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La Repubblica Rassegna Stampa
03.09.2006 Ma il dialogo è sempre la scelta più razionale?
una domanda che il conformismo politicamente corretto rifiuta di prendere in considerazione

Testata: La Repubblica
Data: 03 settembre 2006
Pagina: 1
Autore: Andrea Bonanni - Bernardo Valli
Titolo: «E l´Europa ora cerca il dialogo con Hamas - Il fantasma iraniano che si aggira in Israele»
L'Unione europea, come è noto, ha posto ad Hamas tre condizioni ( riconoscimento di Israele , rinuncia alla violenza, rispetto degli accordi di Oslo) per avviare un dialogo con il governo  presieduto da un esponente del gruppo terroristico.
Hamas le ha rifiutate tutte, il che sembrerebbe chiudere la questione.
Ma non è così: per i creativi della diplomazia di Bruxelles, e per i giornalisti di REPUBBLICA  ,  nessuna situazione è tale da precludere ogni possibilità al "dialogo".
Così, spiega Andrea Bonanni in un editoriale del 2 settembre 2006,  per l'Unione europea, se Hamas entra in un governo di coalizione con Al Fatah (che dal canto suo non ha mai rinunciato al terrorismo, nè in modo univoco all'obiettivo di distruggere Israele, nè ha mai rispettato, di fatto, gli accordi di Oslo)
automaticamente assolve a tutte le condizioni poste dall'Ue.
Chiaramente, un mero pretesto per giustificare la volontà di riconoscere comunque gli islamisti palestinesi come interlocutori
Ecco il testo:

FORTE della capacità di iniziativa dimostrata in Libano, l´Europa getta il proprio peso anche sul fronte del conflitto israelo-palestinese. E prepara una svolta che potrebbe portare a stabilire rapporti con Hamas, rafforzare in modo decisivo la posizione del presidente palestinese Abu Mazen, ricondurre la Siria nel gioco diplomatico e schiudere la via per un nuovo negoziato di pace con Israele.
Come sempre accade negli affari europei, anche in questo caso le grandi novità sono espresse con piccoli, quasi impercettibili mutamenti di accento.
Ma le conseguenze di queste prudentissime evoluzioni possono essere di portata storica.
Non è un caso che il nuovo clima che si respira tra i Venticinque sulla questione mediorientale abbia preso forma ieri nel corso del consiglio informale dei ministri degli Esteri, riuniti in una cittadina finlandese poco lontana dal confine con la Russia. È proprio in queste occasioni, infatti, quando non si devono prendere decisioni esecutive e le discussioni sono più libere, che maturano le svolte strategicamente più significative.
E la svolta su cui il responsabile della politica estera europea Javier Solana è riuscito a coagulare l´unanimità dei consensi consiste nell´annuncio che l´Unione è pronta a stabilire rapporti politici con un governo di unità nazionale palestinese che riunisca gli esponenti di Hamas e quelli di Fatah fedeli al presidente Abu Mazen.
È da gennaio scorso, quando i radicali di Hamas hanno vinto le elezioni, che l´Europa rifiuta di avere rapporti con il governo palestinese. Una posizione condivisa con gli Stati Uniti e naturalmente con Israele. La condizione che la comunità internazionale pone per il ristabilimento del dialogo è che Hamas riconosca lo stato di Israele, che cessi le azioni violente e che rispetti gli accordi precedentemente sottoscritti dall´Autorità palestinese. Nessuno di questi punti, secondo l´Ue, è finora stato rispettato.
E dunque l´attività diplomatica per risolvere la crisi è rimasta congelata, mentre il conflitto con Israele è andato sempre più aggravandosi e le condizioni di vita a Gaza e in Cisgiordania sono ormai divenute «intollerabili», come ha detto ieri il ministro degli Esteri D´Alema.
Apparentemente la disponibilità dimostrata ieri ad aprire il dialogo con un nuovo governo palestinese di unità nazionale non modifica sostanzialmente la posizione degli europei. La piattaforma negoziale sulla base della quale il presidente Abu Mazen sta cercando di creare una coalizione con Hamas prevede infatti che tutte e tre le condizioni dettate dalla comunità internazionale vengano soddisfatte.
In realtà il cambio di enfasi ha conseguenze cruciali e di vasta portata. Un conto infatti è chiedere ad Hamas di rinnegare pubblicamente e apertamente tutti i principi in base ai quali ha vinto le elezioni: cosa che il movimento radicale non vuole e non può fare. Un altro è considerare che questa evoluzione sia di per sé compiuta con la creazione di un governo di coalizione con Fatah che dia mandato ad Abu Mazen di negoziare con Israele. Il primo obiettivo si è dimostrato irrealizzabile. Il secondo, in base ai contatti che la diplomazia europea ha avuto con il presidente palestinese, con la Siria e con Israele, appare invece una possibilità concreta. «Non vedo come si possa partecipare ad un governo di unità nazionale con Fatah, che riconosce Israele, senza riconoscere Israele», è il sillogismo utilizzato dal ministro degli Esteri francese Philippe Douste-Blazy.
L´altra conseguenza importante di questa nuova posizione è un sostanziale rafforzamento del ruolo di Abu Mazen. Di fatto, spostando l´accento sulla creazione del nuovo governo di coalizione, l´Unione europea conferisce al presidente palestinese il mandato per decidere se e come Hamas ottemperi alle condizioni che gli sono state imposte. Si tratta, evidentemente, di questioni che presentano ampie «zone grigie». Per alcuni europei, per esempio, la dichiarazione congiunta tra il premier palestinese Haniyeh e il presidente Abu Mazen che chiede il rispetto dei confini del ´67, costituisce un implicito riconoscimento dello stato di Israele. Ma altri Paesi europei, come la Gran Bretagna, finora avevano giudicato queste posizioni insufficienti. Il ruolo di arbitro che ora viene implicitamente riconosciuto al successore di Arafat elimina questo tipo di battaglie semantiche e permette agli europei di ritrovare l´unità. Inoltre rafforza enormemente le capacità negoziali di Abu Mazen nei confronti dei suoi interlocutori più radicali.
La terza conseguenza dell´evoluzione europea è il riconoscimento implicito del ruolo che la Siria gioca non solo in Libano ma anche in Palestina. Di fronte al negoziato per creare un governo di unità nazionale, Hamas risulta infatti diviso anche al proprio interno. Una parte, che fa capo al primo ministro Aniyeh, appare più disponibile. La frangia più radicale, quella che ha cercato di far saltare il banco con il sequestro del caporale israeliano Shalit, è contraria. E, come ha ricordato ieri D´Alema, l´ala dura del movimento palestinese «ha il suo quartier generale a Damasco».
Da qui la necessità di aprire un dialogo con la Siria. Al leader siriano Assad viene offerta la possibilità di decidere se cooperare con la comunità internazionale per arrivare ad una soluzione della crisi in Libano e in Palestina oppure se sanzionare in modo definitivo il proprio isolamento assumendosene tutte le responsabilità.
Sulla necessità di ristabilire il dialogo con Damasco, la Francia nutre ancora qualche perplessità. Chirac era un amico personale del premier libanese Hariri ucciso da un complotto ordito dai servizi siriani. E il presidente francese non è uomo che perdoni facilmente. Tuttavia, a poco a poco, anche su questo punto le resistenze francesi stanno venendo meno. Come si sono ammorbidite le posizioni britanniche pregiudizialmente ostili ad Hamas. Un risultato che si può in larga misura ricondurre al nuovo ruolo che il governo italiano, con Prodi e D´Alema, sta svolgendo non solo in Medio Oriente ma anche e prima di tutto in seno al club europeo.
Iran, Siria, Palestina: uno dopo l´altro, l´Europa sta ammorbidendo i muri che erano stati eretti dall´unilateralismo dell´amministrazione neocon americana. Come ha ricordato ieri Massimo D´Alema, il nuovo approccio multilaterale «made in Europe» sta facendo le sue prove. Che poi riesca a superarle, è ancora un´altra storia.

Bernardo Valli firma un reportage da Israele, che riportiamo :

METTONO le mani avanti i clienti del piccolo ristorante aggrappato alle vecchie mura, nei pressi della Porta di Damasco. Non chiederci chi ha vinto, mi dicono quasi in coro, perché non lo sappiamo. Sono cauti. Non vogliono pronunciarsi. Ma in che condizioni uscite voi palestinesi da questa guerra? Riassumo la reazione anch´essa unanime: come al solito siamo malconci. La risposta desolata suona tuttavia esitante. Non definitiva. Quindi non mi rassegno. Insisto. Vengo in questo caffè da anni, puntuale, ad ogni crisi, intifada o guerra, o altro dramma mediorientale, tanto da sentirmi, se non proprio un uccello del malaugurio, perlomeno simile a uno di quei falchetti che compaiono, volando sempre più bassi, quando vedono che al suolo c´è qualcosa da afferrare e portar via. Ma i frequentatori del piccolo ristorante della Porta di Damasco non mi vedono cosi. I cronisti sono di casa. Quando le emozioni sono forti, e i turisti scompaiono o si diradano, arriviamo noi.
E non è difficile spezzare la diffidenza del primo approccio. I clienti cambiano, invecchiano o muoiono, ma dopo un po´ c´è sempre qualcuno che ti riconosce, o dice di riconoscerti, anche se non ti ricordi lui. Dunque insisto con le domande: è andata male sul serio anche questa volta per voi palestinesi? Sì, rispondono, però. Però? «La prossima guerra sarà con l´Iran». Non chiedo: quando? Sarebbe troppo.
L´Iran affiora spesso. Sia con i palestinesi, in queste ore appena usciti dalle moschee, dopo le preghiere del venerdì, sia con gli israeliani nelle stesse ore sul punto di cominciare il riposo del sabato. Non so fino a che punto la parola Iran suoni per gli uni come una vaga speranza, e per gli altri come l´annuncio di una minaccia concreta ormai disegnata nel tempo a venire. Per entrambi è senz´altro come se fosse entrata nel destino comune. C´è il primo cerchio, come si dice qui, in cui ci sono i nemici o gli amici più vicini. In esso sono compresi Hezbollah e la Siria. Poi c´è il secondo cerchio, adesso dominato dall´Iran. Il quale ha cambiato il panorama politico. Prigionieri di tante frustrazioni e di altrettanti desideri i rivincita, i semplici palestinesi della Porta di Damasco fanno capire, dopo molte esitazioni, quasi sottovoce, che per loro quello libanese è stato il preludio a un altro più o meno remoto conflitto tra Israele e la Repubblica islamica fondata da Khomeini. Di cui gli hezbollah sono stati e sono le avanguardie. La notizia che a Teheran il presidente Mahmud Ahmanidejad ha sfidato l´Occidente rifiutando di rinunciare a una tecnologia nucleare (che potrebbe dotare l´Iran di armi atomiche) ha confermato che la partita non si è conclusa in Libano.
Non vorrei dare l´impressione di una società israeliana dominata dall´angoscia. In apparenza non è cosi. I diciassette giorni trascorsi dal cessate-il-fuoco del 15 agosto non sono stati certo sufficienti per rimarginare le ferite e riassorbire le emozioni, ma l´immagine è quella di un paese che ha ripreso le sue attività normali con il dinamismo e l´efficienza che gli sono propri. Nonostante le roventi polemiche sulla conduzione della guerra, e gli scandali denunciati dai giornali (che investono la vita privata dei massimi dirigenti, dal Capo dello Stato al Primo ministro), le istituzioni confermano la solidità dimostrata in crisi altrettanto gravi. Al suo interno la democrazia israeliana funziona con l´esuberanza ed anche la durezza tradizionali, Ma la sicurezza, l´altro pilastro insieme alla democrazia dello Stato ebraico, risulta sia pure in superficie, vale a dire in prospettiva, come «scheggiata», secondo l´espressione di un vecchio amico (sabra) di Gerusalemme.
A scalfire la sicurezza, coltivata come un dogma perenne, è l´idea di un Iran sempre più protagonista sulla scena mediorientale, non più un avversario tanto indiretto, relegato nel secondo cerchio dei nemici di Israele, ma presente ai confini con le sue inafferrabili avanguardie. Nei trentaquattro giorni di guerra la pioggia di katyusha sulla Galilea ha infranto l´invulnerabilità del territorio, senza mettere minimamente in pericolo l´esistenza di Israele. A rendere sinistri quei missili era soprattutto la loro provenienza. Il fatto che fossero stati forniti o pagati dall´Iran.
Le voci in favore di un più fermo atteggiamento occidentale nei confronti dell´Iran si moltiplicano. La convinzione che gli stessi Stati Uniti, troppo occupati in Iraq, abbiano rinunciato a un´autentica linea dura, crea insoddisfazione nei partiti di destra, e tra gli stessi moderati al governo. Non mancano i militari convinti che un giorno Israele «dovrà agire da solo». Un´idea definita « folle» da molti altri. L´ex capo di stato maggiore, il generale (adesso della riserva) Moshe Ya´alon, invita la comunità internazionale a svegliarsi e ad abbandonare la sua moderazione: essa deve far pagare alla Siria e all´Iran la guerra del Libano. Moshe Ya´alon è uno degli esponenti del Likud più favoriti nei sondaggi, e potrebbe avere un ruolo di rilievo nel caso la destra andasse al governo. Stando al Jerusalem Post potrebbe essere il primo ministro.
C´è anche chi sdrammatizza, come Danny Rubinstein, uno dei migliori esperti israeliani di problemi arabi. Rubinstein parte dalle parole pronunciate da Hassan Nasrallah domenica scorsa alla televisione libanese, per sostenere che Hezbollah e quindi l´Iran è molto meno sicuro di avere vinto la guerra e quindi meno aggressivo di quanto si pensi. Il capo hezbollah ha fatto, come noto, un´autocritica, ha detto ai libanesi che se avesse immaginato le conseguenze il 12 luglio non avrebbe ordinato l´incursione in territorio israeliano, durante la quale sono stati catturati due soldati (e uccisi altri otto). Non si aspettava la reazione di Tsahal e ha confessato di rimpiangere quel che ha fatto. Nasrallah non poteva permettersi quel mea culpa senza l´autorizzazione di Teheran. E con quel mea culpa egli ha in sostanza riconosciuto di non avere vinto la guerra.
Non ci si rammarica di avere ottenuto una vittoria. L´astuto hezbollah voleva farsi perdonare dai libanesi di avere provocato la distruzione del paese? I giornali arabi, in particolare palestinesi, l´hanno negato: hanno definito l´autocritica autentica e come tale una prova del coraggio morale e della credibilità di Nasrallah.
L´esercito israeliano ha scoperto nella zona che ancora occupa nel Libano meridionale una vera città sotterranea, estesa su due chilometri quadrati, interamente foderata di cemento armato, con sofisticati apparecchi di comunicazione e attrezzature in grado di garantire non solo un rifugio, ma anche di consentire una vera attività militare.
Compreso il lancio di missili. E´ evidente che si tratta di una città sotterranea pagata e costruita dagli iraniani. I quali non devono essere stati troppo contenti di perdere quel bastione destinato a imprese più politicamente e militarmente redditizie.
Domenica scorsa Nasrallah avrebbe espresso il rimpianto di Teheran. Si chiede Rubinstein se il rapimento di due soldati, da scambiare con una manciata di libanesi, valeva tutte quelle distruzioni. E aggiunge che forse sono stati gli stessi iraniani a impedire a Nasrallah di lanciare i missili Zeizal, a lungo raggio, che avrebbero potuto raggiungere Tel Aviv. La tesi di Danny Rubinstein presenta numerose falle. Eccede per l´ottimismo. Ma rivela che in Israele c´è anche chi vuole vincere l´angoscia provocata dall´Iran con la ragione. Con delle trattative E non soltanto covando l´idea che il solo rimedio, la sola medicina, sia la forza.

Questa conclusione si basa sull'assunto che "ragione" e "forza" siano sempre opposti inconciliabili.
Ma quando ci si trova di fronte a un avversario deciso a distruggerci, motivato da un'ideologia religiosa  e apocalittica che non può essere scalfita da ragioni secolari, a essere irrazionale può essere proprio la determinazione ad astenersi comunque dall'uso della forza.

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