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Il Foglio Rassegna Stampa
22.09.2006 Ahmadinejad si fa beffe dell'Onu
intanto la Columbia lo invita (e anche Harvard è sempre più antisraeliana)

Testata: Il Foglio
Data: 22 settembre 2006
Pagina: 1
Autore: la redazione
Titolo: «Ahmadinejad smantella l’Onu, perfino qualche onusiano se ne accorge - Il giorno in cui Harvard si è svegliata un po’ più anti Israele»

Dalla prima pagina del FOGLIO del 22 settembre 2006:

New York. La carnevalesca settimana al Palazzo di vetro delle Nazioni Unite ha mostrato nel modo più chiaro possibile quanto il sistema di istituzioni internazionali creato alla fine della Seconda guerra mondiale sia un reperto del passato, incapace di affrontare le sfide del nuovo secolo. La riunione importante sul medio oriente, sul Libano e sul nucleare iraniano si è svolta a cena il 19 sera, fuori dall’ambito Onu, tra i ministri degli Esteri dei cinque paesi membri del Consiglio di sicurezza con diritto di veto, più Germania e Italia, una coalizione ad hoc formata dai paesi più o meno volenterosi di fermare la corsa atomica di Teheran. La prossima è domani, quella dell’Alleanza transatlantica, dove per America ed Europa è più facile trovare una posizione comune.
Consapevoli che il Consiglio di sicurezza e l’Assemblea generale non sono in grado di agire – come dimostrano l’ultimatum all’Iran passato in cavalleria e le decine di risoluzioni violate da Saddam senza che l’Onu facesse nulla per farle rispettare – i più o meno volenterosi cercano di trovare una linea condivisa sull’Iran e di parlare con una voce sola a Teheran, malgrado la scelta unilaterale di Prodi di incontrare Ahmadinejad non abbia giovato allo sforzo multilaterale. Ma la novità è un’altra. Ad aver decretato la fine del sistema internazionale che conosciamo è stato lo stesso presidente dell’Iran, le cui mire nucleari il mondo occidentale vorrebbe contenere con gli strumenti dell’Onu. In piena Assemblea generale e tra gli applausi della maggioranza dei paesi membri, Ahmadinejad ha detto di non riconoscere la legittimità dell’Onu, cioè di quell’istituzione che ha imposto illegalmente l’entità sionista al medio oriente. Senza giri di parole ha spiegato che l’Onu è stata creata a immagine e somiglianza dei grandi oppressori dell’umanità, quindi non ha alcun diritto storico e giuridico per continuare a decidere i destini del medio oriente popolato dagli oppressi. Subito dopo, sullo stesso palco, il presidente islamista del Sudan, responsabile del genocidio in Darfur, ha ripetuto lo stesso concetto e ha rifiutato l’ipotesi dei Caschi blu per fermare il massacro. Sono seguiti applausi. Anche il venezuelano Hugo Chávez, grande alleato di Ahmadinejad, s’è preso gioco dell’Onu, oltre ad aver definito Bush “el diablo” e consigliato la lettura di un libro di Noam Chomsky (Chávez ha aggiunto che il suo più grande dispiacere è di non aver conosciuto Chomsky prima della sua morte, ma Chomsky è vivo).

Nel salotto buono scuotono la testa
Ahmadinejad ha rifiutato l’ultimatum dell’Onu, ha spiegato che il disarmo Hezbollah richiesto dalle Nazioni Unite non lo riguarda e ha ribadito a ogni occasione politica mondana (anche con Prodi?) l’idea che l’Olocausto non sia mai avvenuto, intrattenendo sul tema i membri del Council on Foreign Relations con ben 40 minuti di dettagli e ricostruzioni storiche che hanno lasciato sgomenti i pur arrendevoli soci del salotto buono della politica estera americana. All’incontro erano presenti i campioni del realismo politico, da Brent Scowcroft a Richard Haass a Robert Blackwill. Sono usciti scuotendo la testa, prevedendo che con questo tizio sarà difficile negoziare e che la situazione volge verso un confronto durissimo.
Gli Stati Uniti non stanno preparando un attacco all’Iran, sebbene al Pentagono sia in funzione la nuova “Direzione Iran” guidata da Eric Edelman, sottosegretario alle Politiche di difesa, sulla scia di Paul Wolfowitz e Douglas Feith. Ma questa volta non c’è battaglia tra il Pentagono dei falchi e il dipartimento di stato delle colombe. Condi Rice ha il pieno appoggio di Bush e di Cheney, entrambi convinti che la carta diplomatica è da giocare fino all’ultimo, soddisfacendo gli europei. Sono però altrettanto certi che questi negoziati falliranno, come la settimana all’Onu ha dimostrato finanche a Henry Kissinger, il re della realpolitik. In un saggio pubblicato dal Washington Post, Kissinger ha scritto che “non stiamo assistendo ad attacchi terroristici isolati, ma a un preciso assalto al sistema internazionale” e che “la forza motrice dietro questa sfida è la convinzione jihadista dell’illegittimità dell’ordine esistente”. La sintesi è di David Brooks, sul New York Times di ieri: il mondo libero usa politiche e istituzioni progettate per affrontare un nemico laico e burocratico come era quello sovietico, ma sono strumenti inutili contro la forza millenarista dei guerrasantieri di Allah.

Da pagina 3, un articolo sull'ostilità antisraeliana nelle grandi università americane:

Gerusalemme. Le università americane si fanno concorrenza un po’ su tutto, del resto è il mercato a decidere il loro prestigio. Le gare all’interno dei dipartimenti di studi mediorientali, in particolare, sono fatte a colpi di paper e inviti eccellenti. Una ventina di giorni fa Harvard ha accolto l’ex presidente iraniano, Mohammad Khatami, e oggi – stando al New York Sun – alla Columbia è atteso Mahmoud Ahmadinejad, il presidente iraniano. Nel botta e risposta tra due degli atenei più prestigiosi d’America s’insinua indisturbato l’antisemitismo. Quello della Columbia è piuttosto noto, quello di Harvard è cresciuto piano piano, come hanno raccontato al Foglio alcuni suoi celebri professori. Ruth Wisse, scholar di Yiddish e saggista politica, una tra i pochi conservatori del campus, dice che si è “sconvolta dal fatto che una persona che sostiene il jihad violento e la distruzione d’Israele come Khatami sia stato invitato”. L’ateneo dà la parola a chiunque, spiega Wisse: “Harvard dice sempre che dobbiamo essere aperti a qualsiasi cosa, bisogna ascoltare i nemici”. Certo, le università, nelle democrazie, devono promuovere il dialogo e i dibattiti, ma il dipartimento che si occupa di medio oriente è diventato proarabo e anti Israele? Wisse continua a ripetere “sempre più”, lo dice almeno cinque volte. Un altro professore di Harvard – anonimo – conferma che “la lobby araba lavora per far emergere un atteggiamento anti Israele”. Nel 2002, 120 professori di Harvard e del Mit hanno firmato una petizione con la quale chiedevano all’università di rifiutare investimenti da Israele e dalle compagnie americane che vendevano armi al governo di Gerusalemme. Wisse ricorda che “era un momento di grande tensione al campus. Le malignità nei confronti di Israele e di coloro lo sostengono sono state accettate, prima era un non detto che restava tra le righe”. Corre voce che le dimissioni di Larry Summers, nel giugno del 2006, da presidente di Harvard siano collegate con la sua difesa di Israele e con le critiche dai professori più di sinistra che Summers aveva definito “antisemiti nei fatti, se non nelle intenzioni”. Nel marzo scorso il saggio anti Israele – “La lobby di Israele e la politica estera americana” – di un professore di Chicago, John Mearsheimer, e del direttore della Kennedy School di Harvard, Stephen Walt, ha suscitato polemiche. Anche se l’Università di Boston ha tolto la paternità dallo scritto anti israeliano molti sostengono che il libello sia circolato via email con l’etichetta di “lettura raccomandata”. Lo storico Micheal Oren, che ha passato un semestre come visiting professor ad Harvard, spiega: “Il rifiuto da parte del dipartimento di dissociarsi dal report che non rispetta gli standard più rudimentali della ricerca, che postula cospirazioni senza alcuna dimostrazione, che, se fosse diretto verso qualsiasi altro gruppo etnico, sarebbe definito razzista, pone molte domande sullo stato dell’ateneo”. Un segnale di equilibrio è dato dal fatto che il saggio di Martin Kramer “La torre d’avorio nella sabbia” – nel quale critica i dipartimenti di studi mediorientali – deve essere letto dagli studenti del primo anno con “Orientalismo” di Edward Said, lo studioso palestinese che ha guidato il dipartimento di studi mediorientali della Columbia, scomparso nel 2003. Kramer dice che “è un passo avanti per creare una controcultura rispetto al pensiero di Said che ha dominato gli studi mediorientali per anni, e soprattutto permette agli studenti di tirare da soli le loro conclusioni”. Un piccolo passetto, conclude Kramer, la strada è ancora lunga.

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