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La Repubblica Rassegna Stampa
12.09.2006 Proclami anti-Bush per commemorare l'11 settembre
gli articoli di Alexander Stille e Vittorio Zucconi

Testata: La Repubblica
Data: 12 settembre 2006
Pagina: 1
Autore: Alexander Stille - Vittorio Zucconi
Titolo: «La solitudine del presidente - La Casa Bianca e la fiction su Clinton»

Per Alexander Stille il serial dell'Abc sul mancato contrasto al terrorismo islamista è semplicemente e totalmente una falsificazione storica.
La politica dell'amministrazione Bush è deformata in modo caricaturale e la guerra contro Saddam Hussein è assurdamente paragonata ad un' ipotetica  "invasione della Nigeria"  come risposta  all'invasione della Cecoslovacchia nel 1948.
Ecco il testo: 


Col succedersi degli anniversari dell´11 settembre l´evento reale – un terrificante assassinio di massa e lo sforzo straordinario di una metropoli di reagire alla tragedia – tristemente svanisce dalla memoria e viene a poco a poco sostituito da una serie di rappresentazioni artificiose a sostegno di questa o quella causa politica.
L´amministrazione Bush usò inizialmente l´11 settembre a giustificazione dell´invasione dell´Iraq e della sua "guerra al terrore" a tempo indeterminato, trasformando un evento che commosse profondamente milioni di persone in un espediente politico.
A questo fine diedero a bere al pubblico americano che Saddam Hussein era coinvolto nell´attacco al World Trade Center, nonostante i rapporti del governo stesso fossero in netta contraddizione con questa tesi.
In reazione a tutto questo da sinistra i teorici del complotto hanno presentato la loro fantasiosa versione dell´11 settembre con tanto di film diffusi su internet a lanciare l´accusa che il crollo delle Torri gemelle fosse in realtà opera del governo Usa. Il risultato è che oggi una maggioranza del paese crede all´una o all´altra di queste due fantasie. Più di un terzo del paese, i sostenitori di Bush, sono ancora convinti che l´Iraq fosse coinvolto negli attacchi. E da un recente sondaggio risulta che un terzo dei cittadini americani pensa che il governo sapesse o fosse implicato. Un 16 per cento crede davvero che il crollo delle Torri gemelle sia stato causato dall´esplosione di bombe collocate negli edifici e non dallo schianto degli aerei.
Immediatamente dopo gli attacchi per un certo periodo di tempo fu tabù per Hollywood rappresentare il World Trade Center, l´11 settembre o persino il terrorismo, per rispetto alle vittime. Quel tempo è chiaramente finito e la finzione cinematografica ha scalzato la realtà. Prima il film di Oliver Stone sull´11 settembre ed ora, il più discutibile "The Path to September 11" - quattro ore di cronaca romanzata di presunti avvenimenti reali trasmesso dalla Abc. Scritto da un ideologo di destra, propone scene di pura fantasia, con dialoghi inventati in cui membri dell´amministrazione Clinton rifiutano di agire nel momento in cui si presentano le opportunità di catturare o uccidere Osama Bin Laden.
Alla fine della prima puntata gli agenti della Cia, guidati dal leader ribelle afgano Ahmed Shah Massoud, individuano Bin Laden in un accampamento. La Cia e l´alleanza del Nord di Massoud preparano un piano per fare incursione durante la notte e catturare Bin Laden. Sembra tutto pronto e l´esito della spedizione certo ma all´ultimo momento la Casa Bianca di Clinton annulla il piano. Nel film Sandy Berger, consigliere per la Sicurezza nazionale di Clinton attacca il telefono al direttore della Cia George Tenet. Massoud dice al suo contatto della Cia: «Ma ci sono degli uomini a Washington o solo dei codardi?». Il film ci comunica che l´amministrazione è «preoccupata delle ripercussioni politiche» in caso Bin Laden o chiunque altro fosse rimasto ucciso nell´operazione. Poi si vede Bill Clinton che parla di Monica Lewinsky e si ascolta la conversazione in cui un funzionario dell´amministrazione afferma che Clinton non darà l´ordine di catturare Bin Laden in quel clima, con i repubblicani che chiedono il suo impeachment. «È patetico», esclama il suo interlocutore.
L´unico problema è che nessuno di questi avvenimenti o conversazioni ha mai avuto luogo nella realtà. «Non è successo», ha detto Richard Clarke, esperto di terrorismo della Casa Bianca sia sotto Clinton che sotto Bush. «Non c´erano truppe in Afghanistan sul punto di catturare Bin Laden. Non c´era personale della Cia prossimo a catturare Bin Laden. E´ pura invenzione».
La Abc ha difeso il suo film spiegando che si sono utilizzate scene inventate e personaggi compositi per esprimere verità di massima che corrispondono a grandi linee alla cronaca storica, ma in molte situazioni la trasmissione mostra personaggi reali intenti a dire e a fare cose che non hanno né detto né fatto. Accanto a tutte le scene inventate e ai tentativi di svilire l´Amministrazione Clinton è presente anche il tentativo, non così velato, di sostenere la fondamentale visione del mondo dell´amministrazione Bush. A un certo punto uno degli agenti della Cia riferendosi ai mujahiddin di Bin laden che avevano combattuto i russi in Afghanistan dice: «Noi attribuiamo a Reagan la vittoria nella guerra fredda, quelli pensano che sono stati loro a vincerla». Questa affermazione introduce una tesi fortemente opinabile - che Ronald Reagan abbia vinto la Guerra fredda, come se si trattasse di una verità universalmente riconosciuta ta gli esperti americani di sicurezza. Tutti gli agenti di grado inferiore dell´Fbi e della Cia vengono ritratti come uomini intelligenti, laboriosi che sarebbero in grado di smantellare la rete di Bin Laden se solo gliene fosse data l´autorità, mentre i politici dell´amministrazione Clinton sono un gruppo di codardi incompetenti. Come dice uno dei personaggi, la guerra al terrorismo «non si fa seduti attorno ad un tavolo a pararsi il culo».
L´eroe del film, un personaggio fittizio chiamato O´Neill interpretato dall´attore Harvey Keitel, lamenta il fatto che l´amministrazione Clinton considera il terrorismo «un problema di ordine pubblico». il suo interlocutore gli chiede ironico «e come si vince una guerra così?». «Non si può», risponde Keitel disgustato. L´intento della scena è di avvalorare il principio centrale della politica dell´amministrazione Bush in base al quale il terrorismo è un problema di "guerra" ed ogni altro modo di considerarlo equivale all´opportunità concessa ad Hitler di occupare la Cecoslovacchia nel 1938.
Tutto questo si adatta perfettamente all´offensiva lanciata dall´Amministrazione Bush a difesa del suo operato in Iraq avendo in mente le elezioni del congresso il prossimo novembre. Bush ha ultimamente tenuto una serie di discorsi in cui paragona l´estremismo islamico al nazismo, sottintendendo che i critici dell´Amministrazione sono colpevoli di scendere a patti col nemico. Concentrare l´attenzione sull´11 settembre nella sua versione inventata ha l´intento di distrarre da una serie di realtà estremamente inquietanti: la disastrosa situazione sotto il profilo della sicurezza creata sia in Afghanistan che in Iraq dalla politica dell´Amministrazione Bush. Una crescente maggioranza di americani convinti che l´invasione dell´Iraq ha reso gli Usa meno sicuri, e non viceversa. Pur accettando l´analogia proposta da Bush con il 1938 sarebbe come se gli alleati, in risposta all´annessione della Cecoslovacchia da parte di Hitler avessero invaso la Nigeria.

Completa l'opera di Stille l'editoriale di Vittorio zucconi, che disegna il ritratto caricatuale di un Bush incapace di reggere il peso dei suoi stessi dubbi che parla alla nazione, ma con lo scopo reale di convincere se stesso

Alla fine del lungo giorno delle rimembranze, il Presidente Bush ha voluto, ha dovuto, parlare per fingere di rassicurare l´America. Ma in realtà per convincere se stesso che la strada di morte costruita a partire dal cratere delle Due Torri era la direzione giusta e necessaria da imboccare. Ascoltandolo mentre argomentava con la passione che sa ritrovare in questi momenti e mentre ripeteva nei 20 minuti della sua orazione all´America il mantra del «resolve», della risolutezza, la sensazione era quella di un uomo che sta ormai cercando di autoconvincersi di non aver commesso un errore epocale, che vuole esorcizzare il timore di passare alla storia come colui che cadde nella provocazione del culto della morte, aperta dagli esecutori dell´attentato.
E credeva di guidare alle proprie condizioni l´Occidente in un conflitto nel quale era stato invece attirato nei termini, nei tempi e sul terreno scelto dal nemico. «Oggi l´America è più sicura» si è ripetuto Bush nel discorso dallo Studio Ovale, perché nei cinque anni trascorsi dal 2001 «nessun attentato ha colpito gli Stati Uniti» e dunque questa è la prova «ex post facto», a posteriori, che le scelte e i comportamenti del suo governo hanno funzionato. Il fatto che il numero degli attentati e delle vittime del terrorismo, americani e non americani, in altre nazioni, secondo i rapporti annuali del Dipartimento di Stato, siano in realtà aumentati, non diminuiti, dall´inizio della controffensiva anti jahidista e l´apprezzabile quanto teorico disegno della «esportazione della democrazia» stia, a essere ottimisti, scricchiolando non possono turbare questo Presidente condannato a «mantenere la rotta» che ha tracciato. George Bush non può permettersi il lusso di vacillare, di dubitare, di fermarsi, di ritirarsi. Quando afferma che abbandonare oggi l´Iraq e l´Afghanistan al proprio destino sarebbe un tradimento e una sconfitta, come ha fatto anche ieri, dice in realtà che un ritiro oggi, senza neppure la foglia di fico di un «accordo di pace» in stile Vietnam non essendo pensabile o possibile una trattativa statuale con al Quaeda, sarebbe la sua sconfitta. Si può dibattere se davvero la presenza di 145mila soldati americani in Iraq sia oggi la possibile soluzione alla guerra civile avanzante o se invece sia il problema. Ma è ovvio che un ritiro delle truppe sarebbe la sconfitta della presidenza Bush-Cheney e della teoria della «guerra preventiva». Né si può licenziare con calcoli e cinismo elettorale il ritrovato accanimento oratorio di Bush in quest´ultima settimana, culminato con l´arringa di ieri sera alle 21, ignorata dal network Abc che aveva in programma un incontro di football. È vero che il suo partito, il repubblicano, è in agitazione per le elezioni di mezzo mandato presidenziale a novembre e invocava (e temeva) un ritorno del suo leader sulla scena e una mossa per invertire la brutta piega dei sondaggi. Ma un Presidente che non ha più elezioni da vincere per sé, che ha davanti gli ultimi, languidi due anni degli otto che gli sono stati concessi, si muove e agisce largamente in proprio, per garantire la propria collocazione nella galleria dei ritratti appesi al piano terreno della Casa Bianca. Ed è questa eredità che Bush sente vacillare. Dall´altra parte delle telecamere, fra i non molti che si erano staccati dalla partita fra la squadra di Washington e quella del Minnesota, c´erano sei americani su dieci che non lo apprezzano più, sei su dieci che non credono più alla formula dell´«Iraq come parte essenziale della guerra globale al terrore», che recalcitrano di fronte al reclutamento, che si domandano se i 300 miliardi di dollari spesi finora in Iraq, dove la guerra avrebbe dovuto «pagarsi da sola» secondo la previsione di uno dei suoi architetti, Paul Wolfowitz, siano stati buttati nel fuoco, che giudicano «sbagliata» quella rotta che Bush insiste nel mantenere ferma. Speculare sui morti di cinque anni or sono, spremere lacrime per vincere qualche seggio è un´operazione spregevole quanto banale, ma non è questo che Bush ha voluto fare ieri sera, se non come «effetto collaterale». Questo sarà fatto, fino al 7 novembre, dai deputati e senatori repubblicani in lotta per la evitare la morte civile. Le intenzioni del Presidente sono insieme più nobili e più personali. L´uomo che parlava dallo Studio Ovale era qualcuno che sa di avere sulle spalle la sicurezza di 300 milioni di americani che, nella gerarchia dei valori e delle aspettative americani, da lui soltanto si attendono protezione. George Bush non è personalità costruita per il dubbio e la riflessione. Di certezze vive e di dubbi potrebbe morire, ora che è passato oltre le preoccupazioni elettorali per entrare in un territorio infinitamente più angoscioso, quella della responsabilità di avere accettato e poi esteso una guerra che lo assedia con dubbi, che ora non è più certo di poter vincere, che ha liso l´immagine internazionale dell´America, trascinando anche gli amici più fedeli come Blair e Aznar al declino. «Ci sono ancora coloro, là fuori, che vorrebbero infliggere all´America quello che fu fatto l´11 settembre» diceva echeggiando quello che il leader reale di al Quaeda, l´egiziano al Zawahiri stava spiegando nel solito video amatoriale come se fra i due si fosse stabilita una assurda simmetria di parte e contropartita. Ma Bush parlava per ascoltarsi, per farsi rassicurare dalla sola persona che ancora creda assolutamente in lui, se stesso.

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