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Europa Rassegna Stampa
26.09.2006 Il quotidiano della Margherita si preoccupa della sicurezza americana
e chiede lumi sull'argomento a un amico di Michael Moore, che chiama "resistenza" il terrorismo iracheno

Testata: Europa
Data: 26 settembre 2006
Pagina: 3
Autore: Stefano Pitrelli
Titolo: ««Caro Berman, la guerra non era inevitabile». Craig Unger e il fallimento della dottrina Bush»

Indifferente alla precisazioni di John Negroponte sul rapporto dell'intelligence sulla guerra in Iraq e il terrorismo (secondo le quali esso non stabilisce per nulla un collegamento causale tra guerra in Iraq e crescita del terrorismo), EUROPA del 26 settembre 2006 pubblica un'intervista al giornalista Craig Unger, attore nei "documentari" di Michael Moore, che chiama il terrorismo iracheno "resistenza"  e pensa che Bush abbia reso "meno sicura" l'America.
Ecco il testo:

Ha scatenato grandi polemiche la pubblicazione da parte del New York Times dei contenuti di un dossier (il cosiddetto National Intelligence Estimate) partorito dai servizi segreti americani, che dimostra come la guerra in Iraq abbia rinvigorito il radicalismo islamico e aggravato la minaccia del terrorismo globale. Craig Unger – giornalista e scrittore americano reso riconoscibile al grande pubblico dal suo cameo nel filminchiesta Fahrenheit 9/11, nonché autore di “House of Bush, House of Saud” – spiega a Europa il contesto in cui inserire il dossier, in quanto ultimo capitolo di uno scontro tra l’amministrazione e l’intelligence.
E coglie l’occasione per rispondere alle parole di Paul Berman, che Unger definisce un pro war liberal.
In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, Berman asserisce che il terrorismo aveva già raggiunto l’apice con la strage delle torri gemelle del 2001, «sebbene avessimo seguito strategie diverse da quella attuale». Cosa ne pensa?
Ritengo che il dossier non faccia altro che confermare quanto tanti di noi non hanno fatto che ripetere per anni. Da un punto di vista strategico, la guerra in Iraq è risultata un disastro per la lotta al terrore.
In poche parole, ciò che abbiamo fatto è stato creare un’incubatrice per il terrorismo. E se volgiamo lo sguardo al passato, l’errore compiuto si manifesta in tutta la sua tragica ironia: circa vent’anni fa, infatti, nel corso dei primi anni ‘80, spingemmo i sovietici nella trappola dell’Afghanistan, proprio in mezzo ai mujaheddin che avevamo appoggiato e sovvenzionato. Incluso, tra questi, un uomo chiamato Osama bin Laden. Quella che fu l’operazione segreta più riuscita della storia degli Stati Uniti risultò un disastro per i sovietici, e contribuì a cagionare la fine dell’Unione Sovietica.
In Iraq, per così dire, abbiamo ricreato questa situazione. Ma stavolta siamo noi a interpretare il ruolo che fu dei sovietici.
Lo sa qual è il voto dato dal Council on Global Terrorism (un comitato permanente di esperti sul terrorismo internazionale, ndr) alla politica americana della guerra al terrore? D+. Un giudizio tremendo, che segna la bancarotta di questa strategia.
«La guerra poteva essere ritardata – sostiene Berman – o condotta meglio, ma era in corso da anni in forma strisciante». Era, insomma, davvero “inevitabile”?
Non direi proprio. Innanzitutto, non credo affatto che sarebbe scoppiata se non fosse stato per l’11 settembre. Prima di quella data, a nessun importava dell’Iraq. Dopo quella data, Bush sfruttò l’enorme capitale politico accumulato per promuovere l’invasione di un paese che non aveva niente a che vedere col 9/11.
«Anche se non fosse scoppiata, l’estremismo islamico avrebbe continuato a espandersi», osserva l’autore, che sembra parlarne come di una sorta di irresistibile forza della storia.
Dissento ancora. Certo, anche senza questa guerra il fondamentalismo islamico non si sarebbe fermato. E tuttavia in Iraq abbiamo creato i presupposti che hanno permesso al terrorismo di prosperare. Abbiamo allestito una serie di condizioni “ideali” per il suo sviluppo, a partire da quella di un’enorme presenza militare americana in un paese arabo. Diciamo che abbiamo consegnato loro un nemico da combattere senza neanche dover attraversare l’oceano. Abbiamo gettato al vento qualsiasi ricaduta positiva derivante dalla deposizione di un brutale dittatore. E questo perché alla fine abbiamo creato una situazione priva di sicurezza, in cui i bisogni primari della popolazione non vengono soddisfatti.
Alla fine del suo discorso, Berman conclude dicendo che il terrorismo si può contenere «con il confronto delle idee, le riforme, con l’aiuto dei musulmani moderati.
Non è una lotta che si può vincere solo con le armi ». Ma le armi devono esserci per forza di mezzo?

Se quella al terrorismo dev’essere una guerra, dev’essere una guerra esclusivamente politica. D’altra parte, basta prendere in considerazione la storia della “resistenza”. Gli Stati Uniti sono nati a partire da una resistenza. E da noi, come in Vietnam, come in Algeria, la resistenza ha sempre vinto, credo senza eccezioni, e per ragioni eminentemente politiche: anche se invadi un paese e lo occupi militarmente, la popolazione continua, e continuerà, a viverci, nel paese! E non c’è modo per vincere uno scontro simile, ovviamente, per il semplice fatto che “vincere” significherebbe sterminare tutta la gente che ci vive. Ecco perché questo genere di guerre risulta sempre, in ultima analisi, senza alcuna speranza.
Come giudica la reazione dell’amministrazione Bush, che parla di “informazioni incomplete”, al dossier del National Intelligence Council reso pubblico dal New York Times?
Credo che sia un altro segno della bancarotta di questa strategia, nonché l’epilogo della guerra di Bush ai servizi segreti.
Ai tempi della guerra in Iraq, infatti, l’amministrazione aveva attaccato la Cia per aver fornito dei dati che negavano la presenza di armi di distruzione di massa in Iraq. Dati che non facevano comodo alla politica adottata da Washington. Fu allora che ebbe inizio lo scontro. Alla fine l’amministrazione mise a capo delle strutture dell’intelligence americana la gente che voleva, a partire da John Negroponte. Ma ecco che oggi questo dossier riaccende comunque il conflitto.
Che cosa significherà tutto questo per le prossime elezioni di midterm – alla luce, per esempio, delle accuse lanciate da Harry Reid, leader democratico al senato: «Hanno reso l’America meno sicura»?
Nuova benzina per i democratici, direi.
E alcuni democratici al Congresso stanno già iniziando a farne uso. Se riusciranno a farne un uso intelligente – cosa che succede piuttosto di rado – il dossier dovrebbe rappresentare un’arma molto potente contro i repubblicani. Sarà interessante vedere se riusciranno a usarlo in maniera efficace in occasione delle elezioni di novembre.

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