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Il Foglio Rassegna Stampa
13.09.2006 L'omicidio di Theo Van Gogh in un libro di Ian Buruma
recensito da Giulio Meotti

Testata: Il Foglio
Data: 13 settembre 2006
Pagina: 3
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «Theo e il jihad dei tulipani»
Dal FOGLIO del 13 settembre 2006

La sera del 1 novembre 2004 Mohammed Bouyeri accoglie gli amici nel suo appartamento di Amsterdam. Ci sono tutti, Ahmed, Jason, Ismael, Fahmi e Rashid. Si cuociono una zuppa, il tempo passa velocemente, ridono e fanno progetti. Una passeggiata in città, si sprecano i commenti sulla bellezza lunare dei canali. Alcuni, fra cui Mohammed detto “Mo”, ascoltano musiche jihadiste nell’iPod. Vibranti, il ritmo dà alla testa, note angoscianti da tapparsi le orecchie, usate anche dai tagliateste in Iraq. E’ una notte tragica, Mohammed ha lasciato un biglietto: “Dormite bene, bravi cittadini di Amsterdam”. Verrà ritrovato a missione compiuta. Alle 5.30 la sveglia. Prega, sale in bicicletta e si dirige verso un uomo che pedala in una strada dall’altra parte della città. Ha già fatto decine di volte quel percorso. Noto a tutti come “lo scemo del villaggio”, quell’uomo indossa vistose bretelle sopra una t-shirt. Si chiama Theo van Gogh. Sta andando al suo ufficio, deve finire il montaggio di “06/05”, il thriller sull’assassinio di Pim Fortuyn, amico e sodale in questa storia che rappresenta il mattinale della fine dell’illusione europea. “Ciò che è accaduto in questo piccolo angolo dell’Europa nordoccidentale potrebbe succedere ovunque”. Si chiude su queste parole il libro con cui il giornalista olandese Ian Buruma ripercorre il rendez-vous con la morte di un regista massacrato come un cane durante il mese del Ramadan di due anni fa nel pieno centro di Amsterdam. “Murder in Amsterdam” (Penguin) è un tuffo dentro la placida superficie olandese, i suoi tabù, le illusioni, la miopia, la paura, il terrore. Johan Huizinga diceva che quello olandese è un popolo “soddisfatto”. Al punto da inorgoglirsi di una tolleranza che risulta indifferenza. Le conclusioni politiche di Buruma, spiega Leon de Winter sul Wall Street Journal, sono però quelle di un giornalista cresciuto a piazza Dam fra fricchettoni e antiautoritaristi. Il sillogismo si inceppa e alla fine del maestoso affresco non si è capito quali siano “i limiti della tolleranza” del sottotitolo. Christopher Caldwell sostiene che il merito di Buruma sia mostrare come in alcuni casi “le libertà che diamo per scontate non siano un trionfo sulla decadenza, ma un altro nome per essa”. Il vizio ideologico del libro consiste nell’affermazione per cui mentre “Voltaire scagliò i suoi insulti contro la Chiesa cattolica”, l’illuminista Ayaan Hirsi Ali “ha rischiato di offendere solo una minoranza che si sentiva già vulnerabile nel cuore dell’Europa”. Falso e cinico. Voltaire non si fece un milione di nemici che, riconoscendolo in tv, avrebbero potuto scambiarsi informazioni per pianificarne la decapitazione negli Champs- Elysées. La presa sul lettore è fortissima, come un guanto tragico, la morte si incastra in una matrioska di flashback, l’illusione della pace culturale viene strozzata in una morsa realista e cruda, in ogni pagina si avverte il ticchettio della morte che arranca verso la preda. La mestizia è padrona. La mattina del 2 novembre Mohammed spara allo stomaco di Van Gogh. Quando accenna una resistenza, gli spara ancora, ancora e ancora. Tira fuori un coltello e gli “ incide la gola. Poi gli infilza la lama nel petto. Impunta una lettera in un secondo coltello e immerge anche questo. Una donna gli grida: “Non puoi farlo”. “Sì, posso”, risponde il giovane Mohammed. “Ora saprete cosa dovete aspettarvi in futuro”. La donna si rifiuterà di confermare persino che quel giovane era vestito come un islamista. Nella lettera lasciata alla famiglia Mo scrive: “Quando riceverete questa lettera sarò caduto come shahid. Ho scelto di compiere il mio dovere verso Allah”. Due mesi prima aveva provato a immaginare un futuro per l’Olanda: “Le nuvole nere della morte si addenseranno sopra il vostro paese. Diventerete tutti un obiettivo, tram, bus, treni, centri commerciali. Sarà solo una frazione di secondi e vi troverete morti. L’insopportabile fetore della morte vi manderà su e giù lo stomaco. Cercherete voi stessi fra intestini e pezzi di carne. La vita si trasformerà in un inferno”. Nel suo appartamento viene trovato un cd-rom con filmati di esecuzioni di cittadini occidentali, incluso il giornalista ebreo Daniel Pearl. Tutti “nemici di Allah”. Per Bouyeri la morte avrebbe “separato la verità dalla menzogna” e l’islam ne sarebbe uscito vittorioso “attraverso il sangue dei martiri”. Buruma dirada la “nuova era del multiculturalismo” e la “post-multi-culti confusione” in cui versa l’Olanda. Quella compiacenza censoria in cui “Ayaan Hirsi Ali viene biasimata per aver offeso con il suo film polemico, Van Gogh biasimato per aver insultato i musulmani e gli amici di Theo accusati di essere ‘mercanti della paura’”. E’ un ritratto di una società che sta piantando in asso se stessa. Un paese in cui il 71 per cento della popolazione ebraica è stata incenerita dai nazisti, seconda solo alla Polonia. Un passato in remissione che concorre alla pasta dolciastra multiculturalista, sindrome ipnotica in cui due anni dopo quell’omicidio tutto sembra tornato come prima. “Le sacre icone della società olandese vennero distrutte negli anni Sessanta, quando le chiese persero la presa sulla vita delle persone, quando l’autorità del governo divenne qualcosa da cambiare e non da ubbidire e quando si aprì pubblicamente una breccia nei tabù sessuali. L’islam potrebbe presto diventare maggioranza in un paese dove le chiese sono state trasformate in luoghi turistici, appartamenti, teatri e luoghi di intrattenimento. Lo studioso francese Olivier Roy ha ragione: l’islam ora è una religione europea”. L’assassinio commesso da Bouyeri, “olandese convertitosi alla guerra rivoluzionaria”, è stato l’omicidio politico più sensazionale in Olanda dal 1672, quando i fratelli Jan e Cornelis de Witt furono fatti a pezzi da una folla inferocita. E’ una storia molto di sinistra. Da studente dell’Università di Groningen, Fortuyn era stato socialista e membro dei democratici sociali, come Van Gogh, il killer Mohammed B., Ayaan Hirsi Ali e l’omicida di Pim Fortuyn. Buruma racconta infatti anche l’infanzia di Volkert van der Graaf, l’animalista che ha alzato la sua mano contro Fortuyn, il figlio di una beghina protestante e un insegnante di biologia. Il sobborgo dove vivono i genitori di Theo, Wassenaar, fa da sfondo alla storia, cartolina di prati all’inglese e ville spaziose. I Van Gogh non sono come tutti gli altri. La famiglia di Theo è attraversata da una vena di ribellismo, mistura di profetismo ugonotto e socialismo decadente. In famiglia ci sono dei Wilbaut, fra i fondatori del socialismo olandese e della Resistenza antinazista. Uno zio di Van Gogh, anche lui di nome Theo, era stato un dirigente della fraternità studentesca che si rifiutò di aderire al nazismo. Aiutò molti ebrei a fuggire dal paese e fu fucilato nel 1945 nelle dune del Mare del Nord. Anche un nonno è stato in un campo di concentramento, “non avrebbe mai mollato, come Theo”, dirà la madre del regista. A tredici anni Theo van Gogh viene portato dai genitori al cimitero di Overveen, dove è sepolto lo zio. Quando torna vuole sapere tutto di questo parente misterioso, caduto per la libertà del suo paese. E anni dopo vedrà se stesso all’interno di questa storia di resistenza morale al totalitarismo, in cui la fuga verso la libertà degli ebrei sefarditi si mescola alla goliardia studentesca: “Gli stivali sono di nuovo in marcia, ma stavolta vestono caffettani e si nascondono dietro le loro barbe”, scrisse Van Gogh. Theo è sempre stato un bambino eccentrico. La prima pellicola è un 8mm su un gruppo di amici coprofili. Quando i compagni fricchettoni volano in Nepal, lui sceglie gli Stati Uniti. “Fu l’America, il più affascinante esperimento della storia, a prevenire che Hitler unificasse l’Europa nel millenario Reich, fu l’America che vinse la Guerra fredda per tutti noi. L’esperto di islam Bernard Lewis ha predetto la rivoluzione di Khomeini e non fu creduto. Oggi che ha più di novant’anni dice che l’Europa avrà una maggioranza islamica in dieci anni. Se Lewis ha ragione, come io credo, ci sono buone ragioni per emigrare nella terra del McDonald’s. L’America è odiata perché abbraccia i desideri delle persone di una vita migliore, di mangiare carne ogni giorno, di essere libero di adorare il dio di tua scelta o di non cedere affatto, di pensare quello che vuoi senza essere lapidato, di essere donna senza il velo e di commettere adulterio senza essere per questo messo a morte”. Ad Amsterdam, che diceva di non considerare la sua città, Theo dorme raramente nello stesso posto. Prova, senza successo, a diventare avvocato. Nel 1981 il primo film, “Luger”. Le sole scene che si ricordino mostrano un uomo che infila la canna della pistola in una vagina e due gatti gettati in lavatrice. “Da ribelle, Theo era già parte della reazione, della ribellione contro la ribellione”, scrive Buruma. Iniziano i primi scontri con la comunità ebraica, che lo accuserà di essere un clown antisemita. Quando Leon de Winter, figlio di sopravvissuti all’Olocausto, raggiunge un discreto successo, Theo lo accusa di piangere “Auschwitz!” per farsi pubblicità. Citato in giudizio da un’organizzazione israeliana, Theo arriva di fronte alla Corte suprema olandese. Accusa i giudici di essersi venduti agli ebrei. Perde. Il suo antisemitismo spaccone e cialtrone era parte di un fiuto micidiale per la pubblicità e di un aristocratico piacere della provocazione. Come l’accusa rivolta ai musulmani di essere “scopatori di capre”. Theo aveva un carattere profondamente ebraico e tutta la sua produzione è una specie di “mispàd”, lamento funebre israelitico. Il suo anarchismo voluttuoso era frammisto a una forma di pietismo calvinistico, una reazione a quella che considerava la massima ipocrisia cattolica. Da privata, la confessione deve diventare pubblica, totale, sfrontata, sconcia. Scriveva con la bile e si farà fotografare con un reggiseno in faccia. E’ una storia di seduzione fisica, “quelle mani” si diceva di Pim Fortuyn, l’untuosa presenza di Theo in tv, sui giornali, per strada. Due maestri del kitsch con un istinto per il sentimentalismo pop. Fortuyn pensava in termini quasi biblici. “Fortuyn era il leader che, in un’era secolare, avrebbe guidato il suo gregge olandese indietro alla casa del padre”, scrive Buruma. Theo gli propone di girare una scena a braccetto con una donna in burqa. Ma se è troppo persino per Pim, l’amico lanciatore di aghi cinesi avrebbe tentato persino di vendere il burqa di “Submission” ad al Jazeera. E’ una delle poche figure pubbliche a difendere una studentessa di Scienze politiche, Ayaan Hirsi Ali. Appena la nota le dice che vorrebbe scoparla. “Fottuta Hirsi Ali, solo da due mesi in Olanda e già così famosa. Puttana di colore di merda, ti fracasserò la faccia...”. Sono alcune parole di una canzone rap del gruppo Dhc. Parte l’accusa di offendere l’islam, anche da Jacques Wallage, sindaco di sinistra di Groningen e figlio di scampati ai lager. Per scherzare sulla sua apostasia, Theo la chiama “puttana di Babilonia”. E aggiunge: “Se le benedizioni di Allah diventassero legge in Olanda, Wallage sarebbe il primo a chiedere di collaborare con gli occupanti in nome del Consiglio ebraico”. Il conto alla rovescia scatta una notte del giugno 2003. Abou Jahjah, islamista agitatore dei Paesi bassi, è invitato a parlare in un teatro di Amsterdam. Quando scopre che Theo avrebbe moderato l’incontro, Jahjah si rifiuta di partecipare. Theo lo chiama “ruffiano del Profeta”. All’uscita Theo viene avvicinato da giovani islamisti. Uno grida che gli avrebbe aperto la pancia. Le guardie del corpo di Jahjah sghignazzano: “Finiremo quel maiale”. “Fu allora – dice il giornalista Jot Kelder – che ho realizzato quanto lo odiassero. Per noi, era un gioco, per loro qualcosa di terribilmente serio”. Quella sera Theo chiamerà Hirsi Ali a New York. Qualcosa ha spaventato anche un istrione incosciente come lui. Ma ha fatto voto di solitudine, scriverà bagatelle contro gli islamisti. Racconta tutto nella rubrica su Metro: “Il maiale è un animale più sveglio degli idioti di cui si circonda Jahjah. I nuovi nazionalsocialisti sono al lavoro”. E gli mettono gli occhi addosso. Vuole seminare dubbi, aprire gli occhi alla gente, niente sciroppi conformisti. A costo di diventare il grande appestato dei musulmani olandesi. Il capitolo più allucinante del libro è quello sulla vita di Mohammed B. In aula sorride, si aggiusta gli occhiali, scarabocchia con la penna, legge il Corano. E rivolto alla madre di Theo, Anneke, bellissima, occhi blù, bionda, altera ed elegante: “Non sono qui per scusarmi o per biasimare nessuno. Sarà una piccola consolazione per la signora Van Gogh. E’ tutto, il resto non mi importa”. Lei lo chiama “il perdente”. “Mo” sembra più forte: “Nessuna discussione, nessuna dimostrazione, nessuna petizione, nessuna marcia, solo la morte può separare le menzogne dalla verità”. Nel febbraio 2003 rifiuta la società che lo ha educato al multiculturalismo; a ottobre parla di sharia, nel marzo 2004 scrive del jihad contro la democrazia e a ottobre passa all’azione, ha imparato che gli “infedeli” meritano la morte. Il padre di Mo, Hamid, ha finanziato la moschea verde vicino a casa. Per tutti Mo era un ragazzo “promettente”, “positivo”, introverso e timido, abbassa lo sguardo davanti agli insegnanti. Lavora sodo, per la carriera, la famiglia. Non guarda Al Jazeera, ma la tv belga, dove di Israele si parla meglio che in quella olandese. E’ orgogliosamente di sinistra, scrive nel giornale della scuola, organizza banchetti e dibattiti. Gli piacciono le ragazze olandesi, le trova “facili”. Dopo l’11 settembre annuncia agli amici di voler “trovare la verità”: “Che l’America venga spazzata via da una tempesta, che i suoi aerei possano bruciare nei cieli”. Inizia a minacciare fisicamente gli amici che consumano alcool, rifiuta di stringere la mano alle donne, si fa crescere la barba e indossa una tunica islamica. Conosce Samir, tornato dal jihad in Cecenia. E il siriano Abou Khaled, studioso di Corano fuggito dal secolarismo di Assad. Si educa al purismo Takfir: i buoni musulmani devono dare la caccia a coloro che abbandonano “la Verità”. E una volta stanati, impartire la punizione. Mo e Khaled si incontrano in un caffè di Schiedam. Ma se il predicatore sogna di rovesciare i regimi “liberali”, Egitto e Giordania, Mohammed B. resta perversamente olandese. E’ ad Amsterdam che vuole mostrare a tutti la verità. “Uscite dal coffee shop, uscite dal bar, uscite dall’angolo. Rispondete al richiamo di la ilaha illa allah (‘non c’è alcun Dio ma Allah’). Abbraccia la carovana dei martiri. E’ solo questione di tempo prima che le spade di Allah marcino dentro Amsterdam”. La “puttana degli infedeli”, Ayaan Hirsi Ali, e “il sionista” Ahmed Aboutaleb, il consigliere musulmano del sindaco ebreo Job Cohen, sono i suoi nemici giurati. Theo rifiuta la scorta, sottovaluta anche le offese al figlio: “Mi considerano più un matto di paese che un obiettivo serio”, scrive prima di morire. Mohammed B. lascia una trentina di messaggi in un forum. Uno sulle truppe in Iraq: “Spero che tornino a casa come maialini arrosto. Ovviamente senza testa”. Legge lo scritto di Ibn Taymiyyah “L’obbligo di uccidere coloro che insultano il Profeta”. Si sceglie un nom de guerre, Abu Zubair, un capo di al Qaida ucciso nel 2002. Come simbolo un’Olanda rossa, una spada e la scritta “la vittoria è nostra”. Nel frattempo fa scuola. Nel novembre 2005 la polizia arresta Maik, diciassette anni, ha la casa piena di dinamite, pronta per la sedia del deputato di destra Geert Wilders. Dopo quel 2 novembre 2004, il quotidiano Het Parool, fondato durante la Resistenza, indice un concorso per un monumento a Theo. Chi propone una sigaretta alta due metri, chi un maiale e chi un maiale che fuma una sigaretta, lo splendido ramingo avrebbe riso. Ma ha la meglio il cactus. Theo concludeva lo show televisivo baciandone uno e chiedendo agli ospiti di fare lo stesso. Roman Polanski, suo idolo e mentore, si rifiutò di farlo. Il monumento andrà nel parco Frankendael in cui è stato arrestato Bouyeri, non nella via dove è morto Theo, i vicini hanno paura. Il suo nome altisonante è andato invece a posarsi nell’angolo più afflitto della cultura del nostro tempo come un alito di sconcia verità. Sua madre ha singhiozzato queste parole: “Quando l’uccellino cade stecchito, significa che c’è pericolo, i gas hanno invaso i tunnel ed è ora di correre al riparo. Credo che la storia di Theo sia quella dove si vede di più qual è la posta in gioco per l’Europa”. Poco prima una statua di Pim Fortuyn era stata eretta a Rotterdam. Ogni giorno qualcuno va a deporre fiori. Sotto la testa in bronzo di Pim, la bocca che accenna l’ultimo discorso, sta scritto “loquendi libertatem custodiamus”. La libertà di parlare per cui è morto uno scomodo licantropo e bracconiere di piaghe che si chiamava Theo van Gogh.

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