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La Stampa Rassegna Stampa
04.09.2006 Il punto sulla guerra tra l'Occidente e il fronte jihadista
che a cinque anni dall'11 settembre non ha ancora un vincitore

Testata: La Stampa
Data: 04 settembre 2006
Pagina: 21
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Due conflitti migliaia di morti e non c’è ancora una soluzione»

Da La STAMPA del 4 settembre 2006:

Quando il presidente George W. Bush iniziò la guerra al terrorismo in risposta agli attacchi di Al Qaeda dell'11 settembre 2001 si trattava di un conflitto con contorni molto imprecisi: non era ben chiaro chi erano gli avversari, come e dove si sarebbe dovuto combattere, quanto a lungo sarebbe durata e quale avrebbe potuto essere la definizione di vittoria. Cinque anni dopo, la guerra ha contorni più definiti: il nemico è costituito da una miriade di cellule islamiche che in cinque continenti si richiamano all'ideologia jihadista di Osama bin Laden e Ayman al-Zawahiri fondata sull'odio contro la modernità e l'Occidente, l'America combatte con coalizioni diverse di alleati tanto sul fronte militare (in Afghanistan ed in Iraq) che su quello d'intelligence (dall'Europa all'Africa, all'Estremo Oriente), il conflitto viene descritto tanto dal Pentagono quanto dalle cellule jihadiste come una «guerra lunga» perché la definizione di vittoria si presenta per entrambi lontana nel tempo: Bush punta all'affermazione dei principi di libertà e democrazia nel mondo dell'Islam mentre i jihadisti vogliono il rovesciamento di regimi arabi che ritengono corrotti, la fine dell'influenza occidentale nel mondo musulmano e la distruzione dello Stato di Israele.
Si tratta di uno scontro ideologico fra sostenitori della democrazia e fautori della Jihad che si consuma su un terreno di battaglia globale: i taleban afghani ed i jihadisti iracheni combattono su singoli scacchieri contro truppe americane sostenute da alleati europei, asiatici ed arabi; gli Hezbollah libanesi ed i fondamentalisi palestinesi di Hamas tengono impegnata Israele su due fronti militari; le cellule terroristiche hanno compiuto attentati negli ultimi cinque anni a Gerba, Karachi, Bali, Mombasa, Riad, Gerusalemme, Tel Aviv, Casablanca, Jakarta, Istanbul, Khobar, Gedda, Madrid, Londra e Amman; nel Vecchio Continente ed in Nordamerica è in atto una dura guerra di intelligence per evitare che gruppi terroristi annidati nelle comunità di immigrati musulmani riescano ad emulare le azioni dei kamikaze dell'11 settembre.
Se questo è lo scenario del conflitto militare ed ideologico fra l'America ed i jihadisti - definiti da George W. Bush «islamo-fascisti» - entrambi i contendenti hanno sommato finora vittorie e sconfitte.
Gli Stati Uniti sono riusciti sul piano militare a smantellare i campi di Al Qaeda in Afghanistan ed rovesciare i regimi tanto dei taleban che di Saddam Hussein (considerato un alleato dei gruppi terroristi), hanno creato una vasta coalizione di intelligence che ha impedito il ripetersi di attacchi contro il loro territoro nazionale e, sul fronte diplomatico, hanno costruito all'Onu negli ultimi 24 mesi un'alleanza multilaterale con Europa e Russia che grazie a tre risoluzioni - 1559, 1696 e 1701 - ha messo sotto pressione Siria e Iran, i due Stati più accusati di sostenere i jihadisti: prima obbligando Damasco a ritirarsi dal Libano, poi chiedendo a Teheran di rinunciare al nucleare e quindi smantellando, anche grazie al rafforzamento dei caschi blu dell'Unifil, l'apparato di potere militare degli Hezbollah nel Sud Libano.
Tuttavia la galassia jihadista non solo sopravvissuta a queste sconfitte militari e politiche ma si è anche dimostrata in grado di tenere impegnati su più fronti l'America ed i suoi alleati: i taleban nel sud dell'Afghanistan stanno obbligando i soldati britannici ai combattimenti più duri dalla guerra in Corea.
In Iraq l'offensiva di attentati contro i civili minaccia di scatenare una guerra civile fra sunniti e sciiti che neanche la presenza di 138 mila soldati Usa sembra poter del tutto scongiurare; le cellule jihadiste si moltiplicano dall'Europa all'Estremo Oriente indipendentemente dagli arresti e da legami strutturali con ciò che resta della vecchia Al Qaeda; in Somalia, Darfur sudanese, Sinai egiziano e Striscia di Gaza i fondamentalisti hanno trovato nuove zone dove insediarsi e rafforzarsi.
A cinque anni dall'inizio della guerra nessuno può dirsi ancora vincitore né vinto mentre l'interrogativo sull'immediato futuro riguarda la possibilità che il fronte jihadista riesca ad arruolare uno Stato nelle proprie fila, come avveniva con l'Afghanistan del mullah Omar. Ciò potrebbe verificarsi se gli islamici riuscissero a rovesciare il presidente Pervez Musharraf in Pakistan (che possiede l'arma atomica), Hosni Mubarak in Egitto (il più popoloso Paese arabo) o re Abdallah in Arabia Saudita (assumendo il controllo dei pozzi) ma anche nel caso in cui la sfida nucleare dell'Iran alle Nazioni Unite dovesse portare il presidente Ahmadinejad a diventare il leader politico del popolo della Jihad.

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