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La Repubblica Rassegna Stampa
15.09.2006 Come se il terrorismo fondamentalista non esistesse
un dossier sull'"unilateralismo americano"

Testata: La Repubblica
Data: 15 settembre 2006
Pagina: 53
Autore: Lucio Caracciolo - Roberto Festa
Titolo: «Unilateralismo Quando un impero entra in crisi - America, tramonta la lunga egemonia»
Dossier di REPUBBLICA sulla presunta  crisi dell' "impero" americano. L'apertura è affidata a Lucio Caracciolo che riesce a proporre una descrizione della politica statunitense che prescinde totalmente dall'esistenza di fenomeni chiamati "terrorismo islamista", "fondamentalismo islamico", jihad.
Con queste omissioni, Caracciolo ha buon gioco nel descrivere un'America imperialista, in crisi perchè non tutti al mondo "vogliono diventare satelliti americani".
Ecco il testo:


Unilaterali quando si può, multilaterali quando si deve. A ben guardare, i due termini così di moda nel gergo politico, non esprimono necessariamente un´opposizione di principio. Sono prassi, prima che ideologie. L´esperienza insegna che le grandi potenze subiscono la tentazione di fare da sole, salvo poi disporsi a guidare coalizioni formate a difesa dei propri interessi (unilateralismo puro o mascherato), mentre i più deboli oscillano tra l´isolamento e la partecipazione ad alleanze che non possono dominare, ma solo condizionare (multilateralismo). Si tratta ovviamente di idealtipi molto astratti: qualsiasi potenza deve in ogni caso tenere conto dell´ambiente in cui opera, dunque non può mai darsi unilateralismo (solipsismo) assoluto.
In questo schema, gli Stati Uniti incarnano il primo modello, l´Italia e gli altri alleati europei il secondo. Così almeno è stato dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ma dagli anni Novanta e soprattutto dopo l´11 settembre questa costellazione occidentale – l´America al centro e i satelliti europei ad orbitarle intorno a distanze prestabilite – mostra sintomi di collasso.
E´ successo che dopo aver dominato mezzo mondo – appunto l´Occidente – gli americani hanno pensato di poter ordinare secondo i propri interessi e princìpi anche l´altra metà del pianeta, quella che fino al 1989 obbediva agli ordini di Mosca o ne era fortemente influenzata (Terzo Mondo incluso). Di questo senso di missione si nutre l´ideologia e la prassi neoconservatrice, tuttora influente a Washington a dispetto delle dure repliche della storia.
Uno degli ideologi dell´"impero americano", Charles Krauthammer, teorizzava qualche anno fa il "momento unipolare". Gli Stati Uniti sarebbero stati in grado di plasmare il resto dell´umanità a propria immagine e somiglianza. Il mondo essendo una sorta di America in potenza che attendeva di essere fecondata dai valori e dallo stile di vita a stelle e strisce. Non era così. E se mai lo è stato, non lo è più.
Quanto agli alleati europei dell´America, dopo il suicidio dell´Urss e ancor più dopo l´11 settembre hanno dovuto elaborare il lutto di non essere più decisivi per gli interessi americani, almeno non quanto lo erano in regime di cortina di ferro. Gli Stati Uniti sprezzavano ormai l´Alleanza atlantica, che per decenni fu la vera bandiera degli europei occidentali (Francia inclusa, anche se non lo poteva ammettere). Tanto da assegnare i voti agli europei in base alla loro utilità marginale per gli Usa: il gruppo dei "buoni", cioè degli asserviti, era qualificato "Nuova Europa", gli altri, inutili o recalcitranti, erano relegati nel girone veteroeuropeo.
Negli ultimi tre anni è accaduto l´impensabile (per Bush): subito dopo aver cantato vittoria, l´America ha cominciato a perdere la "guerra al terrorismo". Ha scoperto che non tutto il mondo aspira a diventare un satellite Usa. E se pure non può ammettere la sconfitta – specialmente ora, a ridosso delle cruciali elezioni di mezzo termine – la Casa Bianca si è resa conto di dover ricorrere agli altri per evitare che il grave rovescio in Iraq produca una catastrofe strategica. Se non è già troppo tardi.
Per Bush siamo quindi nella fase della socializzazione delle perdite. Ossia del multilateralismo coatto. Una nazione che di norma aborrisce le alleanze in quanto teme che finiscano per condizionarla – ciò che è inevitabile in qualsiasi coalizione – è costretta a chiedere soldi e soldati per tenere in piedi il suo impero a credito, fondato sul rastrellamento di risorse esterne a sostegno della propria economia, della propria sicurezza e quindi della propria influenza nel mondo. La Cina, la Russia, l´India – ma anche nemici dichiarati come l´Iran, il Venezuela o la Corea del Nord - l´hanno capito e ne profittano per guadagnare posizioni nella gerarchia globale.
Sembra scoccata dunque l´ora dell´Europa. Sarebbe il momento di enfatizzare il "lato" europeo in un contesto sempre più accentuatamente "multilaterale". Di unirsi per pesare di più nel rapporto con l´America e sulla scena del mondo. Accade il contrario: assistiamo dopo l´Ottantanove alla rinazionalizzazione della politica estera dei singoli paesi europei. Dopo avere progressivamente svuotato alcuni Stati membri di prerogative fondamentali, come il batter moneta, non abbiamo costruito quella casa comune che pure molti di noi continuano a sognare. Anzi, abbiamo integrato nella famiglia comunitaria diversi piccoli paesi dell´Est appena costituiti in Stati (ad esempio Slovenia, Lituania, Lettonia, Estonia, Cechia, Slovacchia) o un paese più grande ma traumatizzato da una lunga storia di oppressione straniera, come la Polonia: tutte nazioni che vivono oggi il loro Risorgimento (o semplicemente il loro sorgimento). E non inclinano quindi a sciogliere le sovranità appena conquistate in un´entità sovraordinata.
Quanto alle maggiori potenze europee, dalla Francia alla Germania alla Gran Bretagna, continuano a muoversi in ordine sparso. Né potrebbe essere altrimenti, dato che i loro leader rispondono agli elettorati nazionali – da cui vengono eventualmente revocati - non a una inesistente constituency europea. Ultimo esempio il Libano, con la Francia in extremis sul terreno – quasi costretta dal protagonismo italiano - la Germania al largo e la Gran Bretagna a casa. Un esempio ancora più rilevante è il negoziato con l´Iran, dove quei tre paesi marciano compatti, ma senza gli altri ventidue.
Risultato: il "multilateralismo europeo" si esprime dentro l´Unione Europea, non fuori di essa. Dal punto di vista americano è la migliore Europa possibile: sufficientemente stabile da non suscitare l´incubo di una nuova Normandia, e insieme abbastanza divisa, in modo da consentire a Washington di coltivare venticinque rapporti bilaterali in posizione dominante piuttosto che una sola relazione transatlantica su basi paritarie.
L´Italia vive con particolare sofferenza questa crisi. La nostra vocazione multilaterale è sincera. Nella storia moderna l´abbiamo portata al parossismo, cambiando spesso lato nel corso della medesima guerra (così nelle deflagrazioni mondiali del 1914-18 e del 1939-45). Non coltiviamo sogni di grandezza nazionale, anche perché nel recente passato sono finiti in incubo. Cerchiamo disperatamente di aggrapparci a un´Europa di cui spesso discettiamo come se davvero fosse un soggetto geopolitico, un global player.
Se le parole non diventano fatti, i "fatti" diventano parole. E´ questo il rischio maggiore, per chi tra noi non ha ancora rinunciato a concepire un progetto europeo: a forza di evocarla senza definirla, finiremo per pensare che l´Europa esista davvero e agisca per tale. Ma forse è già successo. E preferiamo non accorgercene.
Quanto al resto del mondo, ha già tanti lati da poter sopravvivere senza un lato europeo.

Roberto Festa intervista Stephen Walt, uno dei due autori del saggio antisemita contro il "dominio" della lobby ebraica sulla politica statunitense.
Walt, come da copione, spiega che non esiste un odio ideologico del fondamentalismo islamico contro l'Occidente, ma solo la risposta a singole politiche.
Come per esempio l'opposizione alla cancellazione di Israele dalla carta geografica?


«Il primato nel mondo non è solo questione di forza economica e militare. E´ anche questione di valori, di responsabilità, di capacità di far pesare il proprio senso morale. E in questo gli Stati Uniti hanno fallito». Stephen Walt individua in ragioni soprattutto culturali, psicologiche, etiche, le radici della caduta della supremazia americana nel mondo. Walt insegna Relazioni Internazionali a Harvard. Appartiene a quel gruppo di "conservatori realisti", in politica internazionale, spazzato via dai neocons dell´amministrazione Bush. Il suo ultimo libro, Taming American Power: The Global Response to U.S. Primacy (Norton, 320 pp., 17.95$) è un´analisi della risposta internazionale alle politiche unilaterali dell´amministrazione Bush.
Mister Walt, dopo il rapido collasso dell´Unione Sovietica, gli Stati Uniti sono restati l´unica vera potenza globale. Le più recenti vicende internazionali - il Libano, il conflitto sul nucleare iraniano e la crisi missilistica con la Corea del nord - dimostrano però una certa difficoltà americana a far pesare la propria egemonia. Perché?
«Gli Stati Uniti sono rimasti l´unica vera superpotenza, ma il loro potere è comunque soggetto a una serie di limiti. Storicamente, l´America si dimostra capace di vincere le guerre convenzionali. Ha funzionato anche la politica della deterrenza, negli anni della Guerra Fredda. Ma non siamo mai stati altrettanto bravi a occupare e governare altre società. Gli avversari degli Stati Uniti, per quanto più deboli militarmente ed economicamente, hanno molti mezzi per opporsi al potere americano: guerriglia, richiamo alle proprie radici etniche e religiose. In più, la politica unilaterale americana di questi anni non è stata capace di capire le situazioni locali».
Nel suo ultimo libro lei infatti parla di «incapacità di comprendere le radici del risentimento» nei confronti degli Stati Uniti. Di cosa si tratta?
«Sì, questa è una delle ragioni del fallimento delle aspirazioni unilaterali americane. In genere gli americani sono portati a considerare come anti-americanismo ogni opposizione alle proprie politiche. Prendono cioè per ostilità ai valori americani quella che è semplice opposizione a politiche specifiche del governo americano. In realtà, molti nel mondo amano i valori americani. Semplicemente, vorrebbero che gli Stati Uniti se ne dimostrassero all´altezza».
Si riferisce a vicende come quelle di Guantanamo e Abu Ghraib?
«La supremazia globale è qualcosa di diverso dalla pura volontà di potenza fondata su politiche unilaterali. La supremazia globale è anche riconoscimento della leadership politica e morale. Quando gli Stati Uniti mancano di far rispettare i diritti umani, quando loro stessi si rendono responsabili di violazioni, la cosa appare tanto più ipocrita agli occhi degli altri paesi, proprio perché l´America ha l´ambizione di essere una potenza "benevola". Ciò genera un più vasto risentimento, e rende gli altri paesi meno disponibili ad accogliere volontà e politiche del governo americano».
Eppure, in questi anni, i neocons hanno fatto un gran parlare della necessità di usare il potere americano per diffondere libertà e democrazia nel mondo.
«I neocons amano parlare di libertà e moralità, ma la loro azione non ha nulla di morale. Le politiche attuate a partire dal 2001 hanno fatto molte vittime innocenti e rovinato l´immagine dell´America come leader morale del mondo. I conservatori realisti del passato, come Brent Scowcroft - ma mi ci metto anch´io - non sono mai stati indifferenti alle preoccupazioni di ordine morale, ma le hanno sempre calate nelle situazioni concrete».
Quanto l´unilateralismo di questi anni è segnato dalla vecchia idea dell´"eccezionalità" americana, del "destino manifesto" degli Stati Uniti?
«Ogni superpotenza ha la tendenza a considerarsi in modo speciale, ma è vero che l´idea del ruolo privilegiato degli Stati Uniti nel mondo è profondamente radicata nella cultura politica americana. La fiducia negli Stati Uniti come modello per il resto del mondo ha rafforzato la spinta a "fare da soli". L´amministrazione Bush ha sfruttato questo sentimento per perseguire i propri disegni unilaterali».
La globalizzazione - nel senso di una società transnazionale di corporations, organizzazioni non-governative, gruppi etnici e religiosi - erode le possibilità di una vera potenza globale?
«Sì e no. Gli Stati Uniti restano il solo paese che può agire militarmente su larga scala, e che ha un´enorme influenza nell´economia internazionale e nella politica globale. Ma la globalizzazione accelera il cambiamento e crea un mondo più difficile da controllare. Oggi gli eventi di una parte del mondo possono avere effetti inaspettati in un´altra. Ne risulta, per il governo americano, più responsabilità di controllo ma meno capacità di azione».
Nelle ultime settimane, soprattutto nella vicenda del nucleare iraniano, gli Stati Uniti hanno mostrato un approccio molto più comprensivo e multilaterale. E´ il segno che i giorni dell´unilateralismo dell´amministrazione Bush sono finiti?
«No, non completamente. L´amministrazione ha accettato con riluttanza l´idea di aprire un dialogo con l´Iran, e solo perché altrimenti non avrebbe avuto l´appoggio di Europa, Cina e Russia. La posizione americana resta però irrealistica. Bush insiste perché l´Iran prima rinunci ai suoi programmi nucleari, per poi discutere dei temi che interessano Teheran. Ma questo non è negoziato; è semplicemente dire all´altra parte cosa fare. Sfortunamente, non funzionerà».
America Latina, Cina, Medio Oriente. Da dove viene oggi la sfida più pericolosa all´egemonia americana?
«Nel breve periodo, viene dal Medio Oriente, soprattutto dopo la fallita occupazione americana dell´Iraq. Sul lungo periodo, la sfida più potente viene dalla Cina, ma ci vorranno ancora diversi decenni prima che questa si materializzi».
L´idea dell´egemonia americana nel mondo è tramontata per sempre?
«Non necessariamente. Con la politica attuale, gli Stati Uniti sono destinati a incontrare un´opposizione sempre più marcata e profonda. Nel caso si dovesse tornare a una strategia più sofisticata, a quella politica estera "umile" che George Bush ha promesso ma non praticato, sarà relativamente semplice ricostruire l´immagine internazionale degli Stati Uniti».

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