Dal CORRIERE della SERA del 25 settembre 2006, una cronaca di Guido Olimpio:
Il giudizio di sedici agenzie di spionaggio americane è impietoso. La guerra in Iraq ha accresciuto la sfida del terrorismo diventando la prima fonte di reclutamento, ha dato nuove motivazioni agli estremisti e creato una nuova generazione di jihadisti in grado di riprodursi così rapidamente da rendere inefficace la risposta occidentale. Il movimento qaedista si è poi frantumato in realtà minori capaci di autocrearsi, Internet con oltre cinquemila siti integralisti ha sostituito per certi aspetti i campi d'addestramento e i centri di indottrinamento. Nel rapporto riservato di 30 pagine — il «National Intelligence Estimate» — si afferma che sicuramente la guerra ha «peggiorato» la posizione Usa nella lotta al terrore: l'invasione non avvicina la vittoria.
Le conclusioni dell'inchiesta — commissionata dal National Intelligence Council (Nic) — sono ancora più pesanti se si tiene conto che il dossier è il primo studio approfondito da parte degli 007 dopo la caduta di Bagdad ed ha richiesto due anni di lavoro. L'intelligence segnala che il conflitto iracheno si è trasformato in una palestra dove i mujaheddin non solo elaborano nuove tecniche ma le esportano con conseguenze disastrose. E' il caso dell'Afghanistan dove i talebani si sono riorganizzati lanciando attacchi simili a quelli che avvengono in Iraq. Quindi autobomba, azioni suicide, esplosivi sofisticati. In perfetta sintonia con i loro colleghi europei, gli 007 americani mettono in guardia sul ritorno dei «volontari» che si sono battuti in Iraq nei Paesi d'origine (Medio Oriente, Nord Africa, Europa). La migrazione dei terroristi e la possibile saldatura con gli estremisti presenti in queste regioni — si afferma nel rapporto — può portare alla nascita di formazioni. Si «autocreano», si autofinanziano (droga, traffici), agiscono senza contatti diretti con la vecchia guardia oppure stabiliscono il legame in un secondo momento. C'è una evidente dispersione del fenomeno terroristico, con Al Qaeda sempre di più nel ruolo di ispiratrice piuttosto che di organizzatrice. Anche se Washington può giustamente vantare di aver assestato dei colpi al nemico, la minaccia continua ad essere forte. «Se il corrente trend dovesse continuare — ha dichiarato in aprile il generale Michael Hayden, oggi capo della Cia — i pericoli per gli Usa saranno diversi e potremmo assistere a un loro aumento». La Casa Bianca ha reagito alla diffusione del dossier da parte del New York Times sostenendo che le informazioni pubblicate sono «incomplete» e che «l'odio dei terroristi» si è formato da decenni. Dunque per i funzionari non c'è il rapporto di causa (Iraq) effetto (più terrore). Una constatazione vera solo in parte: certamente il qaedismo ha origini lontane (primo attacco nel 1993), ma non vi è dubbio che la guerra irachena è diventata un formidabile carburante. Alcuni commentatori, pur senza contestare le conclusioni, hanno ricordato che in qualche occasione i rapporti del Nic si sono rivelati inesatti. Ma le analisi Usa trovano peraltro riscontri con le informazioni raccolte sul campo da apparati di sicurezza non americani. Su più fronti si sono affermate nuove situazioni eversive, con fazioni minori impegnate a fare il salto di qualità terroristico cucendosi addosso l'etichetta Al Qaeda. Il modello è quello di Al Zarqawi: crei una organizzazione, ti richiami ad Osama, usi al meglio l'arma della propaganda (Internet, video) e annunci di far parte di un disegno più ampio. Spesso sono le esperienze comuni in Iraq a fare da cemento e sono i metodi impiegati dai ribelli a Bagdad a fare scuola. Le reclute affluiscono sul fronte iracheno — «centrale» tanto per Bush che per Bin Laden — quindi vengono ridistribuite tra le milizie locali o rimandate indietro in attesa di ordini.
IL NORD AFRICA — I servizi di intelligence spagnoli sospettano che sia in corso, almeno in Europa, una fusione dei gruppi combattenti algerino, tunisino, marocchino e libico. Un'alleanza dettata dalla necessità di far fronte all'azione della polizia e dall' altra una risposta all'appello di alcuni influenti «maestri» jihadisti. All'interno dei rispettivi Paesi le fazioni cercano poi di trovare nuovi assetti. Il temibile «Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento» (Gspc) ha ribadito la sua adesione al marchio Al Qaeda. Lo ha confermato Zawahiri invitando i «fratelli» a punire la Francia e lo hanno sottolineato gli estremisti nelle loro comunicazioni interne. Il Gspc, pur falcidiato dagli arresti, cerca spazi operativi. Fonti norvegesi hanno rivelato che una cellula smantellata di recente in Italia stava organizzando un attacco a una sinagoga di Oslo. Ancora più inquietante il legame con elementi in Marocco. Una recente operazione ha portato all'arresto di oltre 50 persone raccoltesi sotto la sigla «Al Mahdi». Ne facevano parte dei militari (uno ha risieduto a lungo nel nostro Paese) e quattro donne, comprese alcune mogli di piloti della compagnia aerea locale. In Egitto un'ala della Jemaa avrebbe di nuovo stipulato un patto operativo con i leader di Al Qaeda: mossa seguita da un nuovo allarme per la presenza di un gruppo beduino-jihadista nel Sinai. Un esempio perfetto di una cellula nata in modo indipendente ma che agisce come i qaedisti. IL SUDAN — Dopo le esortazioni di Osama e Zawahiri a impegnare «i crociati» nel Darfur è comparsa una nuova sigla: Al Qaeda in Sudan e in Africa. E' così che si sono firmati i killer di un noto giornalista sudanese assassinato pochi giorni fa. Difficile stabilire l'attendibilità della rivendicazione, ma non sarebbe una sorpresa se emergesse una costola del jihadismo globale.
PALESTINA — I seguaci di Al Qaeda hanno messo le radici nei territori palestinesi. Tre i nuclei. Il primo nell' area di Tulkarem in Cisgiordania. Un secondo a Betlemme: mesi fa la polizia palestinese ha arrestato un gruppo dopo aver intercettato i loro messaggi. Il terzo opera a Gaza. La struttura di base conta una mezza dozzina di mujaheddin, ai quali si aggiungono dei «sostenitori». Mantengono le comunicazioni via Internet, ricevono denaro da complici in Siria e Arabia Saudita. Di nuovo una creatura locale senza apparenti vincoli con gli emiri rifugiati in Pakistan. LIBANO/SIRIA — I Takfir e Jund Al Sham in Siria, Usbat al Ansar in Libano sono in attesa. La presenza dell'Unifil2 è considerata una «violazione» della terra araba e dunque i Caschi Blu costituiscono un bersaglio legittimo. Le tensioni sono forti anche nella vicina Siria, teatro una settimana fa di un attentato contro l'ambasciata Usa. Si tratta di piccole organizzazioni, con poche decine di uomini, ma come ha suggerito Al Zawahiri in un video il movimento deve accogliere i «più deboli».
Di seguito, un'intervista a Paul Berman:
WASHINGTON — Paul Berman, autore di Terrore e liberalismo, non è d'accordo con l'intelligence americana. L'invasione dell'Iraq, dichiara, era inevitabile. Può avere alimentato l'estremismo islamico, ma non lo ha generato, né molto rafforzato. «Il terrorismo islamico è un problema su vasta scala — nota lo studioso liberal —, un'onda lunga della storia cresciuta indipendentemente da ciò che l'Occidente ha fatto». Berman, che in un'altra intervista al Corriere
definì la guerra in Iraq «irrinunciabile», ammette che in quel conflitto «sono stati commessi errori che ci hanno depistato dalle questioni di fondo in Medio Oriente e nel Golfo Persico, consentendo all'Iran di allargare la sua sfera d'influenza». Ma osserva che il terrorismo aveva raggiunto l'apice già con la strage delle Torri Gemelle del 2001 «sebbene avessimo seguito strategie diverse da quella attuale».
Perché dubita che la guerra in Iraq abbia aggravato la minaccia del terrorismo?
«Perché è come dire che la colpa è degli Stati Uniti. C'è gente che sostiene che siamo la causa di tutti i mali, ma sbaglia. La guerra poteva essere ritardata o condotta meglio, ma era in corso da anni in forma strisciante. Anche se non fosse scoppiata, l'estremismo islamico avrebbe continuato a espandersi».
Su che cosa basa questa convinzione?
«Sulla storia degli ultimi 30-40 anni, che ha visto i movimenti che io chiamo fascisti o parafascisti nascere e crescere nell'Islam. Oltre all'America, anche l'Europa ha tentato di contenerli con dei cambiamenti di politica. Nessuno ci è mai riuscito. Anzi, la situazione è sempre peggiorata».
Può fare degli esempi?
«Prendiamo l'Iran. Negli anni '70 noi appoggiammo lo Scià, poi lo abbandonammo. Più tardi ci siamo opposti agli ayatollah, ma al tempo stesso abbiamo negoziato con loro. Non abbiamo mai ottenuto alcun risultato. Qualsiasi carta giocassimo, l'estremismo islamico aumentava».
E l'Iraq?
«Stessa cosa. Negli anni '80, per contenere l'Iran, Reagan si alleò con Saddam Hussein. Quando il raìs invase il Kuwait, Bush padre invertì rotta e gli mosse guerra, ma rifiutò di occupare l'Iraq. Una tragedia, perché Saddam compì una serie di massacri interni. La formula Clinton delle sanzioni e le pressioni militari fu ugualmente disastrosa, mise in ginocchio la classe media irachena. Tre presidenti, tre strade, ma nessuna efficace contro il terrorismo».
Quale prova ne abbiamo avuto?
«Ricorda il primo messaggio di Bin Laden dopo la strage delle Torri gemelle? Addusse tre motivi per l'attentato: la presenza delle truppe americane in Arabia Saudita; le sanzioni Onu contro l'Iraq; l'appoggio a Israele. Qualsiasi pretesto era buono».
Quindi lei assolve Bush da ogni responsabilità?
«Se permette, noi abbiamo avuto un presidente diabolico, Nixon; uno santo, Carter; uno semplice, Reagan; uno sofisticato, Bush padre; uno incantatore, Clinton; uno sgradevole, Bush figlio. Sotto ciascuno di loro, ripeto, l'estremismo islamico è andato avanti, non indietro. Ma per forza propria, per spinte interne».
Ha visto che adesso la Casa Bianca ripudia il temine «fascismo islamico» da lei coniato?
«E' un termine migliore di "radicalismo islamico", che io rifiuto perché si riferisce all'Islam nel suo insieme».
Come si può contenere il terrorismo?
«Con il confronto delle idee, le riforme, con l'aiuto dei musulmani moderati. Non è una lotta che si può vincere solo con le armi».
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