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Il Foglio Rassegna Stampa
12.09.2006 L'Onu in Libano è una trappola
l'analisi di Giorgio Israel

Testata: Il Foglio
Data: 12 settembre 2006
Pagina: 2
Autore: Giorgio Israel
Titolo: «Israele e la trappola Unfil»

Dal FOGLIO del 12 settembre 2006:

Che la missione Unifil in Libano non raggiunga gli scopi prefissati e produca guasti peggiori della sua assenza è più che probabile, dipende dalla sua stessa natura classicamente onusiana: missione poco più che di osservazione, non sostenuta da alcun giudizio politico ed etico e priva di qualsiasi progetto se non quello di una generica “pacificazione”. Si fa un gran parlare, di questi tempi, dei nuovi trionfi del multilateralismo e dell’approccio in termini di “appeasement”, ma si evita di dire che questi trionfi sono dovuti più alle difficoltà e agli errori dei progetti alternativi che non a meriti propri. La storia delle politiche di “appeasement” sotto conduzione dell’Onu è più che altro una storia di disfatte, con conseguenze drammatiche che fanno impallidire gli eventi dell’ultimo ventennio in medio oriente: valga per tutti il caso del Ruanda. Ed è singolare che ciò venga occultato sotto un fiume di retorica proprio mentre si verifica l’ennesimo drammatico insuccesso dell’Onu in Sudan. Ma si sa: in Africa si può morire come mosche senza che i pacificatori multilateralisti facciano una piega e manifestino un millesimo dell’emozione che li pervade di fronte a un petardo in medio oriente. Le politiche di “appeasement” – anche indipendentemente dalle loro versioni onusiane – hanno dato il peggio di sé quando si sono dovute confrontare con fattori che non sono riducibili attraverso tecniche politico-diplomatiche tradizionali, le quali danno per scontato che esista per qualsiasi soggetto una soglia oltre la quale esso può essere convinto ad accettare delle forme di transazione e di compromesso. Purtroppo la teoria matematica dei giochi strategici non funziona in presenza di conflitti dettati da motivazioni “irriducibili” e di soggetti ispirati a progetti rivoluzionari escatologici. Carlo Panella ha spiegato in libri e articoli come la nozione stessa di “pace” non abbia senso di fronte a soggetti rivoluzionari “assoluti”, come l’islamismo iraniano e i suoi alleati di Hamas ed Hezbollah; ed abbia senso soltanto la nozione di “tregua”, anche lunghissima, in vista però di una inevitabile ripresa della lotta per il conseguimento di un obiettivo finale che non ammette menomazioni. Non è certamente un caso se gli unici casi di pacificazione nel conflitto arabo-israeliano si sono avuti quando quei soggetti integralisti sono stati messi fuori gioco all’interno delle società arabo-musulmane. Pertanto, ha colto perfettamente il punto Gianni Baget Bozzo quando ha osservato su queste pagine che chi non considera il fattore religioso come capace di vera azione storica non ha alcuna speranza di vincere la partita e che “far passare un momento tragico per l’occidente per una vittoria della sua diplomazia è scambiare la realtà con i verbali delle cancellerie”. Come al solito, il pragmatismo radicale approda al massimo dell’astrattezza, proprio perché non fa i conti con la realtà ma risponde soltanto ai propri “assiomi” ed elude la vera questione: se oggi possa aver successo una politica di “appeasement” con l’integralismo islamico e con il suo multiforme progetto di attacco e disgregazione politico-culturale dell’occidente. Da questo punto di vista, le recenti prese di posizione e il recente discorso del presidente Bush hanno riproposto un’analisi della sfida in gioco che non appare minimamente scalfita dalle critiche dei fautori dell’approccio tradizionale. Il cavallo di battaglia di queste critiche è rappresentato dalla lista degli insuccessi e delle sconfitte della politica dell’Amministrazione Bush. Ma un simile cavallo di battaglia è un ronzino. Chi fa uso di simili argomenti è come chi, nel 1940, addusse la disfatta militare della Francia da parte delle truppe hitleriane e l’Inghilterra quasi in ginocchio sotto i bombardamenti della Luftwaffe come argomento a favore della validità e di un’auspicabile ripresa della politica di Chamberlain e Daladier. Costoro riuscirono soltanto a edificare la Repubblica di Vichy. Per dimostrare di aver ragione gli “appeasers” non debbono addurre come argomenti gli insuccessi o le sconfitte – questi potrebbero anche essere passaggi (o, tragicamente, esiti) inevitabili – bensì mostrare (a) che l’analisi della natura dell’avversario è falsa e (b) che esista un solo caso in cui la politica di “appeasement” nei confronti di simili avversari ha avuto successo. Chamberlain era convinto che dovesse esistere una “soglia” di concessioni raggiunta la quale Hitler si sarebbe fermato e non concepiva che non potesse non essere così in un mondo razionale. Ma questo mondo non esisteva: era soltanto la proiezione della sua idea astratta di razionalità. Come lui, gli “appeasers” di oggi trovano irrazionale sostenere che non esista il valore soglia che permetta di spegnere il progetto rivoluzionario dell’integralismo islamico. In tal modo, confondono la realtà con le proprie costruzioni razionali e si esentano dall’analisi della natura della minaccia nonché dalla confutazione delle analisi altrui. Prendiamo il caso della via attraverso cui si è costituita la politica unilateralista in Israele – per poi dire qualcosa del modo confuso in cui essa sembra essere stata archiviata, che è poi il tema che più ci preme in questo articolo. Nell’ultimo ventennio, Israele ha esplorato tutte le vie per risolvere il conflitto con i palestinesi. Dopo una fase in cui si è pensato di poter tenere a bada la questione mediante una politica di occupazione e controllo dei territori, è stata esplorata con decisione la via di un regolamento pacifico della questione palestinese sulla linea “territori contro pace”. E’ stato giocoforza constatare che nessuna delle vie esplorate era praticabile. Si può discettare quanto si vuole sui singoli piani di pace, sulla loro insufficienza e appigliarsi a questo o quel dettaglio. Ma neppure i più accaniti fautori della linea trattativista possono negare che persino il tanto vantato “accordo di Ginevra” è azzoppato sulla questione centrale: il diritto al ritorno entro Israele dei profughi palestinesi e dei loro discendenti, una richiesta che mai è stata affacciata in alcun conflitto storico e che appartiene alla dimensione dell’escatologia. Anche le proposte più “generose”, avanzate da coloro che non vogliono distruggere Israele, non vanno oltre questo limite: ritiro “preliminare” di Israele entro i confini del 1967, e “poi” apertura della trattativa sull’assetto definitivo e sulla questione dei profughi. Il che è quanto dire che il diritto di Israele all’esistenza come stato autonomo non è mai accettato e che nessuna concessione appare possibile rispetto all’obbiettivo assoluto del recupero totale della presenza palestinese nei territori tra il mare e il Giordano. In breve, l’emergere della politica unilateralista in Israele è legata alla presa d’atto della natura dell’antagonista: un antagonista escatologico (quantomeno nelle sue espressioni politiche maggioritarie), ben diverso dagli interlocutori egiziani e giordani che avevano consentito l’approdo a un trattato di pace. Sotto questo profilo, una delle favole più infondate di cui si è nutrita la propaganda antisraeliana è quella che Arafat e la sua dirigenza fossero ispirati da ideali laici e pragmatici, alieni dai miti dell’integralismo islamico. A fronte di un antagonista escatologico, che non accettava alcuna transazione se non come tappa o tregua tattica verso la meta finale, a Israele non restava altra via – a meno di non dichiarare la propria autosoppressione – se non la definizione autonoma della propria realtà territoriale, separandosi dai palestinesi e lasciando loro progressivamente lo spazio per una vita politica autonoma. Il ritiro da Gaza – ritiro “totale” da un territorio che permetteva l’inizio della costituzione di uno stato palestinese – è stato il primo passo in questa direzione. Del resto, che questa fosse ormai l’unica via possibile era apparso evidente dal fatto che la prima mossa unilateralista – il ritiro dal Libano, sanzionato dall’Onu come chiusura dei contenziosi territoriali, salvo la minima questione delle fattorie di Sheba – era venuta proprio dal governo che più si era spinto avanti sul piano della trattativa: il governo del laburista Barak. Naturalmente, una simile linea unilaterale aveva senso a due condizioni: lasciare continuamente aperta la porta a transazioni definitive con un interlocutore che, per dinamiche interne, fosse approdato alla scelta di una trattativa senza secondi fini; la massima fermezza nella risposta ad attacchi esterni, soprattutto se rivolti a territori non contestabili, e ciò anche per non alimentare la confusione paranoica tra un ritiro attuato come libera scelta e una sconfitta. Questa è stata la linea proposta da Sharon e scelta da Israele con la vittoria del nuovo partito Kadima, che ha espresso una fiducia del paese nel proprio futuro e la volontà di riprendere in mano il proprio destino. Purtroppo l’andamento degli eventi ha confermato la natura dell’antagonista che Israele aveva di fronte e quindi ha, casomai, convalidato la giustezza della scelta. La riconsegna di Gaza non ha significato l’aggregarsi di una classe dirigente palestinese vogliosa di dimostrare la propria capacità di creare e gestire uno stato e, su questa base, di pretenderne l’allargamento e il consolidamento. No. Gaza è diventata la base per obbiettivi più “avanzati” di attacco a Israele. Nessuna scelta definitiva è possibile per chi mira all’obbiettivo assoluto. Per ora la dirigenza palestinese è stata sempre e soltanto un antagonista escatologico. Non si può che augurarsi che essa abbandoni finalmente questa scelta e che la dichiarata volontà di costituire un governo palestinese di unità nazionale che riconosce l’esistenza di Israele e rinnega il ricorso alla violenza la faccia passare dalla parte del modello egiziano e giordano. Anche se le reiterate smentite e contorsioni (riconoscimento “indiretto”, “non riconosceremo mai”) non lasciano sperare altro che in una hudna. Se i nostri “appeasers” fossero più attenti e capaci di analisi avrebbero riflettuto alla dichiarazione dello sceicco Nasrallah all’indomani della recente tregua: egli ha osservato che, secondo lui, Israele non avrebbe ripreso le ostilità perché gli sfollati erano tornati nelle città israeliane della Galilea bombardate da Hezbollah ed era iniziata la ricostruzione. Questo è un impressionante spaccato della mentalità di un rivoluzionario integralista: nessun assetto definitivo della popolazione è possibile fintantoché è in gioco la prospettiva della guerra. La dirigenza palestinese non ha chiuso i campi profughi né ha mirato a migliorare le condizioni della popolazione: i campi profughi e la provvisorietà sono ineliminabili fintantoché non è raggiunto il risultato “assoluto”, anche se dovesse essere necessario un secolo. Nell’anno trascorso si è consolidato un fronte tra Hamas e Hezbollah dietro cui vi era la regia iraniana. Esso ha manifestato la sua unità di intenti nelle azioni coordinate di rapimento e uccisione di soldati israeliani: un’unità di intenti aggregata attorno all’obbiettivo esplicito della distruzione di Israele. Questa era la vera sfida in gioco, qualcosa di ben più grave del fatto specifico dei rapimenti, qualcosa che rivelava un disegno complessivo e che mostra il carattere puerile delle polemiche sulla “sproporzione” della reazione israeliana. Ci guardiamo bene dall’entrare nello specifico della guerra e della sua conduzione, sul quale hanno diritto di intervenire a malapena gli esperti aventi accesso al massimo possibile di informazione. Non diremo quindi nulla di nuovo rispetto a quanto è possibile leggere sulla stampa israeliana e su molta parte della stampa statunitense (soprattutto su quella simpatizzante con Israele) osservando che, di fronte a quel che è accaduto agli inizi di luglio, la linea politica costitutiva di Kadima apriva la strada o a una risposta puramente diplomatica, limitata a una richiesta energica di intervento della comunità internazionale sulla questione dei rapimenti, oppure a una risposta militare radicale. Quel che ha sconcertato molti osservatori è che si sia invece prodotta una miscela alternata delle due opzioni, e per giunta con un andamento del tipo “stop and go”. La logica conseguenza di questa scelta è stata una guerra non conclusa e una soluzione onusiana a mezza strada, una missione di interposizione né forte né debole, con regole d’ingaggio puramente autodifensive e senza alcun obbiettivo chiaro. Si è trattato, di fatto, della morte del progetto di Kadima e della sua stessa ragion d’essere. L’aspetto più sconcertante è che questa dissoluzione, per quanto evidente, non viene dichiarata e lascia nella più completa incertezza circa la via che si sta imboccando. E’ stato annunciato che il piano di disimpegno nella West Bank è uscito dall’agenda. E’ una conseguenza comprensibile ma non necessaria dell’esito della guerra. Ma allora la domanda è: che si fa? Qual è la nuova via che viene imboccata? Ritornare a un puro e semplice controllo dei territori? E in quale prospettiva? La politica del governo israeliano appare oscillante tra l’apertura di spiragli di trattativa con la Siria, prontamente richiusi per la loro impraticabilità oggettiva, e un ritorno alla Road Map che pareva definitivamente seppellita. In questo stato di smarrimento di prospettiva, il governo israeliano sembra ruotare a un unico punto fisso: la missione Unifil in Libano. Ma può Israele appendere il suo futuro a un simile gancio? Qui parla l’evidenza dei fatti. Non una delle richieste di Israele è stata soddisfatta, né lo sarà, come da esplicite dichiarazioni. La missione non si occupa di recuperare i soldati rapiti. Non si occupa di disarmare Hezbollah. Non si occupa di pattugliare la frontiera tra Siria e Libano per bloccare il rifornimento di armi (il presidente Prodi ha annunciato un accordo per la presenza di osservatori disarmati e senza alcun potere d’intervento, ma l’agenzia di stato siriana lo ha prontamente smentito). Non si occupa di pattugliare le coste (al massimo verrà segnalato al governo libanese l’arrivo di navi sospette, il che consentirà una più rapida “consegna” delle merci). Non sorveglia lo spazio aereo da cui già arriva di tutto. Secondo la logica ordinaria una simile raccolta di risultati rappresenta per Israele una disfatta totale, che annulla persino i probabili vantaggi ottenuti sul piano militare. Non stupisce quindi che un padre della nazione come Shimon Peres – uomo di pace e di trattative ma politico lucido – abbia avvertito ruvidamente che “bisogna negoziare con il governo libanese, non con Hezbollah che è il governo dentro il governo”. Il rischio evidente non è soltanto il riarmo di Hezbollah in Libano, ma l’esportazione di quel modello militare a Gaza e oltre, nella prospettiva dell’apertura di un nuovo fronte e del costituirsi progressivo di una situazione libanese che finisca con l’accerchiare Israele. Peraltro, è tristemente noto come le interposizioni onusiane svaniscano come neve al sole quando uno dei contendenti decide che è giunto il momento di regolare i conti. Purtroppo, vi sono tre aspetti della logica di una missione come questa che lasciano poche speranze. In primo luogo, l’idea che anziché disarmare Hezbollah si debba incorporarlo pacificamente nel governo e nello stato libanese: ignorando le finalità di Hezbollah si pongono così le premesse non per dissolverlo, ma per farne il vero protagonista e trasformare il Libano in uno stato canaglia, in una base terrorista manovrata dall’Iran. Il secondo aspetto è conseguenza dell’ideologia malamente denominata “equivicinanza”: essere equidistanti tra uno stato democratico e un’organizzazione terroristica e che ha un progetto violento e criminale, significa inevitabilmente schierarsi più vicino alla seconda che al primo. Il terzo aspetto consiste nell’idea che il “vero” problema non sia Hezbollah, l’Iran, la Siria o quant’altro, ma la “madre” di tutti i problemi, la questione palestinese. L’idea portante di questa missione – quantomeno nella visione della “nuova” politica estera italiana, che ha in essa un ruolo predominante – è che essa debba servire da modello alla soluzione dei conflitti a Gaza e nel West Bank, in vista della costituzione di uno stato palestinese, con il che tutti i problemi che affliggono il rapporto tra occidente e mondo islamico dovrebbero dissolversi per incanto. Non staremo a spendere una sola parola circa l’assurdità di una simile visione, ampiamente e ripetutamente confutata. Ci limitiamo a osservare che essa è inaccettabile, e persino letale, per Israele. Difatti, essa va esattamente nella stessa direzione del programma e dei proclami del presidente iraniano Ahmadinejad: Israele è la radice infetta di tutti i mali del mondo, e le male piante si estirpano. Si potrà dire quanto si vuole che l’intento è divergente – non estirpare bensì pacificare – e non intendiamo minimamente mettere in discussione la buona fede e le intenzioni. Ma qui torniamo al nodo iniziale: accettare l’idea che Israele sia l’unico problema mondiale, radice di tutti i mali, e che le dichiarazioni d’intenti di distruzione siano “chiacchiere” irrilevanti, è non vedere la natura della sfida che è di fronte. Israele ha già accettato una volta l’idea che fosse secondaria rispetto ai fatti “concreti” l’eliminazione dalla Costituzione palestinese dell’intento di sradicamento dell’“entità sionista”; ha chiuso un occhio sul fatto che, mentre avanzava il “processo di pace”, le strutture scolastiche palestinesi educavano all’odio; ha accettato l’idea di considerare secondarie le “chiacchiere” rispetto ai “fatti”. Si è visto a cosa abbia condotto tale generosità: a trovarsi di fronte una generazione ispirata all’odio più radicale, la generazione degli “shahid”. Un simile errore non può essere commesso una seconda volta. Quel che dicono di voler fare Ahmadinejad, Hezbollah e Hamas non è il vociare insignificante di un bambino, di fronte a cui sorridere per passare alle “cose che contano”. Le cose che contano sono proprio queste. L’Europa che ispira a una simile visione il suo intervento in medio oriente è la stessa che considera irrilevante la predicazione fondamentalista nelle moschee del continente e si gira dall’altra parte di fronte al costituirsi di aree islamiste che mirano a conquistarsi spazi di autonomia completa e a terrorizzare chiunque si opponga a tale espansione. Israele e l’Europa: un rapporto cruciale. Israele si è abituato a confidare sul solo rapporto con gli Stati Uniti, dimenticando in parte il cordone ombelicale che lo lega con l’Europa, più ancora per il sionismo che per la Shoah. Ma anche Israele è essenziale all’Europa. L’Europa che, come ha detto Vittorio Dan Segre, è morta ad Auschwitz e non ha ancora trovato la via della propria rinascita morale, rischia di morire definitivamente se abbandona Israele. E se c’è un Europa che sa che Israele è una parte delle proprie radici e della propria identità, che non è possibile rinnegare senza conseguenze, ce n’è un’altra – purtroppo al momento maggioritaria – che irranon ne vuol sapere, scrolla le spalle con supponenza, e vede Israele come un problema e non come parte della soluzione. Non è questa l’Europa su cui Israele può far conto, tantomeno cui può consegnare il proprio destino. Qui pullula di gente che tifa Hezbollah e Ahmadinejad. Lo ha scritto Pietro Citati: “Che l’esercito israeliano non avanzasse con la velocità consueta, che cento soldati israeliani morissero, e soprattutto che i lucidi ed elegantissimi missili di Hezbollah colpissero Haifa, suscitava nelle prose dei nostri giornalisti un buon umore inconsueto. […] Anche coloro che non sono apertamente antisemiti considerano Israele una grandissima seccatura, che turba la tranquillità dei loro sonni. Se una notte, possibilmente di sabato, una misteriosa bomba atomica facesse scomparire Israele, fino ai bambini di due giorni, sarebbe per loro una liberazione piacevolissima”. Sappiamo bene che da tempo in certi salotti e a certi tavoli di ristorante questa insofferenza veniva espressa discretamente. Ma oggi essa viene sempre più in superficie e senza ritegno. Non stupisce certo che Gianni Vattimo dica che “il danno più grave che ci ha fatto lo sterminio nazista degli ebrei è stato la nascita dello stato di Israele” (con il solito trucco di attribuire l’affermazione a un ebreo, George Steiner, che ha espresso tutte le perplessità del mondo ma nel quadro della convinzione che “Israele è un vero miracolo, un sogno dall’inferno realizzatosi per magia, l’unico sicuro rifugio per l’ebreo qualora da qualche parte di nuova la storia ricominci. E sicuramente ricomincerà!”). Quel che stupisce è che roba simile esca senza problemi sulle pagine di uno dei quotidiani italiani più rispettabili. E’ l’Europa da cui parte in tournée per il Libano il noto comico francese ferocemente antisemita Dieudonné. In delegazione con l’antiamericano di sinistra Thierry Meissan – autore del best seller sulla “spaventosa impostura” degli attentati dell’11 settembre – Dieudonné è stato ricevuto come un capo di stato dai generali Lahoud e Aoun, dal presidente del gruppo parlamentare di Hezbollah, dal direttore della televisione al Manar e dal viceministro degli Esteri siriano. Occorre forse addebitare questa fenomenologia ai leader politici europei che contano? Noi non dubitiamo della loro buona fede. Ma è forse responsabile scrollare le spalle con supponenza di fronte alle “esagerazioni” alla Citati, o derubricare a folklore certe dichiarazioni o certe visite? E’ responsabile considerare marginale il fatto che un tema che sembrava fortunatamente risolto e archiviato – il diritto di Israele all’esistenza – sia tornato prepotentemente nell’agenda e sia argomento di discussione? Una seconda osservazione. Nella guerra recente sono morti 159 cittadini israeliani e 4.262 civili sono stati feriti, quasi mezzo milione di cittadini si sono trasferiti per sfuggire ai 4.000 missili lanciati dagli Hezbollah e più di un milione ha vissuto per un mese nei rifugi, 6.000 case sono state danneggiate, e si calcola che ci vogliano almeno 50 anni per restaurare i boschi bruciati. Anche questa è una catastrofe umanitaria. Che non si sia levata una sola voce in Europa in merito la dice lunga. E’ da immaginare che si pensi che Israele sia affare esclusivo della finanza ebraica mondiale mentre il Libano sia affare di tutti eccetto che dei ricchi produttori di petrolio arabi e islamici. Tuttavia, la constatazione più amara riguarda le notizie circa il rifiuto da parte di tutte le nazioni europee – fatta parziale eccezione, a quanto pare, della Gran Bretagna – di consentire, durante i giorni della guerra, lo scalo di aerei che rifornivano Israele di armi. Tutto ciò mentre un flusso imponente di armi riforniva gli arsenali di Hezbollah e nessuno si preoccupava di denunciarlo e ostacolarlo. In altri termini, per le cancellerie europee Israele doveva combattere con una mano legata dietro la schiena. Se domani si dovesse verificare un altro conflitto, e se tale conflitto dovesse porre a rischio seriamente Israele – il che è tutt’altro che un’ipotesi irrealistica – sappiamo bene quale aiuto esso potrà attendersi dall’Europa: più o meno quello di chi bastona il cane che affoga. Perciò, se il rapporto tra Israele e l’Europa è un nodo ineludibile, esso va gestito a occhi aperti e non affidando in minima parte il proprio destino ad amici di dubbie intenzioni e il cui cuore batte altrove. Ha osservato Benny Morris che “forse l’autentico significato di questa guerra è avere svegliato Israele”. Per ora, si ha l’impressione che il governo israeliano sia come smarrito sulla via da prendere. Israele svegliati.

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