La REPUBBLICA del 21 aprile 2006 pubblica un'intervista di Alix Van Buren all'analista Vali Nasr.
Le tesi di Nasr sono attualmente al centro del dibattito sulla questione iraniana negli Stati Uniti: la REPUBBLICA ha dunque fatto bene ad occuparsene.
Ci chiediamo però, perché non dar conto anche delle opinioni di chi è molto meno ottimista di Nasr circa la possibilità di un dialogo proficuo con l'Iran e con un mondo sciita "khomeinizzato"? (vedi Se gli sciiti scelgono la teocrazia da Informazione Corretta del 14.09.2006)
Ecco il testo:
«È inutile negarlo: il djinn dell´Iran è sfuggito dal vaso di Pandora. Ora Teheran è una potenza regionale. A questo s´aggiunge il risveglio degli sciiti attraverso il Medio Oriente: 140 milioni a lungo emarginati, che dal Libano al Pakistan, dopo l´Iraq, reclamano l´inclusione ai vertici del potere». Vali Nasr non è uomo da centellinare le parole. Figlio dell´élite intellettuale e politica persiana, allievo prodigio dell´Mit bostoniano, a 46 anni è l´esperto più corteggiato a Washington. Il suo saggio, The Shia Revival, il risveglio degli sciiti, appena dato alle stampe è già la bibbia degli orientalisti.
Professore Nasr, il confronto fra Washington e Teheran sembra inevitabile. L´Europa e l´Italia possono mediare?
«Un´ opzione militare non sarebbe risolutiva: semmai punitiva. Rafforzerebbe la popolarità del regime, come per Hezbollah. Ma adesso aspettiamo il negoziato con la Ue, se l´Europa e il primo ministro Prodi otterranno concessioni positive, se riusciranno a moderare il comportamento di Teheran, soprattutto del presidente Ahmadinejad digiuno com´è di esperienza internazionale. Il fracasso dei tamburi di guerra s´avvicina. Se sia però il preludio a un´azione, questo dipende anche da Teheran».
Un Iran tanto potente?
«Quel che conta è l´immagine che Teheran ha di sé stessa. Dal suo osservatorio oggi vede un paesaggio mediorientale profondamente trasformato. In poco tempo, dal 2001, è crollato il muro sunnita che l´accerchiava: s´è disciolto il regime dei Taliban a oriente. È scomparso il nemico a occidente, Saddam Hussein, e col Ba´th il nazionalismo arabo che l´avversava da 50 anni, ed era l´unico contrappeso. Ciò favorisce una espansione della sua area di influenza, un po´ come Mosca in Europa orientale, ma in termini economici, culturali, politici».
Il quadro che lei dipinge è molto diverso da quel che s´aspettava l´America con la guerra all´Iraq.
«Lo è, davvero. Bernard Lewis, assieme ad altri fautori dell´invasione, prevedeva come corollario il declino del regime iraniano. È successo il contrario: il conflitto ha regalato a Teheran un peso decisivo. Si era pensato che l´Iran, persiano, non avesse influenza sull´Iraq, arabo. Quanto siano invece profondi i legami fra sciiti iracheni e iraniani, lo dice il fatto che il supremo leader religioso in Iraq, al-Sistani, è iraniano, e che il Giudice supremo iraniano, l´Ayatollah Shahroudi, è iracheno».
Lei sta dicendo che Washington ha consegnato agli sciiti la prima vittoria in 1400 anni di storia?
«Proprio così, nel mondo arabo. Con l´ascesa degli sciiti in Iraq, per la prima volta dalla nascita dell´Islam, si sono risvegliate le speranze di 150 milioni dal Bahrain al Kuwait all´Arabia Saudita al Libano. È una rinascita destinata a squassare l´equilibrio settario in Iraq e nel Medio Oriente per decenni. Tanto più se si considera che nel frattempo è crollato un pilastro della politica Usa in Medio Oriente».
Quale?
«Si sono indeboliti i regimi sunniti. Fino a poco fa Washington contava sull´Egitto, la Giordania, l´Arabia Saudita per promuovere i suoi interessi. Ma quei governi se da un lato non riescono ad arginare movimenti come Hamas o Hezbollah, né l´insorgenza sunnita irachena, dall´altro non hanno il potere di intercedere presso la Casa Bianca per i palestinesi o una tregua in Libano. Ma c´è un risvolto positivo: per l´America è l´occasione di gettare un ponte agli sciiti, in particolare all´Iran».
Però come dialogare con un regime considerato terrorista, nemico di Stati Uniti e Israele, col sospetto che voglia dotarsi dell´arma atomica?
«Se si vuole una soluzione bisogna dialogare con i rivali, come Washington e Mosca durante la guerra fredda. Teheran ha in pugno le carte vincenti. A torto o a ragione, ritiene di avere un ruolo centrale nella stabilità. Lo ha dimostrato in Afghanistan, agevolando la formazione del governo Karzai. In Iraq, la stabilità è vitale anche per Teheran. Il regime clericale può influenzare i gruppi sciiti, impedire o scatenare l´insorgenza nel Sud, facilitare come ha fatto l´unità fra le fazioni ribelli nell´esecutivo».
E in Libano? che carte può giocare?
«Non è chiaro se l´Iran abbia sostenuto l´azione di Hezbollah. Ma s´è visto riconfermare il rango di potenza regionale. Quel conflitto illustra la necessità di una nuova politica verso gli sciiti, di ridisegnare la mappa politica libanese attraverso una conferenza cui partecipino Teheran e Damasco. Non ci saranno democrazia né pace senza una equa ridistribuzione del potere; gli sciiti, finora esclusi dai più alti incarichi, sono il 40-50 per cento della popolazione».
Resta l´ambizione nucleare, il rischio di un´atomica iraniana.
«Non bisogna farsi tentare da una lettura semplicistica della realtà. I chierici di Teheran sono uomini di potere, ambiziosi negli affari: non millenaristi suicidi. La ricerca di un deterrente nucleare nasce dalla convinzione che il Paese debba difendersi, radicata negli Anni Ottanta: alimentata dalle armi chimiche di Saddam, dalle minacce americane, l´iscrizione nell´Asse del Male. Agli occhi del regime vale la soluzione giapponese: padroneggiare la tecnologia per svilupparla in breve tempo se necessario».
Professore Nasr, sarà guerra?
«Fra Washington e Teheran corre un sospetto alimentato da trent´anni di silenzio e incomprensioni. Ogni mossa avventata può rivelarsi fatale. Ad esempio, Teheran può sopravvalutare la percezione della propria potenza, respingere un compromesso fidando sulla debolezza dell´America, in difficoltà in Iraq. Ma il genio iraniano si è liberato, chi vuole isolarlo s´illude. Piuttosto, bisogna moderarne l´ascesa».
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