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Il Manifesto Rassegna Stampa
22.09.2006 Reportage filo-Hezbollah
di Stefano Chiarini

Testata: Il Manifesto
Data: 22 settembre 2006
Pagina: 3
Autore: Stefano Chiarini
Titolo: «L'orgoglio del Libano tra rovine e speranze»
Reportage filo-hezbollah di Stefano Chiarini, pubblicato dal MANIFESTO del 22 settembre 2006.
Chiarini ignora (deliberatamente) la natura pretestuosa delle rivendicazioni di Hezbollah sulle fattorie Sheeba, la costrizione esercitata dai terroristi almeno su una parte della popolazione civile perchè non abbandonasse le zone di combattimento.
A parte questo, gli articoli di Chiarini hanno sempre il pregio della chiarezza: da questo emerge chiaramente che gli Hezbollah non vogliono saperne di disarmo, preparano nuove aggressioni a Israele, sono pronti a sparare sui caschi blu dell'Unfil se questi dovessero tentare di attuare la risoluzione dell'Onu.
 Emerge inoltre la scelta di campo dell'autore, che sta con i terroristi.
Ecco il testo:


 Il barbiere sta seduto con lo sguardo perso nel vuoto sull'unica poltrona che è riuscito a tirar fuori dalle macerie del suo negozio sulla strada principale di Bint Jbeil, la cittadina libanese sul confine, che le truppe di Tel Aviv in 33 giorni di combattimenti sono riuscite a radere al suolo ma non ad espugnare. Dei palazzi lungo il corso principale, e ancor più delle case antiche, non sono rimasti che cumuli di pietre, mattoni e tondini di ferro. Sull'accecante biancore dei calcinacci svettano solamente un vecchio minareto e un palazzone annerito dal fuoco.
Scendendo per le stradine deserte ci si trova in una città morta, cotta nel sole e nella polvere, dove si aggira solo qualche magrissimo cane randagio e dove alcuni giovani cercano di tirar fuori dai calcinacci qualche suppellettile, un ricordo, un documento, un faldone di documenti. I muri sono crivellati di colpi. Qui sul margine dell'abitato si è combattuto casa per casa in un inferno di fumo, polvere da sparo, sangue e dolore. «Dopo ore di incessanti bombardamenti i soldati israeliani sono arrivati sino quasi in città - ci dice uno studente di ingegneria a bordo di una moto - noi ci siamo ritirati verso il centro e li abbiamo fatti entrare per poi attaccarli con tutto quel avevamo. Lo stesso era avvenuto un po' fuori del paese il giorno prima. I nostri combattenti sono stati uccisi quasi tutti dal fuoco aereo, dagli elicotteri e dalle cannonate, i loro negli scontri ravvicinati e nei carri colpiti dai razzi. Hanno avuto pesanti perdite e, per la prima volta, hanno deciso di rinunciare». «E adesso cosa succederà con le truppe multinazionali?», gli chiediamo - mentre l'imminente arrivo del contingente francese e le controverse dichiarazioni del generale Alain Pellegrini, comandante dell'Unifil, su un presunto protagonismo dei caschi blu nel disarmo degli Hezbollah e ancor più quelle del cancelliere tedesco, Angela Merkel, secondo cui la presenza militare tedesca avrà l'unico obiettivo di «proteggere Israele», hanno suscitato profondo malumore in tutto il Libano e soprattutto nel sud.
«Come promesso non ci faremo vedere in giro armati - sostiene il giovane militante Hezbollah - ma se i francesi cercheranno di disarmarci o di impedirci di difendere il nostro paese o se gli israeliani dovessero attaccare di nuovo o comunque non dovessero ritirarsi completamente dal Libano, siamo pronti a riprendere le nostre operazioni». «La situazione sul confine non è incoraggiante - continua il giovane - gli israeliani continuano ad occupare parte del nostro territorio e si comportano come se non ci fosse il cessate il fuoco. Verso Yarin (Tiro) stanno distruggendo frutteti e campi coltivati dalla parte libanese del confine e impediscono ai pastori di avvicinarsi ai loro pascoli. A Kfar Fila hanno spostato in avanti il confine di diverse decine di metri, vicino Majayoun stanno interrando grossi tubi nel terreno per prenderci l'acqua delle sorgenti del Wazzani. I loro aerei violano ogni giorno il nostro spazio aereo. E l'Unifil non fa altro che scrivere rapporti senza fare nulla. Come sempre. Fino a quando eravamo attestati sul confine, Israele doveva rispettare la sovranità libanese, adesso che c'è l'Unifil Israele ha campo libero. Nulla di nuovo. Dov'era la comunità internazionale tra il '78 e il 2000, quando Israele occupava il nostro paese in aperta violazione della risoluzione 425? Dov'era quest'estate quando i civili libanesi venivano massacrati? Siamo noi che abbiamo fermato Israele e non certo l'Onu».
«Qual è stato il giorno più importante della guerra?», gli chiediamo alzando la voce per farci sentire sopra la musica a tutto volume proveniente da una bancarella che vende magliette, cd, ritratti di ogni dimensione del leader Hezbollah, Hassan Nasrallah. «Il giorno più bello è stato l'ultimo, quello del cessate il fuoco, quando sono tornato a casa - anche se di essa e dell'intero quartiere non è rimasto nulla. E' per lei, per i nostri familiari, padri, figli, cugini, parenti e amici, che abbiamo combattuto e vinto. Gli israeliani invece non erano convinti di quel che stavano facendo, non erano a casa loro e pensavano di aver a che fare con un gruppo di contadini ignoranti e fanatici».
«Lo sapete - interrompe un suo amico, studente di letteratura inglese - che Bint Jbeil è stata sempre un centro di resistenza sin dal 1936, dai tempi della 'rivolta del tabacco' contro la politica del monopolio di stato francese e più in generale contro il mandato di Parigi, ispirata da una nuova leva di intellettuali cosmopoliti che guardavano all'Europa e allo stesso tempo dai religiosi sciiti provenienti dalle scuole di Najaf. Non dimenticate che qui predicava l'imam Mousa al Sadr, colui che ha segnato la rinascita politica e culturale degli sciiti in Libano e che proprio sul Jebel Amel possiamo dire è nata la resistenza islamica degli Hezbollah contro l'occupazione israeliana».
Nonostante la distruzione del 90% delle case, la mancanza di acqua potabile e di elettricità, coloro che sono rimasti o che stanno tornando sono decisi a resistere sulla loro terra e a ricostruire questa cittadina di circa 30.000 abitanti, ridotti in questi giorni a qualche migliaio. I commercianti che sono riusciti a salvare qualcosa dai loro negozi hanno ripreso a vendere sul marciapiede: sedie, tavoli, elettrodomestici; più in là un girarrosto per i polli mandato avanti con un generatore. «Qui ormai si vendono solo patate e pomodori - ci dice il proprietario di un furgoncino pieno di cassette di ortaggi e carote - siamo rovinati, i raccolti sono perduti, il tabacco bruciato dal sole è lì nei campi pieni di cluster bombs o di mine, nessuno lo raccoglie. Gli ulivi sono altrettanto irraggiungibili. Un vero disastro».
Scarsissimo il traffico lungo le strade di montagna che provenienti dal nord, tra salite e discese mozzafiato, sfiorano il castello di Beaufort, strategico baluardo crociato, poi arabo, piazzzaforte dei Templari, forte ottomano, francese, palestinese, israeliano, hezbollah, che sovrasta il fiume Litani e, più a sud, la Galilea. Passato il fiume le strade si dividono lungo due direttrici, la prima che gira attorno al «dito» israeliano della Galilea settentrionale con l'insediamento di Metulla, per dirigersi poi a est verso Khiam, le fattorie di Sheba e il monte Hermon; e l'altra invece a sud, in direzione di Bint Jbeil, Naqoura e il Mediterraneo, costeggiando il confine con Israele e salendo e scendendo decine di colline aride intercalate da valli coltivate a tabacco. Vallate di un marrone uniforme, tranne là dove i corsi d'acqua tracciano su di esse delle strisce di un verde intenso e dove grandi chiazze nere bruciate e oleose indicano il luogo dove sono stati colpiti, danneggiati o distrutti, i carri armati israeliani Merkava. Oltre alle Bmw o alle Mercedes degli agenti della sicurezza degli Hezbollah, dirigendoci a sud incontriamo alcuni suv bianchi dell'Unifil con ufficiali indiani, qualche furgone carico di masserizie e di profughi che, facendo il segno della vittoria, tornano a casa, e infine i camion malconci dell'esercito libanese spintosi nelle ultime settimane fino al confine.
«I nostri comandanti - ci dice un ufficiale - ci hanno detto con chiarezza che dovremo difendere il confine dalle aggressioni israeliane non contro ma insieme alla resistenza che ha coperto di onore il nostro paese, l'unica che è riuscita a fermare Israele dove tutti gli stati arabi hanno fallto. E poi perché dovremmo facilitare il lavoro agli israeliani che ci rubano la terra e l'acqua? Se lo dovessimo fare l'esercito, a maggioranza sciita, si scioglierebbe come avvenne durante la guerra civile. Salterebbe tutto».
«Fatima Gate», ex punto di passaggio tra il Libano e Israele fino alla fine dell'occupazione israeliana, nel maggio 2000, là dove il primo bunker israeliano, nascosto sotto una collinetta, è ad appena tre metri dalla rete di confine e a dieci dalle macchine che passano velocemente, è deserta. I blindati con la stella di David, pieni di antenne come grandi grilli d'acciaio, pattugliano poco più avanti la pista costruita lungo il confine, con le banchine cosparse di sabbia finissima per rilevare eventuali impronte, una rete metallica elettrificata e nugoli di telecamere. Più a sud, a Meis el Jebel, un grande striscione grida tra le case distrutte: «Questo è il nuovo Medio Oriente di Bush»; più avanti troviamo sulla piazza le carcasse distrutte delle auto e delle ambulanze colpite mentre cercavano di mettersi in salvo.
Bint Jbeil, dove nel 2000 Hassan Nasrallah tenne il «comizio della vittoria», è distrutta: ma i suoi abitanti si mostrano sempre più favorevoli alla resistenza islamica. Nessuno in questa cittadina tra le colline, un posto di per sé incantevole con nell'aria il profumo delle arance e la fragranza delle sorgenti del Golan, ha dimenticato l'occupazione israeliana del sud del Libano - dal '78 al 2000 - con la sua cappa di terrore, le violenze, gli arresti, le torture.
I rapporti della popolazione locale con le forze dell'Onu sono sempre stati molto buoni ma ora se l'Unifil II, come dice la risoluzione 1701, dovesse cercare di impedire le attività della resistenza nel Libano meridionale, l'idillio rischia di rompersi. Il crescere dei sospetti e il pericolo di una rottura con i partiti sciiti hanno così consigliato al governo Siniora di respingere la richiesta dell'Unifil di poter atterrare e decollare con i suoi aerei dall'aeroporto di Beirut senza neppure chiedere l'autorizzazione alle autorità libanesi e a non darsi troppo da fare per trovare i terreni, assai scarsi (la fascia meridionale è di appena 700 chilometri quadrati), dove piazzare gli accampamenti delle truppe dell'Onu.
La tensione per l'arrivo delle truppe straniere, soprattutto francesi, sta salendo nelle roccaforti Hezbollah del jebel Amel, Bint Jbeil, Tibnin, Jeebshit, Deisseh, il paese che avrebbe dato i natali all'uomo più ricercato del mondo, Imad Mugniyeh, il sospetto organizzatore degli attentati del 1983 contro i comandi americani e francesi a Beirut. E proprio in questa zona, sull'altopiano di Barasheet, alle spalle di Bint Jbeil, dovrebbe piazzarsi il contingente francese con una quindicina di carri armati. L'accoglienza del locale portavoce del sindaco è molto cauta: «Non abbiamo nulla contro di loro ma se dovessero cercare di disarmarci gli infliggeremo delle perdite ancora superiori a quelle che abbiamo inflitto agli israeliani». La tragica estate del Libano, tra le rovine dei villaggi, i campi di tabacco abbandonati e i bunker della guerra, non sembra destinata a finire presto.


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