Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
Il governo di unità nazionale palestinese, l'assalto all'ambasciata americana a Damasco critica agli editoriali di Franco Venturini e Antonio Ferrari
Testata: Corriere della Sera Data: 13 settembre 2006 Pagina: 1 Autore: Franco Venturini - Antonio Ferrari Titolo: «Un caporale per una svolta - Le amicizie pericolose di Damasco»
Il CORRIERE della SERA del 13 settembre 2006 pubblica in prima pagina un editoriale di Franco Venturini, che riportiamo. Meritoriamente incentrato sulla sorte del caporale israeliano rapito da Hamas Gilad Shalit l'articolo presenta alcuni passaggi criticabili. Ecco il testo
Noam Shalit, padre del caporale israeliano rapito da un gruppo di fuoco palestinese il 25 giugno scorso, ha chiesto ieri che il giovane Gilad possa tornare a casa prima della festa islamica del Ramadan e delle feste ebraiche di Rosh Hashanah e di Yom Kippur. «Siamo in presenza di una grande occasione per entrambe le parti — ha detto Noam — e spero che prima del periodo delle festività, che comincia tra meno di due settimane, anche Israele rilasci un buon numero di detenuti palestinesi» . L'angoscia del genitore sarebbe bastata a legittimare un appello umanitario tanto generoso, ma Noam Shalit, forse, non si è accorto di quanto le sue parole fossero anche politicamente tempestive. L'annunciato accordo programmatico tra Hamas e Fatah apre le porte, sulla carta, a un governo palestinese di unità nazionale. L'equazione congelata della madre di tutte le crisi mediorientali potrebbe ricevere uno scossone.
Quella israelo-palestinese non è, ormai dovrebbe essere chiaro, la "madre di tutte le crisi mediorentali". Se venisse risolta domani, il terrorismo jihadista continuerebbe a colpire ( i musulmani dissidenti, i laici, gli occidentali). Per contro, se il jihadismo fosse sconfitto, militarmente e politicamente, il conflitto israelo-palestinese sarebbe molto più vicino alla sua soluzione, divenendo conflitto territoriale e non solo religioso.
E le liberazioni auspicate dal padre del caporale sequestrato, ora che persino un tribunale militare israeliano si è mosso in questa direzione, aiuterebbero a creare un clima positivo in attesa di verifiche ulteriori. La partita, per ora, si gioca all'interno del mondo palestinese. Il presidente Mahmoud Abbas (Fatah) e il premier Ismail Haniyeh (Hamas) sperano che la loro proclamata intesa rompa l'embargo economico e politico che da sei mesi isola l'Autorità e impedisce il pagamento degli stipendi ai dipendenti pubblici. Ma il nuovo governo unitario, per raggiungere un simile obiettivo, dovrebbe rispondere alle condizioni poste dal Quartetto dopo la vittoria elettorale di Hamas: riconoscimento di Israele, accettazione degli accordi precedenti e rinuncia all'uso della violenza. Sarà in grado di produrre tanto, la somma delle due debolezze di Abbas e di Haniyeh? Lo scetticismo è d'obbligo. Abbas non controlla i falchi di Fatah esattamente come Haniyeh viene osteggiato dall'ala dura di Hamas rifugiata a Damasco (non va esclusa l'ipotesi che l'attacco di ieri all'ambasciata Usa sia collegato ai progetti di unità palestinese). Difficilmente, in queste condizioni, si andrà oltre una qualche forma di riconoscimento
Haniyeh è controllato dalla dirigenza politica di Hamas, cioè dai "duri" di cui parla Venturini. Il punto non è che non riesca a imporre la sua volontà ai terroristi islamisti palestinesi, ma che è poco più del portavoce di questi ultimi presso la comunità internazionale.
implicito di Israele da parte di Hamas: sottoscrivendo in linea di principio il piano della Lega Araba approvato a Beirut nel 2002, oppure facendo riferimento alle risoluzioni dell'Onu dove Israele è ovviamente citato. Abbas avrà il placet di Haniyeh per negoziare con Israele a nome dell'Olp. Ma intanto nello statuto di Hamas rimarrà, per ora intoccabile pena la rivolta dei duri e puri, l'indicazione di distruggere lo Stato ebraico. Può bastare? Si accontenteranno gli Usa, la Russia, l'Europa, l'Onu delle ambigue promesse di Abbas e degli ancor più ambigui sottintesi di Haniyeh? Israele riconoscerà un interlocutore possibile nell'annunciato governo unitario? E d'altra parte, è interesse dell'Occidente e di Israele alimentare l'esasperazione popolare nei Territori? Come lottare contro il terrorismo di cui Hamas si è tante volte macchiato, e insieme non tradire l'opzione democratica contenuta nelle incaute (e volute dagli Usa) elezioni palestinesi? È difficile vedere una breccia, nel muro di queste domande non nuove. Anche se una intesa unitaria tra palestinesi è certo preferibile alla guerra civile sfiorata in giugno. Anche se D'Alema ha ragione quando dice che un dialogo di pace tra palestinesi e israeliani sarebbe il colpo più duro per il terrorismo. Dobbiamo sperare ancora una volta? E sia, ma vorremmo che il primo a veder realizzati i suoi sogni fosse Noam Shalit.
Un editoriale di Antonio Ferrari sull'assalto all'ambasciata americana a Damasco presenta il regime siriano come sotto attacco da parte del terrorismo islamista e come possibile e affidabile alleato dell'Occidente. Un po' di priudenza in più, visto che non è cessato il sostegno del regime ad Hamas e Hezbollah, non avrebbe guastato. Eccoil testo:
È forse la prima volta, in quasi un quarto di secolo, che la Siria ammette solennemente che è stato compiuto un «attacco terroristico» sul suo territorio, riconoscendo quindi che vi sono estremisti islamici che possono sfuggire al controllo dei suoi apparati di sicurezza; e che ieri hanno cercato di far saltare l'ambasciata americana, il compound più sorvegliato di Damasco dopo il palazzo-ufficio del presidente Bashar el Assad, che domina la capitale dalla collina. Ammissione importante, perché a farla è uno degli uomini chiave del regime, il ministro dell'Interno Bassam Abdel Majid. Ammissione grave, perché rivela l'esistenza di una rete eversiva, che alcuni ritengono collegata ad Al Qaeda, con l'obiettivo di rovesciare l'ultimo regime laico della regione, dopo la defenestrazione di quello iracheno. Che i terroristi-suicidi volessero compiere un attentato spettacolare, il giorno dopo il quinto anniversario dell'11 settembre, è documentato dalle modalità dell'attacco. L'immediata reazione dei poliziotti siriani ha impedito l'esplosione. Morti tre attentatori e un agente, e ora Damasco incassa, per la prima volta dopo un nugolo d'anni, la «gratitudine » della Casa Bianca, e quella, ancor più esplicita, del segretario di Stato Condoleezza Rice, che riconosce alla Siria di aver «protetto il personale degli Stati Uniti». Se l'auto degli attentatori non fosse stata crivellata di colpi, vi sarebbe stata una strage. Non è la prima volta che gli estremisti attaccano istituzioni e rappresentanze diplomatiche straniere, ma il regine aveva sempre trovato il modo di sminuirne la portata. Ieri non era possibile, perché l'ambasciata americana si trova in pieno centro, accanto alle missioni italiana e cinese. L'inevitabile pubblicità all'attacco terroristico serve a dimostrare che anche Damasco, accusata di fomentare o proteggere il terrorismo, ne è a sua volta vittima. È anche un brusco segnale inviato a coloro i quali ritengono che il vertice alauita (la minoranza musulmana di cui Bashar è il massimo esponente) debba essere scalzato e sostituito dai rappresentanti della maggioranza sunnita. Calcolo miope, e pericolo paventato soprattutto da Israele che teme, se cadesse il regime, di ritrovarsi alle frontiere settentrionali i Fratelli musulmani e una situazione di caos di stampo iracheno. Prevedibile, infatti, una catena di vendette, perché fu proprio il padre di Bashar, Hafez el Assad, a ordinare la brutale repressione degli islamici, nel 1982, nella città di Hama (circa 20.000 morti). È logico chiedersi perché la Siria, che teme il contagio degli estremisti, offra ospitalità proprio ai leader di Hezbollah, di Hamas, del Jihad islamico, e dei gruppi palestinesi oltranzisti che non accettano la linea del presidente dell'Anp Mahmoud Abbas. Su questo punto il regime è intransigente, e considera gli ospiti come esponenti di una legittima resistenza per ottenere la liberazione dei territori occupati da Israele. Per questa ragione, in odio a Saddam Hussein, che pur essendo al vertice di un partito fratello, il Baath, è stato sempre considerato un nemico, Damasco ha stretto — sin dai tempi della guerra fra Teheran e Bagdad — una solida alleanza con il regine degli ayatollah. Alleanza che si è consolidata l'estate scorsa, dopo l'attacco di Israele agli Hezbollah sciiti libanesi. Da una parte, quindi, la Siria teme il contagio dell'estremismo islamico, che ieri ha dato prova della propria vitalità e pericolosità; dall'altra coltiva amicizie e alleanze ugualmente pericolose. Che si sono intensificate nell'ultimo anno e mezzo, dopo l'assassinio dell'ex premier libanese Rafic Hariri e l'inchiesta dell'Onu, che ha raggiunto alcuni apparati istituzionali di Damasco. Messa con le spalle al muro, la Siria ha reagito sventatamente. Ora l'attacco terroristico ne mette a nudo la fragilità. Ma il regime è sufficientemente cinico da saper trasformare lo smacco dei suoi onnipresenti servizi di sicurezza in un'opportunità. La gratitudine di Washington potrebbe essere il primo passo del disgelo.
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