Dal FOGLIO ddi venerdì 8 settembre 2006:
Una rivoluzione è una rivoluzione, è una rivoluzione”: Gertrude Stein può dare una mano per comprendere quel che non si comprende dell’Iran. Parola usata e abusata, rivoluzione vuol dire tutto e niente, e spesso ci si dimentica che, grosso modo, essa è costituita da tre elementi: un movimento popolare consistente, una sua leadership e una forte e semplice ideologia che li cementa. Quella di al Qaida, ad esempio, non è una rivoluzione, perché la rete ha ideologia e quadri, ma non ha un movimento di massa che li supporti. Era rivoluzione quella tentata dai salafiti algerini, ma è fallita e ha lasciato il palmarès dell’unica vittoria rivoluzionaria al movimento sciita, che ormai influenza sempre di più un campo sunnita sempre più agitato per il fallimento dei suoi regimi. Il fine della rivoluzione, dunque, è guidare le masse a conquistare uno stato, abbattendone il regime. Poi si finisce come in Messico, governato per decenni da un Partito rivoluzionario istituzionale, ossimoro che dà il senso di quel che accade dopo: la cristallizzazione di una burocrazia “rivoluzionaria”, di mandarini autoritari. La confusione odierna circa la rivoluzione iraniana, l’illusione che sia finita da decenni, l’incapacità di vedere come invece sia, purtroppo, vitale ed espansiva, la falsa idea che la sua leadership sia costituita da burocrati, mentre invece sono tutti dirigenti rivoluzionari “di movimento”, nasce soprattutto dal parallelismo che, in sede di relazioni internazionali, è istintivo fare con quella sovietica. L’intera politica mondiale, infatti a partire dal 1917, è ruotata attorno alla crescita e al contrasto di quella rivoluzione e ora le cancellerie di tutti gli stati democratici del mondo, sbagliando, applicano grosso modo alla rivoluzione iraniana i parametri definiti dalla rivoluzione sovietica. Soltanto che quest’ultima è sempre stata governata da un gruppo di burocrati, da una gerarchia autonominatasi e autoperpetuatasi, senza alcuna legittimità popolare. La Repubblica islamica dell’Iran, invece, non è governata da un blocco di regime burocratico, da una casta di gerarchi che hanno preso il potere vuoi tramite una sommossa giacobina, vuoi tramite un golpe, vuoi combinando i due momenti. La leadership iraniana è oggi, come negli ultimi trent’anni, composta da una dirigenza rivoluzionaria che si è formata dentro e alla testa di un movimento popolare maggioritario nel paese e che è legata alla propria base rivoluzionaria, consistente, da un triplice legame ideologico, di prestigio personale e nazionalista. Il tutto in una prospettiva che è riduttivo definire “internazionalista” perché è invece “universalista”, con un profondissimo spessore messianico e con un afflato religioso di spessore più che millenario. Questo non significa, naturalmente, che la base rivoluzionaria nell’Iran di oggi non si sia straordinariamente ridotta, rispetto al 1979, che “il terrore” dei tribunali islamici, la repressione khomeinista, gi errori, il fanatismo non abbiano reso nettamente minoritario il nucleo rivoluzionario nel paese. Ma significa che esso persiste, che pure ristretto al 30-40 per cento della popolazione, il blocco sociale rivoluzionario è forte di dieci, venti milioni di iraniani e che egemonizza facilmente il resto della popolazione che è totalmente afono, assolutamente privo di una leadership alternativa. Dal totale fraintendimento di questo quadro nasce l’errore cruciale delle cancellerie europee – e in primis della Farnesina – che interpretano la politica estera iraniana come espressione di volontà, peraltro in parte legittima, di farsi riconoscere un ruolo di potenza regionale. Come se si trattasse di un’Unione sovietica in miniatura che, passati trent’anni dall’ubriacatura rivoluzionaria, governata da una autarchia feroce, ma senza alternative immediate, tentasse di contare il massimo possibile come nazione e come paese. Lo stesso identico errore è commesso nei confronti dei movimenti che da Teheran si irradiano: Hezbollah libanese, Hamas e le milizie del Mahdi irachene di Moqtada al Sadr. L’errore è moltiplicato per mille dalla convinzione errata, d’identica origine, di chi vede nel conflitto palestinese essenzialmente uno scontro tra due nazionalismi (arabo e sionista, le “due ragioni” di cui parla Piero Fassino) e non invece uno scontro tra il nazionalismo sionista e un progetto panislamista, totalitario, fanatico e finalista, incarnato ieri dal Gran Mufti e oggi, in piena e rivendicata continuità, da Hamas, con una perenne riduzione della componente nazionalista rappresentata ora da Abu Mazen, relegato a un ruolo minoritario. Questo difetto di analisi, quest’incapacità di comprendere la natura di forza in movimento, di ideologia totalitaria fatta stato, con largo consenso di massa dell’Iran, quindi di Hezbollah, quindi di Hamas, ricorda da vicino un altro passaggio della storia: il 1933. Quella nazista non era una rivoluzione – arrivò al potere senza spezzare lo stato presistente – ma fu ugualmente fraintesa dalle democrazie mondiali, che non colsero il nesso tra ideologia, leadership hitleriana, consenso popolare nel cammino messianico per la costruzione dell’Uomo nuovo che portò ad Auschwitz. Quando George W. Bush usa un linguaggio apocalittico e denuncia l’asse del male, dimostra invece di saper cogliere – con il suo lessico evangelico – questo nesso e di saper impostare correttamente una strategia di contrasto (sbagliando naturalmente “mille e mille volte”, come ammette il segretario di stato americano Condoleezza Rice, nell’applicarla). Oggi, questo deficit d’analisi, questo totale errore di prospettiva diventano drammatici, perché chi lo compie (l’Unione in Italia, Jacques Chirac in Francia) si pone alla guida di una spedizione militare in Libano che pensa si possa concludere con un accordo politico, con un riconoscimento all’Iran, a Hezbollah e a Hamas di ambiti di potenza, di compensazione territoriale, che in realtà nulla interessano loro. Invano, l’Iran, Hezbollah e Hamas continuano a spiegare che non vogliono affatto uno stato palestinese, ma la distruzione dell’“entità sionista” e che intendono instaurare sulle sue macerie uno stato islamico, che governi coranicamente su musulmani, cristiani ed ebrei. Non li si ascolta e da Roma, come da Parigi, per non parlare di Palazzo di vetro, si fa finta di credere che l’attuazione della bipartizione stabilita dall’Onu nel 1947 stabilizzerebbe la regione. L’evidenza del fatto che la nascita di uno stato palestinese accelererebbe i tempi dei tentativi di “distruzione dell’“entità sionista”, come si è ben visto dopo il ritiro dal Libano del 2000 da Gaza nel 2005, è ignorata. Tutto inizia e tutto ritorna, infatti, non alla dinamica del conflitto israelo-palestinese – litania sempre ripetuta – ma alla rivoluzione del 1979 dell’ayatollah Ruhollah Khomeini, che nulla ebbe a che fare con quel conflitto e che oggi è la forza destabilizzante egemone in tutto l’islam, che ha avuto e ha caratteristiche radicalmente diverse da tutti gli altri rivolgimenti politici violenti della modernità e tutt’ora si muove con un’originalità totale sulla scena mondiale. Per spiegare la sua portata nel mondo dell’islam non è azzardato paragonare il suo impatto a quello che ebbe lo scisma luterano sulle masse contadine tedesche del Cinquecento che, infiammate dalla sua critica del papato, della Chiesa e quindi dei principi che da esse traevano legittimità, scatenarono una sanguinosissima rivolta-rivoluzione paesana. Con la determinante differenza che non appena Martin Lutero si accorse che la sua polemica religiosa si era trasformata in rivoluzione sociale e politica, si alleò con i principi e li invitò a squartare i suoi stessi fedeli in armi, mentre Khomeini e i suoi epigoni hanno continuato a scatenare i loro “mostafazin” (che si traduce perfettamente con proletari) contro tutti i principi e gli imperi. Ma, ripetiamo, proprio questa caratteristica della leadership iraniana, questo rapporto biunivoco intenso tra le strategie iraniane e la base sociale di quella rivoluzione è l’elemento sfuggente, l’incognita irrisolta, la fonte di continue sorprese per il mondo, ultima quella rappresentata dalla stagione del presidente Mahmud Ahmadinejad. La stessa pervicacia di cui Massimo D’Alema dà prova nel rifiutare la definizione di “terrorista” a carico di Hezbollah, rigettando così la lezione di Renzo De Felice, non comprendendo che un movimento terrorista e totalitario, violento e assassino, può riscuotere un ampio consenso di popolo e quindi avere parlamentari e ministri (come del resto avevano le SA hitleriane nel 1930-33), è una rappresentazione di questo complesso problema. Non è una caso, d’altronde, che questo dilettantesco errore venga compiuto da un ministro degli Esteri italiano, pochi giorni dopo che il suo collega francese Philippe Douste-Blazy ha dichiarato che l’Iran può “avere un ruolo destabilizzatore” in medio oriente. Non è un caso, cioè, che i rappresentanti di due scuole diplomatiche così vicine cadano nello stesso errore, si illudano sulla natura politica ortodossa, nazionalistica, territoriale della forza politica con cui si trovano confrontati e non sappiano riconoscere la natura nuova, eversiva, di un paese che si comporta come nazione, ma contemporaneamente e prioritariamente come forza rivoluzionaria universalista. Questo errore è stato fatto da tutte le cancellerie occidentali sin dal 1979 e ha avuto un autorevole fondatore in Andrew Young, ambasciatore americano all’Onu per l’amministrazione di Jimmy Carter, il quale, pochi giorni dopo la vittoria della rivolta a Teheran e l’abbattimento del regime iraniano, nel marzo del 1979, sintetizzò con queste sconfortanti parole l’analisi strategica americana: “Sono pronto a scommettere che Khomeini sarà riconosciuto santo, il giorno in cui, sorpassata la crisi attuale, potremo ben valutare il senso delle sue idee.” Così non è stato, come si sa, e ha dell’incredibile che, a tutt’oggi, sfugga ancora, quasi completamente, non soltanto “il senso delle sue idee”, ma soprattutto l’incredibile massa critica di popoli e di fedeli che le appoggiano. Decine di epigoni del democratico e progressista Andrew Young continuano oggi a ripetere che è possibile avviare con il regime di Teheran e con i suoi alleati, Hezbollah, Hamas e Siria in testa, una trattativa politica che porti a una definizione di lungo respiro del contenzioso mediorientale, opzione sicuramente più auspicabile, preferibile a qualsiasi altra. Ma è praticabile? Non è praticabile perché l’essenza e soprattutto la forza politica del processo rivoluzionario islamico guidato oggi da Teheran la rendono una pia speranza. Con l’Iran degli ayatollah, con Hezbollah, con Hamas e le altre componenti di questo magma in movimento è possibile – secondo lo schema coranico definito dal Profeta – soltanto una “hudna”, una tregua (come quella trentennale che Hamas offre a Israele), dopo la quale il conflitto è destinato, per sua stessa natura, a riemergere più virulento di prima. L’errore che spesso si fa – e che lo stesso Bernard Lewis a mio parere compie, ad esempio quando si perde in inutili profezie sul 22 agosto e l’Apocalisse – è quello di fermarsi alla lettera della dottrina politico-religiosa musulmana e di non cogliere così la sostanza di “forza eversiva” rappresentata dal fatto che quella tradizione è oggi rilanciata sulla scena mediorientale da un movimento composto da alcune decine di milioni di militanti. Si perde cioè di vista che tutt’oggi, nonostante lo sfiancamento di 27 anni, la “spinta propulsiva” delle decine di milioni di rivoluzionari iraniani in marcia nel 1979 continua a spazzare con le sue onde il medio oriente. Abbiamo usato questo termine berlingueriano non casualmente. Perché l’analisi del segretario del Pci riguardava l’esito finale, la mummificazione di un movimento rivoluzionario che ha trionfato in Urss, ma sulla base di un movimento giacobino ristretto a un partito di “Berufsrevolutionäre”, rivoluzionari di professione, alla testa di manifestazioni di poche decine di migliaia di rivoltosi, seguito poi da una dinamica di pura guerra civile tra armate di signori della guerra (Armata rossa di Lev Trotsky inclusa). Hezbollah, invece, il “Partito di Dio” di Khomeini, nel 1979 era costituito da “quadri” che rappresentavano il 99 per cento della struttura religiosa sciita in Iran (alcune decine di migliaia di mullah, hojatoleslam, ayatollah e teologi) e da “militanti”: tra i venti e i trenta milioni di iraniani (che ebbero tra 30 mila e 50 mila morti). Non è dunque una notazione di scuola o sociologica ricordare che la rivoluzione di Khomeini è stata l’unica rivoluzione del ventesimo secolo non soltanto maggioritaria, ma quasi totalitaria rispetto al popolo iraniano e che da questa straordinaria massa di consenso (sia pure oggi molto erosa) consegue il perdurare di “forza propulsiva” a tutt’oggi. Naturalmente, non si tratta di un fenomeno meccanico, inerziale, ma di un’energia direttamente proporzionale alla presa ideologica, di contenuto di quella rivoluzione, che ebbe un’altra sua assoluta originalità nel fatto che tutte, assolutamente tutte le forze politiche iraniane si riferirono durante la rivoluzione del 1979 alla leadership incontrastata di Khomeini: tutte le scuole sciite, i partiti “laici”, dai nazionalisti del Fronte nazionale che fu di Mossadeq al Tudeh, il Pc filomoscovita, tutte le leadership delle etnie minoritarie (curdi, arabi e azeri inclusi) e persino i cristiani armeni o altre chiese (unica eccezione fu rappresentata dalla prudenza d’entusiasimi della comunità ebraica e dalla contrarietà dei Bah’i, molto rappresentati nella corte dello shah). Questa straordinaria massa critica produsse quindi la prima e unica rivoluzione popolare del Novecento con un’ideologia e una leadership non laiche, ma pienamente interne a una tradizione religiosa millenaria e un’adesione all’ideologia totalitaria del leader, Khomeini, da parte di decine di milioni di iraniani. Il tutto con un richiamo forte, condiviso, formalizzato nella Costituzione iraniana e nel dna di Hezbollah, al cammino verso il Giudizio universale. Questa notazione induce al sorriso il lettore occidentale, ma se la si traduce nel linguaggio delle nostre rivoluzioni laiche ha un altro, inquietante impatto: il cammino per la costruzione dell’Uomo nuovo. Il messianesimo sciita nella versione khomeinista non riguarda soltanto – e qui di nuovo Bernard Lewis, nelle sue ultime analisi sull’Iran, è riduttivo – l’attesa escatologica del ritorno del Mahdi (inclusi i deliri di Ahmadinejad che vuole preparargli la pista d’atterraggio nei boulevard di Teheran). La struttura dello stato delineata dalla Costituzione voluta da Khomeini, con quella sua dimensione piramidale e neoplatonica, ha un obiettivo dichiarato e prioritario: allargare la umma islamica, purificarla, guidarla e portare tutta l’umanità – tutta, noi inclusi, una volta convertiti, anche con la forza, come nell’uso maomettano – all’incontro con il Messia.La somma di questi due momenti: la forza politica di un movimento rivoluzionario di massa e il fanatismo messianico totalitario, sono i due punti di riferimento dell’azione della Repubblica islamica dell’Iran dal 1979. Ahmadinejad vi ha soltanto posto il suggello, dando prova di doti che sul punto non ebbe neanche Khomeini, unificandole con la prospettiva di distruggere lo Stato degli ebrei e con la negazione della Shoah, gratificando quindi ed eccitando un antisemitismo islamico che da 1.400 anni attraversa i pensieri più reconditi della umma. La ragione per cui l’occidente non è riuscito a cogliere i passaggi, successivi al 1979, di questo cammino di espansione del totalitarismo khomeinista è stata triplice: banale disattenzione, molta ignoranza e infine una scena internazionale convulsa. Innanzitutto – sconvolti dalla inaudita gravità del sequestro dei 52 diplomatici americani per 444 giorni – non si è colto il senso della “purga” più che staliniana che Khomeini ha subito operato nel “Partito di Dio” in occasione della promulgazione della Costituzione. Con essa, infatti, egli operò un vero e proprio scisma nell’islam. La sua “velayat e faqih” e ben di più che una semplice dottrina dello stato, è un capovolgimento violento – e di scarso spessore teologico – dell’essenza stessa dello sciismo. Affermando che il potere è tutto di Allah e che in sua vece è esercitato soltanto e unicamente dal rahbar, dall’imam, da lui stesso (e oggi dall’ayatollah Ali Khamenei), Khomeini ha fatto ben di più che portare il clero al vertice dello stato: ha negato ogni possibilità di interpretazione del Verbo, del Corano, a chiunque altro. Per esemplificare con un paragone meccanico, ha compiuto l’operazione esattamente speculare a quella di Lutero (per questo il dissidente Hashem Aghajari l’ha invocato e ne ha pagato le conseguenze con anni di carcere), assegnando all’imam – senza alcuna verifica collegiale, neanche dei consigli di ayatollah, pure previsti – non soltanto totale ed esclusiva infallibilità in materia di dogmi (concetto considerato quasi blasfemo da tutte le scuole dell’islam sciita e sunnita), ma anche di interpretazione teologica, di legislazione civile, penale e amministrativa e infine anche di esercizio del potere politico e persino militare (l’imam esercita il pieno potere giudiziario, di politica estera, di ordine pubblico, di difesa e può dimettere a suo insindicabile giudizio il presidente della Repubblica e i ministri). Le conseguenze teologiche devastanti di questo scisma impiantato in una rivoluzione hanno subito prodotto una spaccatura nel corpo stesso degli ayatollah che avevano diretto, durante l’esilio di Khomeini, la rivoluzione in Iran, a iniziare dall’ayatollah di Teheran Mahmoud Taleghani, che però misteriosamente morì nel settembre del 1979, e dell’autorevolissimo ayatollah di Qom, Shariat Madari. In Iraq, la notazione è oggi fondamentale: la spaccatura coinvolse l’ayatollah Bagher al Sadr, zio di Moqtada, schierato con Khomeini, e gli ayatollah Ali al Sistani e al Khoei, pienamente schierati con Shariat Madari, nella convinzione che la “Velayat al faqih” fosse “non islamica”. Vi furono manifestazioni violente, Shariat Madari costituì un suo forte Partito del popolo islamico, radicato soprattutto a Tabriz e nell’Azerbaijan, i cui militanti furono però perseguitati, uccisi e anche impiccati a decine dai “tribunali islamici” dell’ayatollah Khalqali, vuoi con l’accusa di “eversione”, vuoi con quella di “omosessualità” nel corso del 1979 e 1980. Il 20 aprile del 1980 scattò la purga staliniana: l’ex ministro degli Esteri Gotzbadeh Sadegh apparve in televisione – visibilmente torturato e obnubilato da farmaci – confessò un complotto per uccidere Khomeini (bombardando dall’aereo la sua casa) e accusò Shariat Madari di esserne complice. Gotbzadeh fu subito impiccato assieme a migliaia di “cospiratori”, Shariat Madari fu arrestato nel suo domicilio di Qom, Khomeini gli tolse la carica di ayatollah, fu obbligato a vestire in borghese e nel corso degli anni centinaia dei suoi seguaci furono uccisi. Questi avvenimenti ebbero fortissima eco a Najaf (Bagher al Sadr fu impiccato da Saddam Hussein nello stesso 1980) e il loro ricordo è vivo tutt’ora. Le dozzine di analisti, di giornalisti, di orientalisti che preconizzano una “internazionale” sciita tra Iran e Iraq, per la semplice ragione che non sanno nulla della shi’a, dovrebbero oggi almeno informarsi. Si renderebbero allora conto che l’ayatollah iracheno Ali al Sistani, che contrastò e contrasta il nucleo dell’ideologia del regime iraniano, è non soltanto un “grande ayatollah”, ma è anche un marja e taqlid, un “modello da seguire” a capo della più importante scuola teologica di tutto il mondo sciita. L’ayatollah Khamenei, erede di Khomeini, invece, gode di una meritata fama conquistata alla testa della rivoluzione a Meshad, nel 1978, ma non ha nessun spessore teologico; è diventato tale (era un hojatoleslam, un monsignore) soltanto per poter ricoprire la carica di rahabar, non è affatto un “grande ayatollah”, non è un “modello da seguire” e quindi, per il mondo sciita è semmai più probabile l’opposto, che il modello iracheno contagi quello iraniano, più che viceversa. In questa logica di contrasto tra l’ortodossia sciita – di al Sistani – e lo scisma islamico di Khomeini, la Costituzione della Repubblica dell’Iraq, democraticamente elaborata e poi approvata dal popolo, è di impianto assolutamente islamico- sciita, ma tanto e talmente opposta, speculare, antagonista a quella iraniana di Khomeini da riscuotere il pieno coinvolgimento anche da parte sunnita (fatta solo salva la definizione del federalismo, che urta la mentalità centralista dei sunniti). Subito dopo la sanguinosa battaglia sulla Costituzione, l’avvio dello scisma khomeinista, lo sterminio di decine di migliaia di rivoluzionari e cittadini iraniani e quindi il restringimento della stessa base rivoluzionaria, ebbe inizio una seconda rivoluzione iraniana, di cui incredibilmente in occidente nessuno dà oggi segno di essersi accorto, anche se essa ha, tra l’altro, formato buona parte del quadro rivoluzionario dirigente attuale, a partire dal presidente Ahmadinejad. In quel frangente, infatti gli Stati Uniti erano completamente “groggy”, vacillanti e impotenti, e la presidenza Carter si concludeva come la peggiore del secolo dopo l’ignominiosa avventura di Tabas (il tentativo fallito di liberare gli ostaggi manu militari), l’Arabia Saudita, forte di una ideologia di regime costituzionalmente antisciita sin dalla nascita dello scisma wahabita, spinse l’Iraq di Saddam Hussein all’attacco dell’Iran il 22 settembre 1980. Era una guerra dichiaratamente “controrivoluzionaria”, di contenimento del contagio khomeinista già deflagrato in Libano, in Kuwait, in Bahrain e nella stessa Mecca durante il pellegrinaggio, tanto che fu finanziata con un miliardo di dollari al mese da Riad per ben 30 mesi. Khomeini riuscì però nel miracolo disperato di convincere tutte le forze nazionali, persino i piloti dei F14 Tomcat, fedeli allo shah e imprigionati, a difendere la patria minacciata. Passati due anni, però, nel 1982, l’equilibrio tra le forze aggressive e il nazionalismo iraniano riportò i due contendenti praticamente all’interno ognuno dei suoi confini: Saddam, e con lui l’Arabia Saudita, aveva perso la guerra. Ma Khomeini decise di ignorare la risoluzione 514 del 12 luglio 1982 – che di fatto proclamava la vittoria dell’Iran – e decise di lanciare la parola d’ordine di “esportare la rivoluzione abbattendo il regime idolatra di Baghdad”. Per fare di nuovo un esempio meccanico è come se alla fine della guerra civile russa si fosse imposto Trotsky, Stalin fosse stato emarginato e, nonostante le sconfitte in Polonia e Germania, l’Armata Rossa si fosse esaurita in continue aggressioni a ovest. Milioni di iraniani adulti e centinaia di migliaia di bambini, si buttarono a corpo morto nel tentativo rivoluzionario e fu in quel massacro, che durò altri sei anni, che si forgiò una leva di “dirigenti rivoluzionari” nel corpo dei pasdaran e dei basiji, che oggi si è affiancata, con Ahmadinejad, ai leader che diressero la rivoluzione del 1979 alla guida del nuovo tentativo di “esportare la rivoluzione”, dopo la lunga fase della ricostruzione (si calcola che quella scelta sciagurata di Khomeini sia costata al paese 500 miliardi di dollari e 3-400 mila morti). Proprio in quel momento, la notazione è fondamentale oggi, Khomeini decise di operare una scissione nel movimento sciita libanese e di creare Hezbollah. Una delle imprecisioni che si leggono sui giornali italiani ed europei vuole che Hezbollah sia nato come risposta all’operazione “Pace in Galilea” diretta da Ariel Sharon nel 1982 in Libano. Non è così: Hezbollah nasce per difendere in Libano “la patria della rivoluzione” e attacca le truppe israeliane soltanto in un secondo momento. Sin dalla primavera del 1979, Khomeini aveva inviato a Beirut e nella valle della Bekaa alcuni tra i suoi migliori ayatollah e pasdaran, che si unirono ovviamente al movimento sciita Amal, fondato pochi anni prima dall’ayatollah Mussa Sadr, misteriosamente scomparso in Libia nel 1978. Con l’inizio della guerra Iran-Iraq, però, la componente filo iraniana di Amal venne chiamata a un impegno, anche militare, di pieno sostegno agli interessi della “patria della rivoluzione”. Questo significava contrastare manu militari tutte le forze libanesi che facevano parte dell’area filo irachena, non soltanto i baathisti di Beirut, ma anche e soprattutto il principale alleato di Saddam: l’Organizzazione per la liberazione della Palestina di Yasser Arafat, che aveva tentato, fallendo, di fare sollevare gli arabi del Khouzestan iraniano a fianco delle truppe irachene. La guerra civile libanese trovò così un ulteriore motivo di contrasto (gli scontri armati tra Hezbollah e Fatah dureranno sino a tutto il 1983, sarebbe bene che oggi questo fosse tenuto presente) e Nabih Berri, il leader di Amal, un nazionalista moderato, per nulla khomeinista, decise di contrastare il coinvolgimento di tutta la comunità sciita libanese nel disastro provocato dalla difesa degli interessi dell’Iran. Nacque così Hezbollah – non senza combattimenti armati con Amal – e si buttò nella mischia, stringendo anche Arafat con un sanguinoso assedio a Tiro (in cui era rientrato dopo l’esilio a Tunisi), mentre iniziava la guerriglia antisraeliana nel sud del Libano. La fase che si aprì con il 1988, quando Khomeini accettò il fallimento rivoluzionario in Iraq e quindi cessò la guerra (anche perché gli sciiti iracheni, non soltanto a causa del terrore baathista, avevano difeso il loro paese dagli attacchi iraniani, altro elemento che smentisce le previsioni di egemonie future da parte di Teheran) e termina con il 2005 fu caratterizzata da un problema centrale: la ricostruzione. Khomeini morì nel 1989, lasciando in eredità alla umma l’anatema planetario contro gli apostati come Salman Rushdie, ossessione dell’islam fondamentalista, e un paese sfiancato. L’apparente calma piatta della politica iraniana nel decennio successivo, così come la non compresa stagione riformista di Khatami, iniziata nel 1997, hanno consolidato nel mondo l’equivoco di un totale riflusso dell’energia rivoluzionaria. Figure centrali, come quella dell’hojatoleslam Hashemi Rafsanjani hanno indotto a pensare a una totale, cinica burocratizzazione della gerarchia rivoluzionaria e coperto la realtà di una lenta ricostruzione economica e sociale, che ha riportato forze al paese e quindi nuovo slancio alla sua vocazione rivoluzionaria. Così, quando Mahmud Ahmadinejad è stato eletto presidente nel giugno del 2005 e soprattutto quando, nell’ottobre, ha saputo sollevare una straordinaria eco di consenso nella umma con la parola d’ordine di “distruggere Israele”, le cancellerie, e gli analisti, hanno saputo leggervi soltanto una dinamica di scontro tra due gruppi di gerarchi sciiti. Alcuni, non comprendendo nulla si sono addirittura spinti a sostenere che era in atto una lotta tra “turbanti” e laici (dimenticandosi che per un biennio Khomeini aveva promosso a tutte le cariche, proprio i laici – Bazargan, Banisadr, Yazdi, Rajavi e altri – perché l’unico potere che contava e conta era il suo, quello del Faqih, e tutti gli altri gli sono sottordinati). In realtà, è successo che la spinta riformista per l’abolizione della “velayat e faqih”, dell’assetto teocratico del potere, incarnata dagli otto anni al potere dell’ayatollah Khatami, si è spenta su se stessa. Il blocco riformatore, rafforzato dal disastro prolungato del fallimento rivoluzionario del 1988, aveva preso la bandiera degli ayatollah sconfitti nel 1979, di Shariat Madari, e ha tentato di riformare la Costituzione in senso democratico. Ha approvato due leggi in tal senso, nel Parlamento, ma quando poi il Consiglio dei guardiani le ha bocciate, assieme all’imam Khamenei, è stato fermo, non chiamando alla mobilitazione popolare. La pavida sconfitta di un movimento rivoluzionario ma riformatore – alla Kerensky, potremo dire – incapace di mobilitare la sua base sociale, timoroso di scatenare uno scontro violento con il blocco sociale rivoluzionario khomeinista (di cui un assaggio furono le uccisioni di intellettuali, le chiusure dei giornali, la condanna a morte per apostasia di Aghajari, nel 2002, poi graziato nel 2005, e gli assalti squadristi di basiji e pasdaran agli studenti nel 2003) ha prodotto il brusco contropiede che ha portato alla leadership di Ahmadinejad. In questa fase, questo va ricordato, gli Stati Uniti hanno tentato di rafforzare al massimo la svolta riformista e sono arrivati, con Madeleine Albright, a chiedere, il 17 marzo del 2000, formalmente scusa all’Iran con parole inequivocabili: “Nel 1953 gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo significativo nel rovesciamento di Mohammed Mossadeq, primo ministro iraniano. L’Amministrazione Eisenhower ritenne che le sue azioni fossero giustificate da motivi strategici, ma la mossa segnò chiaramente una battuta d’arresto nello sviluppo politico dell’Iran. Ed è facile rendersi conto ora del perché molti iraniani continuino a provare risentimento per questo intervento da parte dell’America nei loro affari interni. Inoltre, nel corso dei successivi 25 anni, gli Stati Uniti e l’occidente hanno dato un appoggio consistente al regime dello shah. Il governo dello shah, anche se aveva dato un grande contributo economico al paese, aveva represso brutalmente il dissenso politico. Come ha dichiarato l’ex presidente americano Bill Clinton, gli Stati Uniti devono assumersi la loro giusta parte di responsabilità per i problemi che sono sorti nei rapporti tra Washington e Teheran. Persino alcuni aspetti della politica americana nei confronti dell’Iraq, durante il conflitto con l’Iran, risultano purtroppo poco lungimiranti, soprattutto alla luce delle nostre successive esperienze con Saddam Hussein”. E’ evidente che la straordinaria performance aveva una motivazione tutta politica e non certo morale. L’Amministrazione Clinton, infatti, a scadenza del mandato e alla vista di una fondamentale trattativa con Israele e l’Olp, tentava di dare il massimo credito e spazio possibile alla direzione “riformista” dell’ayatollah Khatami, dimostrando di essere addirittura disponibile a umiliarsi con scuse non richieste, pur di riaprire un dialogo costruttivo con il paese della Rivoluzione islamica. Ma Khatami tacque, non raccolse l’offerta di dialogo e parlò Khamenei, che la rigettò seccamente: “Un ammissione di colpa fatta anni dopo che il crimine è stato commesso non servirà a nulla alla nazione iraniana”. Le pessime reazioni che l’Amministrazione Bush ha avuto con gli ayatollah sono anche conseguenza di questo tentativo fallito, ma ciononostante, ancora oggi, in continuazione analisti, giornalisti e purtroppo anche leader politici europei continuano a proporre, come idea originale, vera e propria panacea per la crisi mediorientale, che l’Amministrazione Bush pronunci le stesse parole che furono ricacciate in gola con scherno all’Amministrazione Clinton. Di nuovo, si tratta della non comprensione del ruolo del tutto marginale che hanno in Iran i riformatori e della virulenza che continua ad avere la “spinta propulsiva” della rivoluzione khomeinista. Di nuovo, è il pieno fraintendimento del significato dell’elezione – ad opera del gruppo di ayatollah fondamentalisti vicini all’ayatollah Khamenei, a partire dall’ayatollah Jannati, suo suocero – di Mohammad Ahmadinejad a presidente della Repubblica. Per fare di nuovo un paragone, con i limiti di tutte le comparazioni, la formazione di un quadro che avesse visto, alla morte di Mao Tse-Tung, consolidarsi il potere della Banda dei quattro, alleata con i dirigenti più accesi delle Guardie rosse della rivoluzione culturale, con la sconfitta piena e totale di Deng Xiao Ping. Non si è verificato, dunque, un cambio della guardia nella leadership in questo nuovo scenario, ma piuttosto l’affiancamento del quadro rivoluzionario che ha diretto – anche eroicamente – il tentativo di esportare la rivoluzione in Iraq tra il 1982 e il 1988 al quadro rivoluzionario che diresse la rivoluzione del 1979. Il tutto, in una tradizione dell’islam storico in cui spesso i “mammalucchi”, la guardia pretoriana, i generali, si sono affiancati o anche sostituiti agli ulema, in una piena e totale continuità ideologica, politica e religiosa dello stato islamico. Il pasdaran Ahmadinejad ha quindi portato al governo i suoi commilitoni pasdaran e basiji e ha svolto e svolge in pieno il compito che la leadership rivoluzionaria gli ha assegnato: aprire la “terza fase” della rivoluzione khomeinista, che fa tesoro della sconfitta del 1988 e che si prepara a ritentare l’esportazione della rivoluzione non più basandosi sull’impeto delle immense ondate umane dei martiri, ma curandosi di fornire loro una adeguata copertura di tiro, politica e militare. Questa è la funzione dell’atomica iraniana, per questo l’Iran ha costruito una salda tela di alleanze regionali e internazionali (con la Siria, con Fidel Castro e i Non allineati, così come con il venezuelano Hugo Chávez), e cura quel consolidamento della sua potenza regionale che acceca i diplomatici di tutto il mondo che credono sia il suo fine, mentre è soltanto il mezzo per tutt’altri obiettivi. Il fine dell’Iran rivoluzionario è sempre la rivoluzione. Il fine della rivoluzione è quello di preparare l’Uomo nuovo, il trionfo della umma islamica e arrivare così trionfalmente al Giudizio universale. Tutto qui. Soltanto che Teheran ha imparato a impostare il problema con più intelligenza e preparazione e mentre tiene fermi i diplomatici di mezzo mondo con le trattative sul nucleare, lancia all’attacco Hezbollah e Hamas per iniziare a sfiancare Israele, per ricordare alla umma che la “distruzione dello stato degli ebrei” non è un obiettivo nazionalistico, ma il primo compito religioso dei rivoluzionari islamici. Si ripete dunque lo schema del 1982, ma con 25 anni in più di esperienza e per di più con il petrolio a 70 dollari al barile (nella fase Khatami era a 12-15), il che permette molti lussi e soprattutto un solido allargamento della propria base sociale di sostegno (le bonyad, le fondazioni, controllano il 40 per cento dell’economia iraniana e sono in grado di distribuire sotto forma di reddito, in poche settimane, i proventi di ogni contratto petrolifero). Chi si illude, come Timothy Garton Ash, ripreso ancora in questi giorni da Piero Fassino, che il “Partito di Dio”, in Libano come in Iran (ed è la stessa cosa, perché il suo leader Nasrallah altri non è che “il rappresentante in Libano dell’ayatollah Khamenei, Guida della Rivoluzione islamica), possa cessare di essere rivoluzionario e trasformarsi in un normale blocco politico-parlamentare, come ha fatto l’Ira e dovrebbe fare l’Eta, non si accorge, in perfetta buona fede, di seguire l’esatto, identico percorso di dottrina e di prassi seguito da Neville Chamberlain, convinto che quello di Hitler fosse soltanto un problema di nazionalismo, di “terra”, e che quindi consegnandogli i Sudeti e Praga l’ambizione nazista si sarebbe accontentata. Non fu così.
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