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La Stampa Rassegna Stampa
05.09.2006 La missione in Libano, una giovane tennista israeliana che gioca nel mondo arabo, un'immotivato rifiuto dell'Italia
rassegna di articoli

Testata: La Stampa
Data: 05 settembre 2006
Pagina: 9
Autore: Giovanni Cerruti - Stefano Semeraro - la redazione
Titolo: «Il comandante francese «Gli israeliani stanno ritirandosi dal Libano» - «Prendete la racchetta, posate il fucile» - L’Europa blocca i carichi d’armi destinati a Tsahal»

Nella corrispondenza da Tiro pubblicata dalla STAMPA  del 5 settembre 2006.  la capitale di Israele viene spostata da Gerusalemme a Tel Aviv.
Forse giornali e televisioni dovrebbero organizzare corsi di geografia per i loro "inviati"...

Ecco il testo:


«E mettetevi la giacca!», urla un ufficiale dei Marò. Infilare la giacca, e pure il basco blu, perché questo elicottero bianco che s'avvicina a Jebel Marun scaricherà Alain Pellegrinì, il generale francese che comanda la missione. E' la prima visita, il primo incontro. Alle tre e mezzo del pomeriggio, dopo una mattina passata nella base di Naquora a trattare con le delegazioni separate di militari israeliani e libanesi, Monsieur le General vola sulla collina per salutare i nuovi arrivati e portare qualche notizia. La prima dice che qualcosa si muove, ad esempio i soldati di Tel Aviv che stanno abbandonando il Libano.
Di origini corse, alto non tanto più di Napoleone, occhi azzurri che fissano dalle lenti, un braccialetto d'argento con inciso il nome, un anellone d'oro, il portatelefonino agganciato al cinturone, il generale Pellegrinì riferisce che «in giornata l'esercito di Israele ha lasciato due nuove zone, e entro la fine della settimana ne riconsegnerà altre tre all'Armée libanese. E' di buon umore, il piccolo generale dagli scarponcini che luccicano. Dice d'aver grande stima dei soldati italiani, della loro professionalità, e nello stesso momento il caso vuole che gli passi accanto, inquadrato e di corsa, un plotone di Marò.
Nel piazzale della Base, mentre il generale racconta, si sente in lontananza il rombo di un aereo. Le orecchie esperte catturano il rumore di un F16 israeliano, il cielo del Libano continua ad essere controllato e chiuso dalla loro aviazione. Un passo alla volta, fa capire il generale. L'importante è che via terra i soldati se ne stiano andando. E' quanto previsto dalla risoluzione dell'Onu, e se vale la legge dei passi questo è il primo. Il secondo il «dispiegamento dell'esercito libanese». Il terzo, e qui verrà il difficile, il disarmo da parte libanese delle formazioni paramilitari collegate a Hezbollah.
Riuniti gli ufficiali italiani per le presentazioni, ecco un'altra novità dal generale francese. Quando l'arrivo delle truppe italiane sarà completato, quando sarà pronta la base definitiva a Maarake, a metà strada tra questa collina e Tiro, il territorio da controllare sarà inferiore a quello previsto. Non più un rettangolo di 15 chilometri per 20, ma un quadrato perfetto di 15 per 15. La costa, con Tiro in mezzo, e l'interno dal fiume Litani a Sud. A parte le dimensioni non è che cambi poi molto, sempre zona di Hezbollah resta. E qui, come dice Pellegrinì, «che verranno applicate nuove regole. Più robuste di prima».
Nella base italiana c'è l'«allerta giallo», quello che precede il nero. L'attività, è ancora tutta all'interno. Al massimo 400 metri di strada per andare da questa base affidata agli indiani fino all'altra, quella dove ci sono i mezzi pesanti, affidata ai ghanesi. «Abbiamo l'obbligo di girare con giubbetto ed elmetto al seguito», spiega il capitano dei Lagunari Umberto Bussolini. Oggi verrà stampato e consegnato il manuale di comportamento, il come regolarsi con i libanesi, giusto per sapere che le dita chiuse verso l'alto non vogliono dire «che cavolo vuoi», ma «aspetta un attimo».
Il colonnello Emilio Mottolese, il vicecomandante italiano, ha spiegato alla truppa che «ognuno di voi è un ambasciatore italiano presso la popolazione». Tra una settimana, quando con discrezione cominceranno le prime uscite di pattuglia, accompagnati da indiani e ghanesi della missione Onu e di libanesi, il primo impatto sarà con i villaggi attorno alla collina, Gandurja e Srifa. Dove l'aviazione israeliana ha colpito durissimo, dove i libanesi stavano, e chi non ci stava ci sta adesso, con Hezbollah. «Ma noi siamo preparati a tutto», risponde il maggiore Maurizio Lucchini, un veterano di Nassiriya.
A Srifa i caterpillar hanno finito la demolizione delle case bombardate. La piazza si è rialzata di cinque metri di macerie e le donne sfilano in silenzio. Quasi tutte hanno la hijab nera, coperte dalla testa in giù, e s'intravedono anche scarpe con il tacco alto. Gli uomini aspettato accanto ai chioschi dei melograni da spremere, spiegano che Hezbollah ha provveduto a ricompensare chi non ha più la casa con un finanziamento pari ad un anno di lavoro. Si vedono molti albini. «Questo è il villaggio dove ce n'è più che in tutto il Libano - spiegano -. E noi diciamo che è Israele che ci fa venire i capelli bianchi».
Nei villaggi comincia a mancare la benzina, i trattori si fermano. Da Tiro a qui, 20 chilometri di strada, non c'è un distributore che sia rimasto intatto. «Non dimentichiamo che noi siamo qui per aiutare la popolazione», dice il capitano Bussolini. Anche rimettendo in funzione i distributori della catena «Daou». O mettendo a disposizione l'ospedale da campo, che il caporalmaggiore Dora Stragapede assicura in funzione già da oggi. Si muovono, i soldati italiani, come se fossero qui da un pezzo. «L'unica differenza con le altre missioni è che qui c'è qualche montagna in più», dice il sergente Lucchini.
Un'ora di visita, il saluto al comandante italiano Claudio Confessore, e l'elicottero del generale Pellegrinì riparte per la Base di Naquoura. «Con voi - saluta - mi sento più forte». Nella riunione gli italiani hanno comunicato il nome del nuovo campo di Maarake. Si chiamerà «Base Montesi», come il marò morto in Libano nell'82. Gli sminatori cinesi stanno terminando la bonifica, entro due settimane gli italiani dovranno lasciare Marun per far posto a francesi e spagnoli. Anche Maarake è in cima ad una collina, isolata, protetta. Da lassù non si vedono disastri, solo campi di tabacco. E il mare.

Di seguito, un interessante articolo su una giovane tennista israeliana:

NEW YORK
Shahar Peer ha 19 anni, occhi azzurri, capelli biondi, e sa che avversari e nemici sono due cose diverse. Shahar è la miglior tennista israeliana, n.21 del mondo, e fino a ieri, quando sul centrale degli Us Open, uno dei quattro grandi tornei del circuito, ha perso contro la fortissima belga Justine Henin, le sue partite erano affollatissime di tifosi avvolti nella bandiera con la stella di Davide. Nata a Gerusalemme, cresciuta a Maccabin, l’anno scorso ha servito nell’esercito. Suo fratello e sua sorella in passato hanno assaggiato il fronte. Per lei solo lavoro d’ufficio, e meno impegnativo di quello della sua collega Obziler, che stenografava documenti top-secret. «Però ho scoperto di essere brava con la pistola e con l’M-16: la quarta della mia classe».
La guerra non le piace e non lo nasconde: «Mio cugino è stato impegnato in Libano, ben oltre il fronte. Adesso le cose per fortuna si sono calmate, sono molto felice della tregua». Di politica parla con circospezione: «Ogni cosa che dico viene ingigantita, quindi non voglio fare commenti su come agisce il mio governo. Però a chi piace la guerra? A nessuno. So bene che ci sono dei contrasti con i palestinesi, ma io non mi considero in guerra con loro. Credo di poter contribuire alla pace anche servendo il mio Paese. A volte mi sento in colpa perché i miei amici rischiano la vita, mentre io sono in giro per tornei. Con le mie vittorie spero di poter dare un po’ di gioia alla mia gente, che di motivi per sorridere ora ne ha davvero pochi».
Shahar non parla di politica, ma la fa. Con le alleanze. Con i viaggi. Uno dei tre tornei che ha vinto quest’anno è quello di Istanbul, in futuro le piacerebbe poter giocare a Dubai: «Finchè sono nell'esercito non se ne parla, e poi mia madre è preoccupatissima per la mia sicurezza. Ma è un bel torneo, ben organizzato, fra un paio di anni forse potrò parteciparvi anch’io». Come coach ha voluto un israeliano, non sogna affatto di trasferirsi negli States come molte sue coetanee e colleghe. In doppio però, fino a quando l’anno scorso alcuni gruppi di integralisti hanno inziato a protestare minacciosamente, Shahar ha giocato a fianco di Sania Mirza, l’indiana che per le sue mise troppo moderne e le sue idee troppo aperte ha rischiato una fatwa, e con la marocchina Bahia Mouthassine. Due musulmane.
Una scelta politica? «Noi cercavamo solo di vincere più partite possibile, e spero che potremo giocare di nuovo insieme. Confondere sport e politica non va bene. Invece è molto bello quando culture diverse convivono pacificamente». Anche su un campo da tennis.

Un trafiletto su un immotivato divieto opposto dall'Italia ai carghi israeliani che trasportano armi acquistate del tutto legalmente e necessarie per la difesa del paese :

I voli cargo della compagnia israeliana El Al con a bordo carichi di armi e rifornimenti destinati a Tsahal non sono autorizzati a effettuare tappe di rifornimento in Europa: lo afferma il presidente del sindacato dei piloti di El Al, Etai Regev. In una lettera inviata al premier Ehud Olmert e ai ministeri della difesa, delle finanze e del turismo Regev ha detto, secondo Haaretz, che «anche paesi ritenuti amici di Israele fra cui il Regno Unito, la Germania e l’Italia» non autorizzano soste sul loro territorio dei cargo israeliani con carichi militari, per lo più provenienti dagli Usa. «La conseguenza è che gli aerei cargo decollano dagli Usa con carichi più leggeri, e arrivano in Israele con meno rifornimenti del necessario» ha scritto Regev. Il presidente dei piloti di El Al ha anche criticato nella lettera l’accordo raggiunto fra la pubblica amministrazione israeliana e la compagnia italiana Alitalia per il trasporto all’estero in condizioni preferenziali dei funzionari dello Stato ebraico.

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