono nel mondo, e parlato del bisogno di pace e sicurezza. Mi sono posto l’obiettivo di difendere i nostri interessi nazionali, ma anche di far comprendere agli occidentali che non devono commettere un nuovo errore e creare una nuova crisi in Iran o nel Medio Oriente. Il mio messaggio è stato ben accolto, soprattutto quando ho parlato dell’insicurezza creata dalle politiche bellicose di alcuni, e dai terroristi, alle quali io non vedo altro rimedio se non un dialogo approfondito».
Il divario tra l’Occidente e il mondo musulmano si sta allargando?
«Purtroppo, dopo l’11 settembre 2001, il clima è stato propizio a far crescere i malintesi. Le crociate e l’invasione dei turchi in Europa avevano già generato una certa diffidenza permanente tra l’Islam e l’Occidente, che in seguito è stata aggravata dal colonialismo che si è imposto in Oriente con la maschera del cristianesimo. Insisto a parlare di malinteso, in quanto la natura autentica dell’Islam e dell’Oriente, così come del cristianesimo e dell’Occidente, non hanno nulla di antagonista. In passato hanno imparato molto l’uno dall’altro. Le guerre sono state economiche e politiche, ma siccome le parti si proclamavano portatori dell’Islam o del cristianesimo, il conflitto si è esteso anche alle religioni. L’11 settembre ha fatto precipitare tutto. Per due motivi. I terroristi mettendo a repentaglio vite innocenti hanno commesso un crimine in nome dell’Islam, snaturando una religione che predica misericordia e compassione. E coloro che promuovono politiche bellicose hanno usato questi crimini come pretesto per attizzare in Occidente una sorta di islamofobia, giustificando le proprie mire espansioniste».
Come commenta le frasi del Papa sull’aggressività dell’Islam?
«Sono dichiarazioni infondate e lui si è scusato. Non mi sarei aspettato queste parole da una personalità così influente. Ci sono già troppe incomprensioni, il ruolo dei leader è di ridurle e non di amplificarle».
L’Iran non dovrebbe cercare di ristabilire la fiducia sulla questione nucleare? E’ possibile un dialogo Teheran-Washington?
«E’ l’Occidente, soprattutto gli Usa, a doversi adoperare per restaurare la fiducia. La politica americana dei due pesi e due misure, di pressioni continue in Medio Oriente, l’oblio totale dei palestinesi, lo schieramento unilaterale a favore di Israele, il proseguimento dell’occupazione in Iraq: ecco le ragioni della mancanza di fiducia. Il grande errore degli Usa è stato quello di occupare l’Iraq, preparando il terreno per gli estremisti. Certo, la caduta di Saddam Hussein è stata una benedizione, ma gli americani hanno agito con arroganza ed egoismo: avrebbero potuto muoversi diversamente, senza occupare l’Iraq, e ricorrendo all’aiuto dei Paesi della regione, sotto l’egida dell’Onu. Un dialogo diretto con gli Usa? Non è mai troppo tardi, ma ci sono difficoltà persistenti. All’epoca di Clinton, quando ero presidente dell’Iran, avevamo compiuto «piccoli passi» di avvicinamento, ma il suo successore ha preferito aggravare il malinteso. Sul nucleare, potremmo sederci allo stesso tavolo, se non fosse per l’ostinazione degli americani. E poi, ogni condizione preliminare complica il negoziato».
L’attuale governo iraniano ha optato per il confronto. Lei è stato criticato per aver congelato l’arricchimento dell’uranio?
«All’epoca eravamo convinti che una sospensione volontaria avrebbe facilitato le ispezioni dell’Aiea con risultati positivi per l’Iran e per l’Occidente. Purtroppo gli europei, sotto pressione americana, hanno rinviato giorno dopo giorno la soluzione del problema. Abbiamo avuto l’impressione che ci si voleva privare del nostro legittimo diritto alla tecnologia nucleare. Tutto è cambiato, ma penso che non esista altra soluzione se non il negoziato e il compromesso. L’Iran non vuole le armi nucleari, nel corso dei negoziati tutto il mondo avrà modo di convincersene».
L’Iran ha ambizioni nucleari e chiede la «cancellazione di Israele dalla carta geografica». Non trova che l’inquietudine del mondo sia comprensibile?
«Le linee guida della nostra politica verso il Medio Oriente e Israele sono chiare dai tempi dell’imam Khomeini, e le sottoscrivo. Noi sosteniamo un principio etico e giuridico che afferma che nessuna forma di occupazione è da considerare legittima. Altrimenti si potrebbe considerare tale anche l’occupazione della Francia da parte di Hitler. Ma pensiamo che quello che viene accettato dai palestinesi dovrebbe essere accettato dal resto del mondo. Una pace solida in Medio Oriente richiede il rispetto dei diritti dei palestinesi. Personalmente, non voglio «cancellare» nessuno!».
Le guerre in Iraq e in Libano hanno rinforzato le posizioni dell’Iran. Volete aiutare la stabilizzazione della regione, per esempio, spingendo gli Hezbollah a disarmarsi?
«Oggi, senza bisogno di interferire negli affari interni dei suoi vicini, l’Iran è il Paese più influente della regione. I nostri nemici, i taleban e Saddam Hussein, sono spariti. Abbiamo eccellenti relazioni con il governo afghano, iracheno e libanese, così come con tutte le fazioni del Libano. E’ nel nostro interesse far regnare la pace, siamo un Paese in via di sviluppo che ha bisogno di stabilità. Ma non vogliamo subire l’ostilità altrui. Se essa diminuisce, e il ruolo dell’Iran viene percepito e riconosciuto, credo che - come hanno detto Chirac e Prodi - possiamo cooperare per la stabilità della regione. Con gli Hezbollah abbiamo legami spirituali e culturali. Nasrallah ha detto che, fin tanto che una parte del Libano resterà occupata e non ci sarà un esercito libanese abbastanza forte per difendere l’integrità del territorio, il suo movimento di resistenza che rappresenta la resistenza di tutti i libanesi continuerà. Si tratta di mettere fine all’occupazione. Ma personalmente non ritengo che un gruppo armato debba rimanere tale all’infinito».
La sua presidenza riformista ha dato agli iraniani una speranza. Ritiene che avrebbe potuto fare di più? E cosa ne resta oggi?
«La mia presidenza ha conosciuto successi come fallimenti. L’importante è che questa nazione che da 150 anni desidera la libertà, l’indipendenza e il progresso, prosegua la sua transizione verso la democrazia, senza essersi mai fermata di fronte alle difficoltà. La rivoluzione islamica ha legato il desiderio d’indipendenza alla nostra identità storica e religiosa. Oggi, l’Islam è una religione compatibile con la democrazia e il progresso, che sono gli unici a poterle garantire l’influenza nella società iraniana».

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