In Medio Oriente la calma è apparente, i rischi della missione italiana alti un editoriale di Enzo Bettiza
Testata: La Stampa Data: 06 settembre 2006 Pagina: 1 Autore: Enzo Bettiza Titolo: «Pericoli d'incendio»
Da La STAMPA del 6 settembre 2006:
PACIFICATORI sotto le bandiere dell'Onu nel Libano, ma guerrieri sotto la bandiera della Nato in Afghanistan? Questa la paradossale e contraddittoria situazione in cui è venuto a trovarsi il governo italiano, dopo l'imprevista richiesta dei comandi atlantici di spostare soldati italiani dai dintorni di Kabul, dove svolgevano operazioni umanitarie e di ordine pubblico, per impegnarli in azioni di combattimento contro ribelli talebani. Frattanto anche nel Libano non sono soltanto rose e abbracci di popolo. Che quella libanese sia una tregua a rischio lo dimostra, in maniera visibile, il sanguinoso attentato a Sidone che ha colpito gravemente un alto funzionario dei servizi di Beirut, il colonnello Shahandra, uccidendo quattro uomini della sua guardia del corpo. Il colonnello era da tempo impegnato nelle indagini relative all'omicidio dell'ex premier libanese Rafik Hariri, omicidio che, secondo una commissione ad hoc dell'Onu, sarebbe stato ordito a Damasco nell'ambiente di potere vicino al presidente Bashar Assad. Ma, ammesso che siano davvero siriani i mandanti dell'imboscata ai danni dell'ingombrante funzionario libanese, quello che in tal caso dovrebbe sconcertare e allarmare di più è il tempismo con cui gli attentatori hanno voluto sincronizzare la loro azione con lo sbarco in Libano dei primi contingenti dell'Unifil per ora soprattutto italiani. Un segnale di rottura? Un avvertimento, non tanto traslato, per dire al mondo che la Siria non vede di buon occhio la grande spedizione di pace e mediazione organizzata sotto la bandiera dell'Onu in un Paese che essa considera come una prolunga del proprio territorio nazionale? Si sa che la Siria di Assad continua a svolgere ruoli multipli e intrecciati nella santabarbara del Medio Oriente. Nella regione è la Siria che ha in mano più d'una chiave. Protettrice incombente sui governanti di Beirut, fornitrice di armi e attrezzature logistiche ai guerriglieri Hezbollah, filtro della propaganda jihadista e dei sussidi iraniani alle milizie antisraeliane del Libano meridionale, ospite di agenzie di Hamas e di altre sette terroristiche, Damasco gioca tuttavia le sue partite con prudenza e su piani diversi. Mentre a Teheran lo scravattato presidente pasdaran alza la voce e gonfia i muscoli, tenendo Israele e l'Occidente sotto ricatto atomico, il gelido e occidentalizzante giovin signore di Damasco con una mano incita i terroristi ma porge, ogni tanto, l'altra agli europei e agli americani presentandosi come l'unico credibile mediatore regionale. Indubbiamente e comprensibilmente, in questo momento, tutti i riflettori sono puntati sulla fragile tregua libanese che vede i caschi blu italiani, rafforzati con un certo risparmio da quelli francesi, insediarsi a fianco di qualche contingente libanese nel cuore delle zone popolate tuttora da milizie non disarmate di Hezbollah. Alla forte visibilità strategica dell'incognita libanese si aggiunge quella del negoziato degli occidentali con l'Iran, sospeso tra lo scatto a breve termine delle sanzioni e la minaccia a termine medio dell'atomica sciita. Libano, Siria e Iran, collegati per tanti fili tra loro, sembrano così dominare il proscenio di un Medio Oriente che intanto seguita a bruciare o incancrenirsi o pietrificarsi altrove: aria di stallo a tempo indeterminato tra palestinesi e israeliani i quali hanno deciso di rinviare il ritiro dalla Cisgiordania; guerriglia civile di tipo terroristico tra sunniti e sciiti in Iraq; insorgenza di signori della guerra e del papavero nelle province profonde dell'Afghanistan, dove la coltivazione dell'oppio, favorita anche dai talebani in armi che i militari italiani dovrebbero affrontare, copre ormai 165 mila ettari di terreno. Spicca, nell'instabilità del quadro generale, la crisi interna e la solitudine di Israele. Dopo la guerra del Libano, né perduta né vinta, gli israeliani, per la prima volta dopo il 1948, fanno un conto duro quanto allarmato col proprio stato di vulnerabilità al cospetto dei nemici jihadisti che lo circondano e dei negoziatori europei che non gli offrono sufficienti garanzie di sicurezza e quindi di sopravvivenza. Uno dei problemi più urgenti, se non dei maggiori, per la sicurezza dello Stato ebraico, è in questo momento il disarmo di Hezbollah; ma si tratta di un disarmo che dovrebbe essere fatto da chi? Dalle mani semilegate dei caschi blu dell'Unifil? Dalle mani deboli o addirittura indulgenti dei soldati regolari libanesi? Intanto Francia, Italia e Germania hanno decretato una sorta di semimbargo nei confronti di Gerusalemme, negando ai cargo israeliani che trasportano armi di rifornirsi di carburante sui loro territori. Questa solitudine politica e strategica ebraica, aggravata dal possibile riarmo di Hezbollah tramite canali siriani, potrebbe alla fine costringere Israele a lanciare un'azione di guerra preventiva contro la Siria. E' stato lo stesso premier Ehud Olmert ad ammonire che, se in futuro ci dovesse essere guerra con Damasco, Israele userebbe una potenza di fuoco maggiore di quella usata in Libano. Certo, si tratta di uno scenario estremo. Ma niente è mai da escludere in una regione bollente come il Medio Oriente. La sorpresa dell'impossibile dovrebbe quindi essere tenuta presente anche da quei governi e quegli stati maggiori che stanno inviando i loro soldati in una zona di gomma che, da un momento all'altro, potrebbe trasformarsi in una plaga d'incendio.
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