"Iraq, l´ammissione di Kofi Annan", non riguarda lo scandalo oil for food e il ruolo di suo figlio Kojo, ma il fatto che "Tutti parlano di disastro totale" .
Questi "tutti" sarebbero i capi di stato mediorentali, tra i quali si trovano due scuole di pensiero.
Chi pensa che gli americani, avendo creato il problema, debbano ora restare e risolvero e quanti come gli iraniani pensano che la stabilità dell'Iraq dipenda dal ritiro del contingente americano.
Ora considerando il ruolo giocato da Iran e Siria e dai gruppi terroristici che operano a partire dall'Arabia Saudita sembra che i giudizi riportati da Annan non vengano propriamente da politici privi di qualsiasi responsabilità circa l'attuale caos iracheno.
Lo stesso Annan, del resto, non lo è, e da parte sua un'"ammissione" circa la gravità della fuga dell'Onu da Baghdad da lui voluta sarebbe stata più onesta di quella sul fallimento americano ispirata ai giudizi del regime iraniano, di quello siriano e delle altre dittature dell'area.
Ecco l'articolo di Arturo Zampaglione tratto dalla REPUBBLICA del 14 settembre 2006:
NEW YORK - Occhi bendati, mani legate dietro la schiena, uccisi con un colpo alla nuca: li hanno trovati così, in una fossa nel quartiere di Dora, a sud di Bagdad, e in altre zone della capitale irachena. In tutto 64 cadaveri, molti con i segni delle torture sul corpo. Sono le ultime vittime della violenza tra sunniti e sciiti, che la Casa Bianca si rifiuta di chiamare «guerra civile», anche se ne ha tutte le caratteristiche e continua a intensificarsi. Al di là delle esecuzioni sommarie degli "squadroni della morte", ci sono anche le autobomba degli insorti, i cecchini che sparano contro i marines, i sequestri di persona. Solo a Bagdad, ieri, sono morte 22 persone in vari attentati. Ad agosto nell´obitorio della capitale sono arrivati 1500 cadaveri, dopo i 1850 di luglio. E queste cifre non comprendono le vittime delle bombe, che rientrano in un conteggio a parte. Il Pentagono ha perso in Iraq 2.666 soldati che, sommati alle morti della guerra afgana, rappresentano un bilancio più pesante di quello dell´11 settembre. «I leaders del Medio Oriente sono convinti che la guerra irachena sia stata un vero disastro per la regione e che l´abbia profondamente destabilizzata», ha detto ieri Kofi Annan, al ritorno da una missione durata due settimane. «Ci sono due scuole di pensiero», ha continuato il segretario generale dell´Onu: «Da un lato coloro che pensano che gli Stati Uniti debbano restare in Iraq, perché avendo creato il problema non possono andarsene via tranquillamente. Dall´altro coloro, come gli iraniani, che ritengono che la presenza americana sia un ostacolo». Di qui, sempre secondo Annan, la posizione impossibile in cui si trova George W. Bush: che non può andarsene da Bagdad, ma neanche restarci. In attesa che le critiche alla guerra riecheggino dall´aula del Palazzo di vetro, dove la settimana prossima si apre l´assemblea generale, anche negli Usa le proteste si fanno più accese ed estese, costringendo la Casa Bianca a soppesare bene le mosse. «L´avventura irachena è stata pericolosa e sbagliata», ha tuonato ieri Ned Lamont, il candidato democratico per il seggio senatoriale del Connecticut e grande avversario dell´ex-candidato alla vicepresidenza Joe Lieberman. I sondaggi mostrano sempre più chiaramente la sfiducia dell´opinione pubblica nei confronti della guerra. La testa del ministro Rumsfeld viene chiesta non solo da esponenti liberal, ma persino dall´ex-colonnello dei marines, John Murtha, ora parlamentare democratico e personaggio di punta del partito anti-guerra, che ieri ha presentato una risoluzione ad hoc. Bush ripete - lo ha fatto nel discorso alla nazione nell´anniversario dell´11 settembre - che la guerra sarà vinta e che, anche ritirandosi dall´Iraq, gli Stati Uniti non sarebbero al riparo da attentati terroristici. Ma anche il presidente, al di là delle dichiarazioni pubbliche, è alla ricerca di strategie alternative. In questa chiave vanno interpretate le indiscrezioni, raccolte dal sito internet «Insight Magazine», del ruolo assunto da James Baker come consigliere e ambasciatore-ombra sulla questione irachena. L´ex-segretario di Stato e amico intimo di Bush-padre, si è messo al lavoro dal mese di marzo: senza pubblicità, senza dare troppo negli occhi. Baker, come tanti altri dell´entourage di Bush senior, a cominciare da Brent Scowcroft, ha un approccio molto diverso da Donald Rumsfeld e dai neo-cons della Casa Bianca. È un pragmatico, non è intriso di ideologie imperiali, conosce bene il Medio Oriente e ha molti rapporti con l´Arabia Saudita. È già andato più volte a Bagdad e in altre capitali della regione. L´obiettivo: delineare una «exit strategy» che potrebbe essere varata subito dopo le elezioni di novembre di midterm.
Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione della Repubblica