Omicidio Hariri: le allusioni antisraeliane e antiamericane di Stefano Chiarini dettate dal pregiudizio politico
Testata: Il Manifesto Data: 27 settembre 2006 Pagina: 4 Autore: Stefano Chiarini Titolo: «Nel rapporto Onu sull'omicidio Hariri ora spunta anche la pista jihadista»
Si affaccia la pista jihadista nelle indagini sull'omicidio di Rafik Hariri, per la quale finora i principali indiziati erano i servizi segreti siriani . L'ipotesi (per altro resa sospetta dalla manipolazione che il regime di Damasco fa della minaccia al qaedista per convincere l'occidente di essere un suo alleato: le stesse circostanze del fallito attentato all'ambasciata italiana a Beirut e del più recente assalto all'ambasciata americana a Damasco lasciano sospettare del coinvolgimento degli stessi servizi segreti siriani) non interessa veramente a Stefano Chiarini, che pubblica sul MANIFESTO del 27 settembre 2006 un articolo sull'argomento. Ciò che veramente interessa a Chiarini, infatti, è semmai 1) screditare la commissione d'inchiesta che ha accusato la Siria, al fine di 2) scagionare il regime di Damasco e 3) dare la colpa a Stati Uniti e Israele attraverso allusioni, ipotesi infondate e informazioni (sui supposti sventati piani "terroristici" israeliani) provenienti da Damasco o da un governo libanese in sostanza sotto la tutela di Hezbollah . L'ipotesi jihadista sembrerebbe a prima vista escludere questa cervellotica idea, ma non è così, ci spiega Chiarini, dato che lascia comunque "irrisolto il problema dei possibili mandanti". Naturalmente, Chiarini non ha nessun elemento per formulare una tale illazione, che adombra fin dall'omicidio di Hariri, se non i suoi radicali antiamericanismo e antisionismo: cioè il suo pregiudizio politico.
Ecco il testo: L'ex premier libanese Rafik Hariri sarebbe stato ucciso da una potentissima autobomba, un furgone Mitsubishi rubato in Giappone con a bordo oltre 1800 chilogrammi di esplosivo, fatta esplodere da un attentatore suicida. E' questo uno dei pochi elementi certi che emergerebbero dal nuovo rapporto della commissione di inchiesta internazionale dell'Onu sull'assassinio dell'ex premier libanese Rafik Hariri e di altre 22 altre persone - avvenuto sul lungomare di Beirut il 14 febbraio del 2005 - consegnato ieri al segretario generale Kofi Annan. Il secondo elemento che emerge con chiarezza dal rapporto della commissione, guidata dal magistrato belga Serge Brammertz, è il , politicamente rilevante, riconoscimento di una «soddisfacente» cooperazione con gli investigatori da parte delle autorità di Damasco. Autorità indicate dalle forze libanesi filo-Usa, ma anche dai primi rapporti della commissione redatti dal discusso giudice tedesco Detlev Mehlis, come possibili sponsor dell'attentato che dette il via libera alla destabilizzazione del Libano, alla «rivoluzione dei cedri» organizzata dalla destra filo-occidentale e anti-palestinese e quindi al definitivo ritiro delle truppe siriane dal Libano. Secondo il rapporto, che sarà discusso venerdì dai membri del Consiglio di sicurezza dell'Onu, gli inquirenti avrebbero inoltre raccolto interessanti elementi sulla base dei quali si sarebbero convinti che l'attentato ad Hariri sarebbe collegato agli altri 14 perpetrati tra il primo ottobre del 2004 (tentativo di uccidere il ministro Marwan Hammade, e il dicembre del 2005, uccisione di Gibran Tueni). Non è chiaro però se nell' inchiesta siano stati presi in considerazione anche gli attentati contro esponenti degli Hezbollah e palestinesi perpetrati da alcuni gruppi terroristici organizzati dal Mossad venuti alla luce nel giugno scorso a Sidone e nel sud del paese. Il rapporto «tecnico» di Brammertz, che ha assunto la titolarità dell'inchiesta nel gennaio scorso, a differenza di quelli chiaramente «politici» redatti dal suo predecessore Detlev Mehlis, si soffermerebbe sugli aspetti tecnici delle indagini e sugli interrogativi ancora senza risposta, senza fare riferimento ad alcun testimone, senza indicare i possibili attentatori e senza fare parola di un coinvolgimento nell'operazione delle autorità di Damasco, rimandando tutto alla relazione finale prevista, se non interverranno altri rinvii, per il giugno del 2007. In realtà alcuni dettagli «tecnici» del rapporto dell'Onu hanno un non indifferente peso «politico». A differenza del suo predecessore, Serge Brammertz, sembra aver abbandonato la pista di una bomba nascosta sotto l'asfalto a favore della tesi dell'autobomba guidata o innescata da un attentatore suicida, ancora sconosciuto, del quale sarebbero stati trovati 32 resti, tra i quali anche un dente, nella zona dell'esplosione. Se Hariri fosse stato ucciso da una bomba collocata sotto il manto stradale - operazione che evidentemente avrebbe richiesto un'organizzazione assai ramificata e in grado di controllare pienamente il territorio senza dare nell'occhio, ne risulterebbe rafforzata la tesi del giudice Mehlis di un coinvolgimento diretto nell'attentato dei capi dei servizi segreti libanesi - quattro dei quali sono ancora in carcere nonostante in fatto che ad accusarli siano stati solamente due testimoni rivelatisi poi del tutto inattendibili - e quindi, per induzione politica, i responsabili di quelli siriani ancora presenti a Beirut al momento dell'attentato. Se invece l'ex premier Hariri fosse stato ucciso da un attentatore suicida, come sembra indicare il giudice Brammertz, l'operazione sarebbe stata assai più semplice e il cerchio dei congiurati si restringerebbe di molto rendendo plausibile anche la pista di un possibile coinvolgimento nell'attentato di gruppi locali libanesi della galassia jihadista che, in realtà, poche ore dopo il fatto, rivendicarono l'attentato con una videocassetta del presunto «martire», un certo Ahmad abu Adass. Una pista questa che, pur lasciando irrisolto il problema dei possibili mandanti, non era stata presa per nulla in considerazione, in questo come negli altri attentati, né dal giudice Mehlis, nè dai Media internazionali, nè dalle cancellerie di Washington e Parigi, a causa di una precostituita cieca fedeltà ad una «pista siriana». Dietro questo pregiudizio, che avrebbe portato ad una grave sottovalutazione del fenomeno jihadista in Libano sin dai tempi del progettato attentato contro l'ambasciata italiana a Beirut, ci sarebbe l'illusione della stessa famiglia Hariri, degli Usa e dei sauditi, di poter usare i gruppi della galassia jihadista sunnita in funzione anti- sciita, anti-Hezbollah in Libano e anti-regime alawita a Damasco, per portare avanti quella destabilizzazione dell'area su basi etnico-confessionali già iniziata con l'invasione dell'Iraq.
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