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Europa Rassegna Stampa
07.09.2006 Un bilancio a cinque anni dall'11 settembre
un editoriale di Antonio Polito

Testata: Europa
Data: 07 settembre 2006
Pagina: 1
Autore: Antonio Polito
Titolo: «11/9. Fu guerra, non va male, e non è finita»

Estromesso dalle pagine del quotidiano che ha fondato, Il RIFOMISTA, Antonio Polito scrive ora su EUROPA.
Condivisibile l'editoriale del 7 settembre 2006:


Circola un sentimento sconfortato nelle rievocazioni dell’11 settembre.
Cinque anni buttati, guerra perduta, terrorismo più forte, Occidente senza bussola. Se le profezie, come si dice, si autoavverano, se questo è lo stato d’animo dell’Occidente, allora si può davvero dire che la guerra è finita, e che non siamo noi i vincitori. Talvolta, insieme con la fine dell’unilateralismo americano, sembra che si celebri anche questo: più un 8 settembre che un 11 settembre.
A mio parere, tali analisi – non a caso sempre concentrate su Bush invece che su bin Laden – sottovalutano due fatti, anzi li trascurano, anzi li tacciono addirittura.
Il primo fatto è l’interpretazione autentica di che cosa sia stato l’attentato alle Due Torri. Ormai derubricato ad atto di terrorismo, oserei dire trivializzato.
Messo nel mazzo con miriadi di altri attentati più o meno sanguinosi, ma soprattutto più convenzionali, essi sì ascrivibili al genere, purtroppo immortale, del terrorismo. Quante volte in questi anni abbiamo sentito usare con superficialità l’espressione «un altro 11 settembre»? L’unicità e la qualità dell’evento, che ci era parsa allora così chiara, scolora nella routine di una minaccia né più né meno grande di quella portata nel passato dall’Ira o dall’Eta, o perfino dalle Brigate rosse.
Si perde così di vista il fatto storico: l’11settembre fu molto di più di un atto di terrorismo, fu un evento bellico.
L’attacco aereo da parte di una potenza, seppur non statuale, con proiezione globale, portato alla superpotenza globale.
Basterebbe una cinica contabilità delle vittime per convincersene: tremila morti in pochi minuti, l’equivalente di quanti uomini hanno perso gli americani in cinque anni di guerra in Iraq, tre volte tanto le vittime del mese di guerra che pure ha devastato il Libano.
Bisogna risalire alle grandi battaglie della storia tra eserciti in armi per trovare una tale capacità di distruzione e di morte istantanea. Se l’11 settembre fu un evento bellico, e non solo la più raffinata forma del solito terrorismo, ne consegue che da allora è cominciata davvero una guerra. Se invece no, allora il paradigma della guerra è sbagliato, e dunque tutto ciò che ha fatto l’Occidente per difendersi, sia ciò che ha fatto unito in Afghanistan, sia ciò che ha fatto diviso in Iraq, è la risposta sbagliata. È quello che pensano e dicono molti in Italia. Ovviamente, non concordo.
C’è poi una fetta anche più ampia di commentatori che limitano il giudizio negativo alla guerra dell’Iraq. Il ragionamento è questo: sì, con l’11 settembre è cominciata una guerra, ma noi l’abbiamo combattuta bene in Afghanistan e male in Iraq. Il bene e il male dipendono dall’unità o meno della risposta occidentale. Ma l’obiettivo della guerra non era fare l’unità dell’Occidente, bensì sconfiggere il terrorismo Da questo punto di vista non si capisce la distinzione tra le due guerre. Perché non solo in Iraq, ma neppure in Afghanistan dove pure si è stati tutti insieme, il terrrorismo è ancora vivo e vegeto, e combatte, e uccide. Se ne dovrebbe dunque dedurre che anche in Afghanistan, per quanto unito, l’Occidente è perdente. E infatti è quanto ne deducono coloro che nel parlamento italiano volevano ritirare i nostri soldati da Kabul e in ogni caso si oppongono a che siano utilizzati in operazioni belliche contro i talibani. D’altra pare i terroristi non sembrano fare molte differenze, come i nostri commentatori, tra le due guerre.
Quando hanno colpito a Madrid hanno esplicitamente accusato la Spagna di stare in Afghanistan con gli americani, non meno di quanto li abbiano accusati di stare in Iraq prima di Zapatero.
E qui veniamo al secondo fatto trascurato: la eccezionalità dell’11 settembre. Perché i critici della risposta occidentale sostengono che è stata la risposta occidentale a rafforzare il terrorismo, che infatti oggi sarebbe molto più forte di cinque anni fa. La causa cioè non sarebbero le Due Torri, ma la reazione, sproporzionata, alle Due Torri. Contesto anche questa analisi. Il terrorismo islamista non è mai stato così forte come l’11 settembre. Niente di così immane è stato mai fatto, e forse nemmeno tentato, dopo l’11 settembre. Se ne deve dedurre che il terrorismo è oggi più debole, non più forte. Forse più diffuso globalmente, ma non più forte. Se avessero potuto, l’avrebbero rifatto. Non l’hanno rifatto.
Quindi bisognerebbe rivalutare, almeno in parte, la risposta dell’Occidente. La coalizione globale contro il terrorismo ha funzionato molto più di quanto non si dica, almeno a livello di intelligence e di prevenzione. Vi collaborano attivamente stati che non era scontato che vi collaborassero: l’Arabia saudita, l’Egitto, la Giordania, il Pakistan. L’Europa collabora con gli Stati Uniti, e non mi spiego altrimenti perché il governo italiano ha confermato la sua fiducia ai vertici del Sismi. La rete di Al Qaeda è in difficoltà, alle strette, non ha più uno stato e un territorio in cui progettare, pianificare, organizzare la sua guerra indisturbata. Non ci sono più safe heavens.
La situazione potrebbe radicalmente cambiare solo se uno stato venisse inserito nella coalizione terrorista: se cioè il Pakistan atomico cadesse nelle mani dei fanatici delle madrasse, se l’Iran conquistasse il Libano via Hezbollah (cosa diventata molto più difficile dopo la risoluzione 1701 dell’Onu), o addirittura se l’Iran sciita, fattosi atomico, decidesse di prendere la guida del terrorismo anti-occidentale strappandola ai wahabiti sunniti di origine egiziana e saudita. E qui arriviamo al terzo punto: se è una guerra, se non è persa ma nemmeno vinta, come continuarla? Qui a mio parere c’è un’altra debolezza dell’analisi in Occidente, sia da parte di quelli che vorrebbero andare avanti alla Bush come se nulla fosse, sia da pare di quelli che dichiarano finita la strategia di Bush e vorrebbero sostituirla, come spesso si dice, con la «politica». Entrambi propugnano una risposta «occidentalista », con le armi o con la persuasione si propongono di offrire all’islam una occidentalizzazione che gli garantisca la modernizzazione.
Entrambi sottovalutano la potenza ideologica e l’intransigenza culturale del nemico: il quale, come ben scrive Finkelkraut nelle sue «lezioni», propone all’islam una «modernizzazione senza occidentalizzazione». È la prima volta che un soluzione del genere viene offerta sul mercato politico dell’islam. Tutti i tentativi precedenti di modernizzazione, dal Muftì di Baghdad filo-nazista, all’Egitto di Nasser diventato filo-sovietico, fino all’acquiescenza filo-americana della corte saudita, consistevano nell’imitazione di modelli occidentali.
Non c’è regime nel grande Medio Oriente, dalla caduta dell’impero ottomano in poi, che non sia fatto a immagine e somiglianza di una filosofia politica occidentale, con la notevole eccezione della teocrazia iraniana. Il fondamentalismo propone invece una modernizzazione senza occidentalizzazione, islamica, se così si può dire. È un tentativo di portata storica, che rende il nemico unico nel suo genere, ed estremamente pericoloso. Nessuna guerra contro un tale nemico può essere vinta senza una battaglia «per i cuori e per le menti» delle popolazioni musulmane. E quei cuori e quelle menti resteranno per secoli – è bene che ce lo diciamo – islamici.
Dovremmo dunque essere in grado di garantire a questi popoli che possono conquistare benessere e un qualche forma di libertà politica senza diventare necessariamente come gli occidentali. L’effetto della vetrina occidentale poteva funzionare contro il comunismo a Berlino Ovest, perché si rivolgeva a europei e cristiani che non avevano un’alternativa teocratica nella quale rifugiarsi.
Non funziona a Teheran.
La guerra al terrorismo, dunque, non è finita, non è persa, e bisogna continuare a combatterla per decenni ancora. Ma deve liberarsi di ogni sapore colonialista. Deve inculturarsi, come diceva a se stessa la Chiesa del Concilio, deve radicarsi nell’islam diventando un’opzione praticabile per un islamico. L’ultimo video di bin Laden chiedeva una cosa precisa agli americani: convertitevi, fatevi musulmani. Mettendo così in chiaro la portata integrale della posta in gioco, che non c‘entra niente con l’Iraq e nemmeno con la Palestina, ma presuppone la fine dell’Occidente come noi lo conosciamo. Proprio per questo noi non possiamo rispondere chiedendo l’equivalente ai musulmani: convertitevi all’Occidente.
L’America e l’Europa aspettano un leader che sappia intraprendere una tale guerra culturale.


Rubrica.lettere@europaquotidiano.it

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