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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
23.09.2006 Hamas e Hezbollah uniti contro Israele
che ci sta a fare l'UNIFIL ?

Testata: Corriere della Sera
Data: 23 settembre 2006
Pagina: 16
Autore: Davide Frattini-Giuliano Gallo
Titolo: «Hamas sconfessa Abu Mazen-Nasrallah: nessuno ci fermerà»

Due servizi sul CORRIERE della SERA di oggi, 23/09/2006, a pag.16 e 17. Il primo da Gaza di Davide Frattini, il secondo da Beirut di Giuliano Gallo. Vedremo come reagirà l'Unione europea davanti alle dichiarazioni di Hamas e di Nasrallah. Il primo riafferma nessun riconoscimento di Israele, il secondo che nessuno disramerà Hezbollah. Lo scrive persino l'UNITA' "Unifil benvenuta, ma non si immischi", vedremo come i DS reagiranno al diktat di Nasrallah, se l'Unifil non si deve immischiare che ci fanno le nostre truppe in Libano ?

Ecco il primo servizio di Davide Frattini da Gaza:

GAZA — Ahmed Youssef sta pensando di cambiare titolo al nuovo libro. « La fine dello Stato ebraico: solo una questione di tempo potrebbe procurarmi dei problemi», dice nell'ufficio a Gaza, dove tiene le sue pubblicazioni (come L'impronta sionista sul mondo post 11 settembre)
e un piccolo tappeto con disegni bianchi e neri, per partecipare alla preghiera con gli altri consiglieri del premier Ismail Haniyeh.
Lui è l'«americano», dopo i vent'anni passati negli Stati Uniti. Quello che parla l'inglese e dovrebbe conoscere la lingua della moderazione. Si prende l'incombenza di cancellare l'illusione che Hamas possa accettare di riconoscere l'esistenza di Israele. «È vero, il movimento ha firmato il programma di governo con il presidente Abu Mazen per dimostrare che volevamo davvero l'unità nazionale, che eravamo seri. Adesso stiamo discutendo per eliminare qualunque riferimento che possa far pensare a un riconoscimento anche implicito. Per questa ragione vogliamo togliere l'accenno all'iniziativa di pace della Lega Araba».
Giovedì, dalla tribuna delle Nazioni Unite, Abu Mazen aveva assicurato che il nuovo esecutivo avrebbe rispettato «gli impegni presi dall'Organizzazione per la liberazione della Palestina e dall'Autorità. In particolare, le lettere di riconoscimento reciproco scambiate tra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin». Venerdì, dal pulpito di una moschea a Gaza, Haniyeh lo ha sconfessato: «Non guiderò nessun governo pronto a riconoscere Israele. Hamas in questa fase sostiene il progetto per la creazione di uno Stato palestinese nei confini del 1967 in cambio di un cessate il fuoco». La tregua sarebbe di dieci anni — spiega Youssef, che nello staff del primo ministro è tra i più ascoltati — e Israele dovrebbe ritirarsi dai territori conquistati nella guerra dei Sei giorni, compresa Gerusalemme Est. «Non sarebbe come accettare la soluzione dei due Stati. Il cessate il fuoco dovrà avere delle regole. Su questi dettagli possiamo discutere con gli israeliani attraverso dei mediatori: l'Islam non vieta di parlare con i tuoi nemici».
Il consigliere del premier è convinto che gli europei siano pronti a togliere l'embargo, se dovesse nascere il governo con il Fatah. «La dichiarazione del Quartetto da New York — ha detto ad
Haaretz — non chiede al nuovo esecutivo di riconoscere lo Stato ebraico. È un'apertura».
Gli israeliani non vedono alcun cambiamento. «È un compromesso tra Stati Uniti ed Europa, ma le richieste fondamentali restano le stesse», commenta una fonte del governo. «Una tregua non ci interessa — spiega Avi Pazner, uno dei portavoce del premier Ehud Olmert —. Quello che esigiamo per poter riprendere il dialogo è che i palestinesi rispettino le condizioni fissate dalla comunità internazionale». Condoleezza Rice sta preparando un nuovo viaggio in Medio Oriente, anche se non è ancora stata fissata una data e il presidente George W. Bush ha commentato «non possiamo imporre noi la pace».

E il secondo di Giuliano Gallo da Beirut:

BEIRUT — Le madri e le vedove degli shaid siedono in prima fila, avvolte nei loro barracani neri, gli occhi bassi, in mano foto di ragazzi giovani e sorridenti. Sembrano non ascoltare nemmeno l'uomo con la barba e il turbante che lì davanti, protetto da un vetro a prova di proiettile, infiamma la sua gente. E' tornato Hassan Nasrallah, è tornato a festeggiare, in questo immenso prato di periferia dove si accalcano centinaia di migliaia di persone in un turbinare di bandiere gialle, palloncini e grida di entusiasmo, la «vittoria divina» di Hezbollah nella guerra contro Israele. Ma è tornato anche a presentare il conto ai politici libanesi, che ora sferza con parole beffarde: «Un governo forte è quello che protegge il suo popolo, non quello che va in tv a piangere sui bambini morti», grida. E la folla fischia. Il bersaglio è il primo ministro Fouad Siniora. Ma nel mirino del leader di Hezbollah ci sono anche i «pavidi» leader arabi, che «non hanno voluto combattere a fianco del Libano».
Ora però Hezbollah «ha vinto», e può dettare le sue condizioni: ««Non chiediamo di mutare l'equilibrio interno o di cancellare i meccanismi democratici che garantiscono il pluralismo. Ma chiediamo la formazione di un governo di unità nazionale, perché l'attuale non è in grado di mantenere unito il Paese, di ricostruirlo».
Parla per più di un'ora, il leader di Hezbollah, dopo aver confessato che «fino a mezz'ora fa non avevo ancora deciso se venire o no». E' una prova di forza senza mezzi termini, così come una prova di forza è tutta la manifestazione, con l'incredibile macchina organizzativa che l'ha allestita: i camion carichi di terra che fanno da barricate contro eventuali autobombe, i teloni stesi fra i palazzi per impedire al nemico di scattare foto dal cielo, i controlli con i metal detector, fino alle 250 mila sedie di plastica affittate da una ditta libanese.
In lontananza si sentono raffiche di kalashnikov: sono le uniche armi che Hezbollah ha esibito dal giorno della tregua. Ma Nasrallah assicura che il partito di Dio ha ancora gli arsenali intatti: «Durante la guerra abbiamo utilizzato soltanto una piccola parte del nostro arsenale. Abbiamo ancora decine di migliaia di missili e questo sia ben chiaro a chi pensa di mettere al sicuro i confini con Israele, via terra o via mare». Armi che «nessun esercito al mondo», nemmeno le truppe Unifil, riuscirà a togliere agli uomini in nero. «E' un arsenale di tutto il Libano e non sarà utilizzato al suo interno. È un arsenale maronita, druso, sunnita, sciita. Non manterremo le nostre armi all'infinito, ma le terremo fino a quando il Libano non avrà riconquistato le terre occupate da Israele, quando le nostre acque non saranno minacciate da Israele, quando i prigionieri nelle carceri israeliane torneranno in patria».
Oggi, dice ancora il leader sciita, «al Sud lo Stato è presente, l'esercito si trova nel territorio. La resistenza per il momento non opera e infatti il nemico entra nel nostro territorio quando vuole. Ma noi manteniamo la pazienza perché vogliamo rispettare la risoluzione 1701. Speriamo che il nostro esercito non si sieda sul confine e rimanga a guardare. Per quanto ci riguarda, noi rimarremo dietro l'esercito e lo proteggeremo, come continueremo a difendere il nostro Paese».

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