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Visioni d’Oriente – Samuele Romanelli Casa Editrice: La Giuntina L’estate: inconfondibile tempo di viaggi. L’era delle ferie mordi e fuggi ha spazzato via l’interminabile villeggiatura e anche il viaggio come cammino verso l’ignoto. Quale avventura potrà mai annidarsi, in fondo, oltre le sale partenze degli aeroporti, le banchine delle navi da crociera, le pullulanti stazioni ferroviarie? Questi luoghi raccontano ormai una monotonia che ci fa sentire a casa in ogni scalo, ogni tappa per quanto esotica. La vacanza formato grandi distanze s’accompagna ormai alla comoda consapevolezza che ogni luogo, anche il più lontano, ci riserva qualcosa di familiare. Di già visto, magari fra le pagine di una rivista patinata, magari in televisione. Se non altro, nell’album di foto di qualche amico che c’è già stato prima di noi. Difficile partire armati soltanto di stupore intatto. Una volta, va da sé, non era così. E allora, se non altro per ritrovare il senso di com’era una volta, viaggiare lontano, capitano a proposito le “Visioni d’Oriente” di Samuele Romanelli. Il suo viaggio in Marocco ha misure, oggi come oggi, davvero impensabili. Vi rimane infatti fra il 1786 e il 1790: quattro anni per farsi un’idea del Paese, degli usi e costumi. Il suo “Viaggio in occidente” – così il titolo originale dell’opera ebraica fu pubblicato già nel 1792, a Vienna. E da allora subì una fortunata serie di ristampe piuttosto ravvicinate. Non si può dar torto agli editori del tempo: è un testo divertente nel vero senso della parola. Attento agli aspetti più curiosi che s’annidano dietro il folklore e i luoghi comuni. Romanelli non risparmia il suo sarcasmo, soprattutto nei confronti delle bizzarre comunità ebraiche che visita: “Fanno acrobazie per interpretare letteralmente semplici formule retoriche adducendo a loro difesa che nessuno si è ancora reso conto del loro significato ovvio e parimenti si invischiano in letture esoteriche di versetti chiari come il sole”. Da dongiovanni qual è, si mostra sempre attento alle presenze femminili che incontra, seppure schermate da veli e palandrane. E mal cela con molta fatica il suo rimpianto di essere nato in un mondo che ha respinto la poligamia. Anche se dichiara (ma sarà vero?) di rifiutare svariati partiti propostigli sul campo, dipinge con “troppo” gusto il ritratto di famiglia di Elihau: “Qui si trovano riunite le sue tre mogli. Quella che superava le altre per dignità, intelligenza e gioventù era originaria di Tangeri, ragion per cui sapeva lo spagnolo ……Anche la più anziana gli aveva messo al mondo figli maschi e femmine, ma quella che veniva da Meknes (grassa come un bue) era sterile….Non c’era mandragora capace di farle tacere quando si contendevano il diritto di passare la notte col marito e spesso Eliahu si ritrovò a dormire da solo pur di non essere costretto a scegliere tra di loro”. Al di là di questo interessante viaggio, vale la pena un’occhiata complessiva su questo avventuriero, intellettuale e poeta nato a Mantova nel 1757 e vissuto a Londra, Amsterdam, Berlino, Vienna, Trieste e Nizza. Passato con disinvoltura dal fronte asburgico a una entusiastica militanza per Napoleone; autore di poesie, traduzioni (come il saggio di Pope sull’uomo che portò dall’inglese all’ebraico), di una degna grammatica ebraica. Fu una figura eclettica, insomma, originale e difficile da incastonare nei canoni tradizionali. Merito soprattutto di quella sua intelligente curiosità verso la vita. Elena Loewenthal La Stampa |
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