domenica 24 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






La Repubblica Rassegna Stampa
20.09.2006 Non dimentichiamo il pericolo terrorismo
un condivisibile appello di Mario Pirani, che però dimostra troppa fiducia verso i regimi "laici" del Medio Oriente

Testata: La Repubblica
Data: 20 settembre 2006
Pagina: 1
Autore: Mario Pirani
Titolo: «La tentazione di dimenticare il pericolo del terrorismo»

Da La REPUBBLICA del 20 novembre 2006 un editoriale in gran parte  condivisibile  di Mario Pirani.  Ci sembra però criticabile la convinzione che i regimi "laici" del mondo islamico siano potenziali alleati dell'occidente nel confronto con il fondamentalismo.
In realtà le ideologie, per esempio, del Baath siriano e iracheno, del Fatah palestinese, dei nasseriani egiziani  e del FlN algerino, sono state e sono esse stesse intrise di jihadismo e di avversione ideologica per l'occidente.
E i regimi a cui hanno dato vita sono stati e in alcuni casi continuano ad essere   tra i promotori del terrorismo, anche fondamentalista (pensiamo alla Siria con Hamas ed Hezbollah).
Ecco il testo:


L´attacco del mondo musulmano al Papa s´iscrive nel capitolo storico aperto con l´11 settembre 2001. Chi non ha colto il significato delle Due Torri è oggi esterrefatto di fronte una reazione tanto generalizzata quanto, altrimenti, incomprensibile. Che in questi cinque anni la lettura di quell´attacco si fosse appannata lo si è capito dal tono delle celebrazioni: all´iniziale solidarietà col grande paese colpito erano subentrati i distinguo, le prese di distanza, le critiche, quasi il catastrofico errore di Bush con la guerra in Iraq, avesse annebbiato la portata della minaccia terroristica. Ha persino trovato udienza chi alimentava la versione secondo cui si era trattato di un complotto auto gestito: la vittima stessa era, in realtà, il colpevole e aveva organizzato quell´immane colpo ai suoi propri danni, onde aver mano libera nella ritorsione, instaurando un regime autoritario all´interno, esagerando grandemente la pericolosità dell´eventuale nemico esterno.
Si è avvalorato come una realtà possibile il più smaccato grandguignol (vedi, ad esempio, la trasmissione Matrix di Canale 5 dove alcuni strambi video-monatti hanno cercato di propalare la "rivelazione" che a far saltare i grattacieli sia stato Bush). Persino la più che doverosa condanna dell´eccesso di difesa che ad Abu Ghraib e a Guantanamo ha oltrepassato i limiti del rispetto elementare dell´essere umano – esemplarmente delineati da Gustavo Zagrebelski (Repubblica del 18 settembre) è stata presa a pretesto per una damnatio senza appello dell´America. Molti commentatori si sono abbandonati a conclusioni desolanti sugli Stati Uniti e noncuranti nei confronti del terrorismo. Prendiamo, ad esempio, l´articolo di lord Ralph Dahrendorf (Repubblica dell´8 settembre) che s´interroga se l´11 settembre segni l´inizio di una guerra o non sia più giusto parlarne solo come di «una impresa criminale»? La risposta positiva al quesito permette all´eminente sociologo non solo di esprimere critiche drastiche – in parte condivisibili – sulle limitazioni introdotte nella legislazione americana, ma anche dedurne che negli Stati Uniti si sarebbe ormai instaurato «un nuovo autoritarismo» e che «la democrazia e lo stato di diritto risentono più dei colpi dei loro difensori che di quelli degli attaccanti».
Mi sono chiesto quali suggestioni abbiano prodotto una visione tanto liquidatoria sia delle capacità reattive della democrazia americana sia della pericolosità e natura della minaccia terroristica. Chi scrive – è utile ribadirlo – ha considerato fin dall´inizio l´avventura irachena un tragico errore, tenendo, tuttavia, ben saldo che l´impegno antiterroristico rimaneva una scelta obbligata, ribadita dalla sequela di attentati in tutto il mondo, da Madrid a Londra, dal mar Rosso a Bali e ad Istanbul. Orbene, credo che proprio la natura del fenomeno seguiti a sfuggire ai tanti che Dahrendorf egregiamente rappresenta. Egli, infatti, a proposito dell´11 settembre, confessa «la difficoltà di comprenderne gli obbiettivi, al di là del risentimento degli attentatori contro l´Occidente e il suo stile di vita». Quasi, l´impulso dei kamikaze altro non fosse che una esplosione psicotica da frustrazione da affrontare con terapie «dolci» per non eccitarla ancor più. La ricetta suggerita è, di conseguenza, consolatoria: «I nostri dirigenti devono fare ogni sforzo per placare l´ansia del pubblico, anziché sfruttarla a proprio vantaggio. I terroristi non possono vincere dato che la loro visione tenebrosa del mondo non avrà mai un´ampia legittimazione popolare». Aiuta assai più a capire il lucido pessimismo di Umberto Eco che nella recente intervista al Nouvel Observateur (su Repubblica del 12 settembre), invita ad abbandonare vecchie categorie interpretative. «Nessuna guerra tradizionale – dice – è più possibile... non concerne più due paesi nemici... non si combatte più tra due fronti ben distinti». Potrei aggiungere, come ho cercato di analizzare in vari scritti (vedi: È scoppiata la terza guerra mondiale? Mondadori 2005) che lo stesso concetto di territorio è diventato sfuggente, così come il fattore temporale, per dar spazio, invece, ad un conflitto intermittente, in luoghi diversi e lontani fra loro, che non presuppone dichiarazioni di belligeranza né firma di trattati di pace (con parziale eccezione per Israele-Palestina). La natura "diversa" di questa guerra, secondo Eco, risiede nel fatto che si scontrano «da un lato la comunità occidentale e dall´altro il terrorismo fondamentalista». Una analisi, quindi, che non teme di collocarsi entro il paradigma dello scontro di civiltà teorizzato dal celebre libro di Huntington, contro il quale, peraltro, non vi è voce "politicamente corretta" che non ribadisca, a mo´ di giaculatoria esorcizzante, una pregiudiziale condanna. Che se fosse davvero universalmente condivisa, non avrebbe certo bisogno di ricorrenti conferme. Il punto discutibile della tesi di Eco mi sembra, invece, un altro e, cioè, che questo scontro (di culture più che di civiltà) non passa affatto lungo una linea di faglia ben netta: di qua l´Occidente, di là il fondamentalismo islamico. Lo spartiacque è più confuso, la jihad stessa ha più significati (vuoi guerra santa che sforzo spirituale per avvicinarsi ad Allah), gli shaheed – gli attentatori suicidi – non sono degli psicotici incomprensibili ma portatori di un messaggio accolto da larghe masse che gli attribuiscono una valenza di riscatto, si esaltano per l´innovazione tecnologica impersonata dal kamikaze contro cui le armi classiche possono ben poco, intuiscono, non a torto, che l´odierna guerra santa, per la prima volta, può risultare vittoriosa dopo secoli di sconfitte e umiliazioni. Se l´ultimo grande tentativo di riscatto, ad un tempo nazionalistico e di modernizzazione, tramontò col socialismo dei colonnelli; se anche i vari tentativi di agganciare la modernità attraverso l´imitazione fallita del mondo capitalistico, si è tradotta in loco nella corruzione dei gruppi dirigenti (i cosiddetti regimi moderati), ebbene si capisce, allora, come il ritorno alla concezione fondamentalista dell´Islam, ad una lettura pietrificata del Corano, alla unità totale tra Fede e Legge abbiano finito per rappresentare per milioni di persone l´unica risposta a quella sensazione profondamente radicata secondo cui «il futuro è una strada ostruita... la tua condizione è ineluttabile, la tua impotenza ridicolizzata, la tua speranza condannata a priori» (vedi L´infelicità araba di Samir Kassir, ed Einaudi 2006). Il braccio armato dell´universo fondamentalista, nelle sue diverse varianti (Al Qaeda, gli Hezbollah, le varie organizzazioni dei mujahidin, gli shaeedin, da Bagdad a Gerusalemme, i gruppi salafiti, i talebani, ecc) anche, se numericamente minoritario, gode di grande appoggio e simpatia, capace di suscitare potenti, immediati e diffusi movimenti di massa con qualsiasi pretesto, dalle vignette di un giornale danese al discorso del Papa. Questo avviene per l´incrociarsi della rinascita integralista con l´avvento, anche nel mondo islamico, della cultura dell´informazione: l´impatto per la prima volta di proprie televisioni (da al-Jazeera ad al-Arabiya), l´esplosione di Internet, l´uso dinamico di un network jihadista in cui possono esser trasmessi i più diversi messaggi (da quelli rivolti alle masse a quelli per indottrinare i militanti, fino alle direttive più segrete per il terrorismo operativo) ha creato una situazione del tutto inedita. In essa la «jihad della parola» sbocca senza soluzione di continuità nella «jihad della spada», secondo la definizione di Bin Laden.
L´uso congiunto della tv, della rete, di Internet non significa solo l´avvento di una strumentazione tecnologica ma di una "raffineria virtuale" che fornisce in tempo reale e continuo il carburante ideologico, religioso, politico e propagandistico per animare e condurre la guerra santa, anche senza strutture permanenti di comando, sultani, califfi, figure carismatiche (queste possono esser create e sostituite di volta in volta dalla interazione tra tv ed Internet). L´aggancio per questa via alla modernità mediatica porta con sé anche la realizzazione virtuale di un messaggio antico, sempre fallito: l´aspirazione alla ummah, l´unità dei credenti in Allah. Oggi il viatico del web corre dal Marocco all´Indonesia, dal Pakistan alla Siria, supera in nome di una jihad comune le frontiere, permette a gruppi singoli, anche in Europa, di diventare protagonisti e di collegarsi tra loro senza necessità di capi che da lontano promuovano l´azione.
La jihad permanente, sia della parola che della spada, ha un obbiettivo ben preciso: debellare col terrorismo e ogni altro mezzo quanti nel mondo islamico credono ancora nella modernizzazione della società e rifiutano di piegarsi ad un arroccamento basato su una interpretazione reazionaria e totalizzante della legge coranica. Per questo lo scontro di culture passa in primo luogo all´interno dell´Islam per colpire, terrorizzare, distruggere tutti quei regimi che «imitano gli infedeli», vorrebbero importarne i costumi e copiarne le istituzioni, corrompendo i fedeli. Per questo sono soprattutto islamiche le centinaia di migliaia di vittime in Algeria, in Iraq, in Afghanistan e ovunque operi il terrorismo fondamentalista.
Non è per caso che i regimi laici, dai "giovani turchi" di Ataturk al Baath in Siria e Iraq, dall´Egitto di Nasser all´Algeria dei militari abbiano perseguitato fin che hanno potuto i partiti religiosi e le soffocato le pretese dei mullah. La guerra santa contro l´Occidente viene in seconda battuta ma ha sempre come obbiettivo il controllo dei paesi islamici, non certo la "reconquista" di Granada o il secondo assedio di Vienna. Far crollare le Due Torri, portare il terrore a Londra, a Madrid, a Istanbul, minacciare da oggi anche la Roma dei Papi vuol essere la dimostrazione che la lotta contro l´Occidente può essere condotta spietatamente ed anche vinta. Così la distruzione di Israele. Magari grazie alla "bomba santa" di Ahmadinejad.

Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione della Repubblica


rubrica.lettere@repubblica.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT