11 settembre 2001: così l'America lo ricorda e sfida il terrorismo e il fondamentalismo islamico
Testata: La Stampa Data: 11 settembre 2006 Pagina: 5 Autore: Paolo Mastrolilli - Maurizio Molinari -la redazione - Carla Reschia Titolo: «11 settembre, Bush apre i giorni del ricordo - Dov'è il mio papà? Il dolore degli orfani delle Twin Towers - Ma gli islamici sognano ancora gli Usa - Nasce l’aereo che non si può dirottare»
Negli Stati Uniti, il presidente Geroge W.Bush ha dato il via alle commemorazioni dell'11 settembre 2001. Dalla STAMPA dell'11 settembre 2006, la cronaca di Paolo Mastrolilli:
NEW YORK Il rito del ricordo è cominciato ieri pomeriggio, quando il presidente Bush ha deposto una corona a Ground Zero. Ma lo ha fatto in silenzio, sperando di tenere separate le emozioni dell'11 settembre dalla disputa politica sulla guerra al terrorismo, che tornerà al centro della scena quando stasera parlerà in diretta televisiva alla nazione. Forse non è più possibile, però, soprattutto in un anno elettorale come questo. Il 7 novembre, scegliendo il nuovo Congresso, gli americani avranno l'ultima occasione per esprimere il loro giudizio sull'era Bush, che alle presidenziali del 2008 non potrà più presentarsi. Lo faranno pensando all'Iraq, Bin Laden, al Qaeda, l'Afghanistan, e quindi all'evento che ha cominciato tutto questo. Resta solo da capire a chi gioverà di più. Il presidente ieri ha posato la sua corona sul suolo diventato cimitero per quasi tremila vittime, e poi ha partecipato a una cerimonia religiosa nella chiesa di Saint Paul, quella che stava sotto l'ombra delle Torri Gemelle, dove ogni anno vanno un milione di persone che alcuni chiamano turisti e altri pellegrini. Stamattina poi stringerà mani in una stazione dei pompieri di Manhattan, prima di andare sul campo della Pennsylvania dove finì il volo 93, e davanti al Pentagono per l'ultima cerimonia. Questo sarà il tempo dedicato al ricordo e alla commozione, con una bandiera a stelle e strisce lunga trenta metri calata dal ponte George Washington, e decine di celebrazioni in tutta l'America. Alle 9 di sera poi arriverà il tempo della politica, col discorso alla nazione. I sondaggi sono abbastanza chiari. Due terzi degli americani si aspettano nuovi attentati, mentre da mesi la maggioranza pensa che non sia valsa la pena di sacrificare quasi 2700 uomini e spendere oltre 300 miliardi di dollari in Iraq. Eppure ogni volta che torna l'allarme terrorismo, come durante il recente complotto sventato a Londra, la popolarità di Bush risale dal 30% di gradimento intorno a cui stagna ormai da mesi. Gli americani lo considerano ancora più affidabile dei democratici sulla sicurezza, forse anche perché dal 2001 ad oggi non ci sono stati più attacchi sul suolo degli Usa, e su questo punta il consigliere politico Karl Rove per esorcizzare lo spettro di un ribaltamento della maggioranza al Senato o più probabilmente alla Camera, che segnerebbe l'inizio della fine. Il settimanale «Time» ha scritto che la strategia della sicurezza non funzionerà per la terza volta consecutiva, come nelle elezioni parlamentari del 2002 e le presidenziali del 2004, perché una volta finite le commemorazioni dell'11 settembre le notizie negative dall'Iraq saranno molte più di quelle sul terrorismo, e finiranno per oscurare tutto il resto. Ieri, infatti, il segretario di Stato Rice si è premurato di ripetere che «tra Saddam e al Qaeda c'erano contatti da dieci anni», per smentire il rapporto pubblicato venerdì dalla Commissione intelligence del Senato, secondo cui queste connessioni non erano mai esistite. Se l'opinione pubblica si convincesse di questa versione, peraltro basata su un dossier Cia del 2005, potrebbe abbracciare le posizioni del senatore democratico Rockefeller, che ha detto: «L'America sarebbe stata più sicura con Saddam al potere, perché non c'entrava niente con l'11 settembre, non aveva intenzione di attaccarci, e potevamo tenerlo isolato senza disperdere tutte le risorse impegnate nell'invasione dell'Iraq». Queste risorse, ad esempio, sarebbero tornate utili per dare la caccia al vero colpevole degli attentati del 2001, Osama bin Laden. Ma ieri il «Washington Post», citando fonti di intelligence, ha scritto che la pista per catturare il capo di al Qaeda si è completamente raffreddata: gli americani non ricevono una dritta utile da almeno due anni. Se ne tornerà a parlare, passato il rito del ricordo
Maurizio Molinari firma un articolo sugli orfani dell'11 settembre:
Come è morto papà? Chi sono i brutti tipi? Dove sono finiti gli edifici? Quando hanno tolto le macerie hanno portato via anche il mio papà? Sono queste le domande più comuni che, a quattro anni di età, gli orfani dell’11 settembre fanno alla mamma o ad altri parenti stretti. A monitorare gli oltre 700 bambini divenuti orfani a seguito degli attacchi terroristici di Al Qaeda contro New York e Washington è l’Istituto per il Trauma e lo Stress del «Child Study Center» dell’Università di New York la cui direttrice, Marylene Cloitre, spiega che «fra tutti quelli che oggi hanno quattro anni loro sono un caso unico». L’unicità sta nel fatto che sono nati dopo la morte di un padre che non hanno mai conosciuto ma del quale continuano a sentir parlare, sempe più spesso. Si tratta di bambini nati nell’arco di tempo che va dal 12 settembre 2001 a nove mesi dopo: i loro papà erano soccorritori, polizotti, pompieri, camerieri, operatori finanziari, e le loro mamme a volte sapevano di essere incinte ma altre volte no, come nel caso di una assistente dell’allora sindaco Rudolph Giuliani. «Questi bambini si stanno costruendo l’immagine dei rispettivi padri attraverso i sussurri, i racconti, i ricordi degli altri come anche grazie alle fotografie - spiega la Cloitre - ed alcuni maturano nel subconscio la convinzione che comunque nel passato il papà li abbia cullati o baciati sulla fronte almeno in una occasione». Per indovinare quali saranno le domande che faranno una volta cresciuti di qualche anno i ricercatori dell’Università di New York sono andati ad ascoltare gli orfani più grandi, che erano già nati l’11 settembre 2001: in questi casi gli interrogativi più comuni sono «Mi voleva bene mio papà?» oppure «Gli somiglio davvero?». Il vero problema di chi è nato dopo la morte del padre è nell’impossibilità di dire con certezza qualsiasi cosa sul genitore scomparso: «Sono bambini sfiniti, vorrebbero che questa situazione finisse una volta per tutte e fossero finalmente in grado di dire una cosa, solamente una, che non sia stata appresa da altri - attesta uno studio del “Child Study Center” - ma ciò non avverrà mai, hanno di fronte una vita intera di dialogo con qualcuno che non hanno mai conosciuto». Alcune interviste più approfondite con questi bambini hanno portato ad appurare che lentamente si stanno appropriando di ciò che avvenne: alcuni sono in grado di dire che «papà morì quando i brutti tipi presero il controllo di alcuni aeroplani volando contro le Torri», altri invece non hanno mai sentito la parola «terrorista» e non vanno oltre il racconto di un «grande incendio» che travolse il papà, non lasciandone spesso alcuna traccia. Kimberly Statkevicus ha avuto il secondo figlio quattro mesi dopo la perdita del marito Derek e confessa di «trovarsi spesso di fronte a domande a cui non so rispondere» evadendo con giochi di parole che tradiscono la «speranza di prendere tempo, ritardare il momento» nel quale sarà obbligata a raccontare al figlio come morì il padre del quale porta il nome. Ad oggi il piccolo Derek, che a gennaio farà 5 anni, si è fatta questa idea: «Il mio papà un giorno andò a lavorare, alcuni brutti ceffi tirarono giù gli edifici e lo schiacciarono come una torta». In altri casi madri come Terily Esse si trovano di fronte a domande del tipo «perché non c’è una mia foto con papà?», «mi vede quando vado in bicicletta?», «gli piaceva di più la maionese o la mostarda?», «giocava bene a baseball?». L’altra faccia del caso-orfani sono i sentimenti delle mamme: c’è chi ha avuto le doglie durante il funerale del marito e chi si è portata la foto del defunto al momento del parto. Quasi tutte definiscono il momento della nascita «agrodolce» al pari di Jenna Jacobs-Dick, che perse il marito Ariel perché era andato a seguire una conferenza al World Trade Center. Lei ebbe il figlio Gabriel appena sei giorni dopo. Ogni volta che il bimbo lancia un aquilone in cielo vi attacca una foto del papà, seguendolo nella corsa verso l’alto. Sono in molti a compiere gesti simili, fino ad ora confinati nelle mura di casa ma che da questo anno entreranno nelle scuole d’America per via del fatto che con l’arrivo del quinto compleanno agli orfani dell’11 settembre si aprono le porte degli asili. Questo significa che entreranno a contatto con altri bambini della stessa età che potranno avere ricordi più o meno nitidi degli attacchi di Al Qaeda dando vita ad un’interazione dalla quale è destinata a formarsi la prima generazione del post-11 settembre.
Un breve trafiletto riguarda l'attrazione che l'America continua ad esercitare su molti immigrati musulmani:
Gli immigrati musulmani hanno riscoperto l'America. Altrove ci sarà la guerra al terrorismo, lo scontro fra le civiltà, le retate contro i giovani estremisti. Davanti alle frontiere degli Stati Uniti, però, c'è di nuovo la fila di islamici che vorrebbero la loro parte del sogno americano. L'11 settembre 2001 milioni di immigrati nati in Paesi musulmani vivevano a casa dello zio Sam, e se la cavavano piuttosto bene: vantavano la percentuale di laureati più alta di tutti gli altri gruppi residenti, e i loro salari erano in media più ricchi del 20%. Dopo gli attentati la favola era finita. Misure di sicurezza, pregiudizi, vandalismi contro le moschee: nel 2003 il numero degli immigrati in arrivo da 22 Stati islamici era già diminuito di oltre un terzo. Cinque anni dopo gli attacchi di Al Qaeda, secondo i dati riportati dal New York Times, la tendenza è tornata ad invertirsi. Nel 2005, 96.000 persone provenienti dai Paesi musulmani hanno preso la residenza permanente in America, cioè il numero più alto degli ultimi vent'anni. Nello stesso tempo il governo Usa e quello dell'Arabia Saudita hanno varato un programma di borse di studio, che all'inizio del 2007 porterà nelle università Usa 15.000 studenti del Paese da dove provenivano anche 15 dei 19 dirottatori dell'11 settembre. Washington sta aprendo le porte ai terroristi che combatte nel resto del mondo? Semmai il contrario: cerca di attirare immigrati interessati al modello americano, che potranno fare da ponte con le loro culture, e giovani che riporteranno la loro esperienza americana nel Paese di origine.\
Infine, un articolo di Carla Reschia sui progressi nella sicurezza aerea: L’AEREO a prova di dirottatore presto sarà tra noi e anche se assomiglierà più a un carcere di massima sicurezza con le ali che a un mezzo di trasporto, dovrebbe garantire ai passeggeri voli sereni e controlli meno isterici, ma soprattutto più brevi, all’imbarco. Il progetto dell’«hijack-proof airliner» nasce da una collaborazione tra Bae Systems, Airbus e Commissione europea ed euroburocratico è il suo chilometrico nome: Security of Aircraft in the Future European Environment. Ovvero, sicurezza degli aeroplani nel futuro ambiente europeo. Anche l’America, naturalmente, sta lavorando, in gran segretezza, a qualcosa di simile. Le nuove tecnologie, già in fase sperimentale, sono infatti figlie degli attacchi dell’11 settembre e tutte le loro caratteristiche rispondono all’esigenza di impedire che qualcosa di simile possa capitare di nuovo. Ad esempio, sarà possibile inserire un programma per evitare automaticamente l’impatto contro gli edifici; un dispositivo permetterà di pilotare il velivolo da terra, se il pilota dovesse perderne il controllo, vanificando ogni tentativo di dirottamento; sensori programmati per la lettura dell’iride permetteranno l’accesso alla cabina di pilotaggio solo alle persone autorizzate. Passeggeri vigilati speciali Aspetti meno simpatici per la privacy riguardano l’uso di microfoni per intercettare le conversazioni e un sistema computerizzato per individuare movimenti sospetti e neutralizzare eventuali terroristi prima che entrino in azione. Molto meglio,in ogni caso, delle porte blindate e degli sceriffi dell’aria incaricati di vigilare sul volo che furono la prima, rudimentale risposta allo shock dell’attacco alle Torri gemelle. Ma forse non abbastanza. «Il rischio zero non esiste», chiarisce Daniel Gaultier, coordinatore a Parigi del progetto. «Tuttavia - aggiunge - possiamo rassicurare il pubblico sul fatto che stiamo facendo tutto il possibile per la loro sicurezza». Per i passeggeri che, da metà del 2008, potranno sperimentare in pratica alcuni dei nuovi congegni messi a punto - per ora testati solo su voli simulati con attori professionisti fra Bristol e Amburgo - si tratterà di scegliere fra protezione e riservatezza. Perché il prezzo da pagare è un’invasione pressoché totale nella assai relativa intimità di un volo aereo. E su questo è già polemica. Ogni passeggero, infatti, sarà sorvegliato attraverso un sistema nascosto di telecamere e microfoni. Ogni sua parola, ogni suo gesto, saranno immortalati e analizzati, già durante il volo, per decidere se si tratta o meno di comportamenti sospetti: situazione imbarazzante per scambiarsi segreti di affari o regalare una gita romantica all’amante. Sono considerate attività degne di attenzione, fra l’altro, portare con sè troppi oggetti alla toilette o camminare su è giù per il corridoio. Le signore che si truccano davanti allo specchio e gli inquieti cronici potrebbero avere vita difficilissima. Telecamere anche in bagno Il dibattito è in corso sull’opportunità di mettere le telecamere anche in bagno: è un punto assai controverso perché l’idea di trovarsi involontario protagonista di un reality non entusiasma nessuno. D’altra parte, ribattono gli esperti, dati alla mano, le toilette sono il luogo ideale per prepararsi a un attentato, o per metterlo in opera. Si assicurano discrezione per quanto riguarda le conversazioni intime e la distruzione di tutto il materiale dopo l’atterraggio ma il dilemma - quanto si può sacrificare in termini di diritti in nome della sicurezza - è di nuovo pronto a esplodere. Sull’aereo a prova di bin Laden, passati i controlli tradizionali all’imbarco, si dovrà superare l’esame di un apparecchio per rilevare la presenza di esplosivi e dotare i bagagli di un chip che li identifica come propri senza possibilità di scambi o errori. Sulla plancia di controllo saranno installati sensori biometrici in grado di segnalare, ad esempio, mani estranee sui comandi, e far scattare quindi il sistema di emergenza guidato da terra. Per impedire la classica situazione da dirottamento, il capitano che guida con una pistola puntata alla tempia, è previsto infine un superpilota automatico, evoluzione del radar che già oggi evita collisioni fra aerei, programmato per evitare ogni impatto con edifici o montagne. Il prezzo della protezione Volare sicuri forse significherà anche dare l’addio ai low cost. Le nuove tecnologie elettroniche sono costose e dotarne ogni aereo potrebbe essere fatale alle compagnie più fragili, o costringerle a un aumento significativo delle tariffe. Per ovviare a questo inconveniente, che potrebbe portare a una nuova crisi del settore aereo, peggiore di quella seguita agli attentati dell’11 settembre, si ipotizzano contributi statali, ancora tutti da verificare, e possibili risparmi sul personale addetto alla vigilanza
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