Dal FOGLIO del 2 settembre 2006, un narticolo di Tatiana Boutorline:
L’effetto domino è riuscito, ma non nella direzione auspicata. Il contagio democratico ha dovuto cedere il passo. In Iraq il genio sciita è uscito dalla lampada e l’unica alternativa convincente all’instabilità e al conflitto permanente è la pax iranica dalle calde acque del Golfo persico alle steppe del Caucaso. Dimenticate dunque i furori di Mahmoud Ahmadinejad: con Teheran bisogna scendere a patti. Per vincere, rassegnarsi a cedere. Perché, sul nucleare, la nostra fermezza al Consiglio di sicurezza è soltanto una facciata e se le sanzioni a Mosca come a Pechino suscitano veti, assai più virulenta sarebbe la reazione dinnanzi a un’ipotesi più muscolare. A est (Afghanistan) e a ovest (Iraq) Washington ha liberato l’Iran dai talebani e da Saddam, ma li ha sostituiti con poteri incapaci di contrastare la vocazione imperialista di Teheran. In virtù del suo soft power culturale e religioso, in futuro l’Iran guiderà le danze anche in Siria, Libano, Palestina e Bahrein. Dominerà il composito mondo sciita e risveglierà conflitti fratricidi in quello sunnita. Potrà insidiare l’Arabia saudita e destabilizzare il Pakistan. Perché il cuore del partito di Ali batte a Teheran e davanti al precipitare degli eventi in Libano è stato palese come gli alleati sunniti americani (Egitto, Arabia saudita, Giordania, Turchia) non siano stati in grado di risolvere la crisi. La resistenza di Hezbollah ha sminuito il valore dell’opzione militare che ha aumentato l’appeal del gruppo e dei suoi sostenitori a Teheran e a Damasco. A Washington non resta che coinvolgere l’Iran in un nuovo assetto di sicurezza regionale, di modo che, liberata dalla spada di Damocle del cambio di regime e rassicurata sul suo status internazionale, Teheran diventi un agente stabilizzatore. L’Iran può rappresentare per George W. Bush quello che la Cina fu per Richard Nixon. Questa, in sintesi, la tesi di Vali Nasr, professore alla Naval Postgraduate School di Monterey, autore del libro “The shia revival. How conflicts within islam will shape the future” e di un omonimo saggio comparso sul numero di luglio-agosto della rivista Foreign Affairs. L’idea di neutralizzare l’Iran attraverso concessioni e garanzie sul futuro del regime, non è una novità. Il decano dei realpolitiker, Henry Kissinger, va sostenendo da tempo che il compromesso è al contempo “possibile e necessario”. Dal 1979 la spinta al dialogo con Teheran ha di volta in volta assunto tutte le possibili gradazioni di un generico coinvolgimento o di un “grand bargain”, un accordo quadro, sotto le insegne del quale dirimere tutte le controversie pendenti tra Stati Uniti e Iran. Nel 2004, un altro realista, ma di tradizione democratica, Zbigniew Brzezinski, ha suggerito nel rapporto “Iran: time for a new approach”, del Council on foreign relations, l’avvio di un dialogo graduale da sviluppare attraverso una serie di accordi. Punto di partenza dell’intesa una dichiarazione di principi sulla falsariga del comunicato di Shangai del 1972. Posizioni che riecheggiano in un articolo di Anatole Kaletsky sul Times del 24 agosto: “Il paradosso iraniano”. L’interesse del saggio di Nasr non risiede tanto nelle conclusioni della sua analisi, ossia l’esigenza di intavolare colloqui diretti con Teheran, quanto nell’argomento centrale: nel medio oriente post Saddam emerso un dirompente polo sciita orientato da Teheran che rischia di far esplodere la regione in una miriade di microconflitti fratricidi e in una guerra interconfessionale tra sciiti e sunniti. Ma quali sono i confini dell’impero di Teheran? “Il mondo è il corpo, l’Iran è il cuore”, recita il poeta persiano Nezami Ghanjavi. Nel dna iraniano è iscritta l’immagine di un sé che non corrisponde a quella degli attuali confini. Da Mashad, porta d’oriente e punto di partenza sulla via della seta, lo sguardo abbraccia la città-sorella di Herat, dove gli hazara, discendenti di Gengis Khan, sono fratelli sciiti e i tajiki, noti anche come parsiwan, ossia coloro che parlano farsi, sono iraniani rimasti sunniti; dall’Afghanistan lo sguardo si spinge fino a Samarcanda, gloria dei Sassanidi e di Tamerlano e oltre l’Uzbekistan a lambire la Cina. Più a meridione la frontiera orientale si apre su deserti vertiginosi, anticamere per il Balucistan pachistano e il Sind, anch’esso iraniano, mentre l’occhio persiano corre all’India dei Moghul dove i sultani parlavano persiano così come i grandi miniaturisti e gli amministratori. A ovest l’iraniano abbraccia l’Iraq, il Tigri e l’Eufrate e i fasti dell’antica Babilonia nella memoria del tempo in cui gli achemenidi avevano esteso il dominio iraniano fino alle regioni del Nilo, dell’Egeo e dell’Indo. A nord, lo sbocco naturale è il ricco bacino idrogeologico del Caspio, già famoso per i suoi storioni e ora ancor più per il suo tesoro di idrocarburi. Al di qua, e al di là del Caspio, l’Azerbaijian, che fu russo e oggi indipendente, separato nel 1828 dall’altro Azerbaijian, quello iraniano, con il trattato di Turkmanchai, dietro l’Armenia e la Georgia cristiane unite alla Persia da intensi rapporti culturali e commerciali e più vicino la Turchia ottomana e kemalista, rivale sunnita nel Caucaso e in Asia centrale al pari della Russia. A nordest si dispiega il Turkmenistan turcofono e sunnita, già terra di conquista per gli achemenidi, Alessandro Magno, i parti, gli arabi, i mongoli e i sultani turchi selgiuchidi prima divenire sovietico e poi indipendente nel ’91. Oltre, ancora una volta, l’Uzbekistan e il Tajikistan, territori familiari dove le minoranze parlano persiano e il turco, detto anche turco orientale o jagatai, è così intessuto di vocaboli e modi di dire iraniani da risultare ostico per i turchi d’Anatolia. A sud lo sguardo iraniano ingloba il Golfo persico e quello di Oman e si riappropria del Bahrein sciita, sottratto a Nadir Shah alla fine del diciottesimo secolo da un accordo tra gli sceicchi al Khalifa (sunniti) e gli inglesi e contende agli Emirati arabi l’autorità sulle isole Tunbs e Abu Musa. In questo immenso spazio fatto di suggestioni antiche e confini porosi la soggettività iraniana continua a tornare alla ricerca di conferme, ma solo alcuni tra i percorsi di questo vasto Iran simbolico oggi riconducono a Teheran. Per limitarci all’argomentazione di Nasr, prendiamo in esame la galassia sciita. L’Iran è la più influente nazione sciita, l’unica in cui la maggioranza confessionale si è tradotta non solo in leadership politica (gli shah), ma in guida etica e politico-religiosa insieme (Khomeini). Dalla rivoluzione del ’79, la Repubblica islamica rappresenta per gli sciiti nel mondo un rifugio dalle persecuzioni e uno spazio metapolitico in cui riconoscersi e confrontarsi. Per gli sciiti iracheni il cross-over è antecedente e secolare. I legami con l’Iran sono forti nelle grandi famiglie clericali così come nei potenti clan di mercanti quali i Chalabi e i Kubba. All’interno dello stesso nucleo familiare accadeva che alcuni fossero cittadini ottomani e altri persiani, spesso con l’unico scopo di sottrarsi alla coscrizione obbligatoria. Poi, nel 1924, una legge in Iraq stabilì che soltanto chi vantava un documento ottomano poteva essere considerato un cittadino iracheno. Agli altri l’onere di dimostrare la propria “irachenità” e “arabità”. Più cruenta fu la discriminazione di Saddam che deportò, uccise, vietò processioni. Con la repressione baathista e l’avvento della rivoluzione in Iran, l’effetto fu che Qom elevò il suo status rispetto a Karbala e Najaf. Mentre in Iraq la marja’iya è decimata, a partire dalla fine degli anni Settanta gravitano, tra Teheran e Qom, personalità di primo piano: lo sceicco Mohammed Mahdi al Asefi, Murtada al Askari, Mohammed Ali Tashkiri, Kazem al Haeri (mentore di Moqtada al Sadr), l’ayatollah Mohammed Bagher al Hakim, fondatore dello Sciri, Ahmad Chalabi, il nuovo premier iracheno Nouri al Maliki e centinaia di migliaia di rifugiati iracheni. Di converso, dalla caduta del regime baathista molti iraniani sono andati in Iraq. C’è chi sostiene “almeno un milione”, come il re di Giordania Abdhallah II; la percentuale è probabilmente inferiore. Sono entrati pellegrini, mullah e pasdaran, 007 iraniani, commercianti e ingegneri. C’è chi è pronto a scommettere che, in ragione di questa contaminazione, sarà Teheran a determinare il futuro di Baghdad e c’è chi vaticina dinnanzi all’inevitabile saldatura tra Iran e Iraq l’ascesa di una bellicosa “mezzaluna sciita” che includerà anche Libano e Siria. L’hanno evocata il re di Giordania e il presidente egiziano Hosni Mubarak. L’inquietudine serpeggia anche in Arabia saudita, dove gli sciiti sono l’11 per cento della popolazione, ma nella regione orientale di al Ahsa, dove sono localizzate le riserve petrolifere, sono maggioranza (75 per cento) e costituiscono la manovalanza nei pozzi. Trepida anche il Bahrein, dove la leadership è sunnita, ma la maggioranza sciita (75 per cento). Il rischio è che sfruttando le istanze delle minoranze (come in Arabia saudita) o delle maggioranze più o meno silenziose (come in Bahrein) Teheran irrompa come un cavallo di troia nel delicato equilibrio confessionale. Tuttavia, sebbene tra i governanti sunniti lo sgomento sia unanime, la preminenza del fattore sciita nelle dinamiche identitarie dei popoli dal medio oriente al Caucaso è ancora da dimostrare. Se l’Arabia saudita coinvolgesse – come ha tra mille titubanze iniziato a fare – la sua comunità sciita, e il Bahrein l’imitasse è probabile che i rispettivi sciiti si accontenterebbero delle opportunità che si presentano all’interno dei loro stati piuttosto che ipotecare il futuro affidandosi all’Iran. La coesione del mondo sciita è un’incognita. Le differenze sono profonde. Quella khomeinista è di per sé una fazione eretica. Gli alawiti che reggono le sorti di Damasco sono una setta di derivazione sciita che incorpora anche elementi zoroastriani e cristiani, tanto che gli alawiti sono anche stati chiamati nazareni. Nell’ortodossia sciita sono decisamente eterodossi, come gli sciiti alevi turchi, bulgari e albanesi che prendono le distanze dall’integralismo khomeinista, gli ismaeliti seguaci dell’Aga Khan presenti in Pakistan, India, nella diaspora africana e in Tajikistan e gli zaiditi dello Yemen, politicamente vicini a Teheran, ma per avversione a Riad. Ma oltre alle distinzioni di culto e teologiche, a dividere gli sciiti ci sono motivazioni legate alla storia, all’etnia, all’ideologia, alle convenienze politiche, economiche ed energetiche. L’Azerbaijan sciita (al 75 per cento) e turcofono è troppo sciita per essere pro- Ankara (sunnita) e non abbastanza sciita da tifare per Teheran. A Baku la fedeltà al partito di Ali si è allentata con la dominazione sovietica, ma l’Azerbaijan è ancora abbastanza sciita da non concedersi alla Santa madre Russia. L’ Azerbaijan indipendente guarda pragmaticamente a Washington e all’Ue per tutelare gli oleodotti anche se la famiglia di Ilham Aliyev si fregia di un’altolocata origine clericale. In modo altrettanto pragmatico, Teheran ha sostenuto l’Armenia cristiana invece dell’Azerbaijan sciita nel conflitto sul Nagorno Karabakh. Per tornare al medio oriente, in Iraq una stagione di revanchismo sciita antisunnita e proiraniano potrebbe non decollare mai, grazie alla leadership del Grande ayatollah Ali al Sistani; potrebbe tramontare sotto l’onda di altre chiamate etniche e tribali, potrebbe essere neutralizzata dal circolo virtuoso della democrazia. Gli sciiti iracheni sono nazionalisti. Lo hanno dimostrato negli anni Venti lottando contro il mandato britannico per l’indipendenza. “Noi desideriamo che l’Iraq si estenda dal nord di Mosul al Golfo persico, con un governo arabo e islamico diretto da un sovrano arabo musulmano che potrebbe essere uno dei figli di re Hussein a condizione che il suo potere sia limitato da un’assemblea legislativa”, dissero gli ulema sciiti nella dichiarazione di Najaf. La parola “arabo”, non a caso, ricorre due volte. Gli sciiti iracheni erano costantemente sospettati di shu’ubiyya, un termine con cui al tempo degli abbasidi si denunciavano coloro che mettevano in discussione la supremazia degli arabi nelle terre dell’islam. Eppure, a dispetto delle vessazioni aggravate in epoca baathista ( è di uno zio materno del rais la frase: “Le creature che Dio non avrebbe mai dovuto creare: i persiani, gli ebrei e le mosche”) nella lotta di appartenenza tra fedeltà alla nazione araba e solidarietà sciita è la prima a trionfare sulla seconda tra gli sciiti iracheni negli otto anni di guerra contro l’Iran. Per quanto lo desideri la dirigenza iraniana, a meno che Teheran espugni Baghdad dopo una sanguinosa guerra civile è difficile immaginare un Iraq non solo islamicamente solidale all’Iran, ma asservito ai suoi diktat. Pesano in questo contesto tanto il quietismo di Sistani – che alla subordinazione della religione allo stato di stampo kemalista preferisce l’equilibrio di due forze che agiscono su piani distinti – quanto la rivalità etnica tra arabi e persiani. C’è inoltre da chiedersi se Teheran stia davvero puntando sull’orgoglio sciita o se la sua politica regionale non miri piuttosto ad accreditarsi come guida di un movimento panislamico, populista e antimperialista. Sono ascrivibili a questa definizione la maggior parte delle invettive di Ahmadinejad. Come sottolinea Mai Yamani, analista del Royal institute for International affairs e figlia dell’ex ministro del Petrolio saudita, Ahmad Zaki Yamani, il successo del presidente iraniano è legato a una rivoluzione verbale. “Ahmadinejad dice in pubblico quello che molti arabi dicono in privato”. “In queste settimane quando i sauditi, gli egiziani, i giordani hanno guardato al Jazeera hanno visto morti arabi e non sciiti. E hanno visto lo sciita Nasrallah difendere i fratelli arabi al posto dei loro governanti sunniti”. Sposa questa tesi anche l’islamologo Olivier Roy: “Il discorso iraniano è panislamico” e buona parte della sua attrattiva risiede anche nella forza con cui contesta gli Stati Uniti”. Da Casablanca a Istanbul, Ahmadinejad è un simbolo di riscatto islamico e secondo un recente sondaggio del Pew research centre, in Turchia il 60 per cento della popolazione guarda alla presenza statunitense nella regione come a “una grande minaccia alla pace” e solo il 16 per cento pensa lo stesso dell’Iran a dispetto delle ambizioni atomiche. In questo clima, accordarsi con Teheran non farebbe che elevarne lo status regionale. Una spartizione Stati Uniti-Iran in zone di influenza difficilmente potrebbe rispondere alle legittime inquietudini di Gerusalemme. Si è spesso sentito dire che un’apertura della comunità internazionale trasporterebbe in Iran i benefici del modello cinese. Il corollario è che il buon senso degli affari è nemico degli scossoni. Dopo lo storico accordo, per Teheran la moderazione sarebbe un fatto naturale e anche la società godrebbe di un certo numero di squarci pseudo-liberali. E’ del tutto indifferente ai realisti che questa ipotesi toglierebbe ogni credibilità alla lotta per la democrazia in medio oriente propagandata dall’amministrazione Bush, che la società civile si rassegnerebbe a tornare nel guscio e che i dissidenti arabi e iraniani si troverebbero a dare ragione ai loro tiranni quando speculano sulla buona fede dell’occidente. Influenti per i realisti potrebbero invece forse risultare una serie di interrogativi. E gli alleati sunniti a Istanbul, al Cairo, ad Amman? Come reagirebbe l’asse sunnita Riad-Islamabad all’annuncio della pax iranica? Quale sarebbe l’atteggiamento dell’Arabia saudita all’Opec? Quali rassicurazioni dovrebbe ricevere per non affrettarsi sulla via dell’atomica con l’aiuto di Pakistan e Cina? E perché a quel punto non stabilire rapporti organici con i gruppi estremisti wahabiti come l’Iran con quelli sciiiti? Chi garantirebbe poi a Israele che un’intesa Iran-Stati Uniti sarebbe sufficiente a persuadere Teheran a svendere, abbandonandola, la più rilevante cause célèbre del mondo islamico ora che al vertice si sono insinuati i fautori della rivoluzione islamica permanente? E la Russia non alzerebbe forse più di un sopracciglio impegnata come è a costruirsi un consistente ruolo mediorientale? L’alternativa di Nasr è suggestiva, ma non fuga il dubbio che al posto di un Iran isolato ci ritroveremo con un Iran che detta le regole. E tutto in virtù di una pax a tempo. Lo sciismo apre molte porte dall’Asia al medio oriente, ma non possiede tutte le chiavi e questo perché, a dispetto del fenomeno fondamentalista e dell’ involuzione religiosa e socioculturale che produce, le appartenenze si declinano al plurale. Nel caso dell’Iran, c’è da augurarsi che il quietismo di Sistani diventi maggioritario rispetto allo sciismo khomeinista. A Qom il panorama è fertile e cresce l’autorità di teologi riformisti come Mohsen Kadivar, in prima linea nella difesa dei diritti umani. Ma lo sciismo non è che un termine dell’equazione. A 27 anni dalla rivoluzione, l’Iran è un paese sempre più desacralizzato. Il regime attraversa una grave crisi di legittimità. Per trasformare questo Iran si può puntare su Sistani, ma non si può dimenticare il resto: l’Iran laico, degli studenti, dei dissidenti, quello dei secondini che di nascosto fanno uscire i racconti dei prigionieri politici, quello dei conducenti d’autobus, degli insegnanti e dei minatori, perché il regime pensa ai suoi e loro, invece, non sono pagati da mesi. Se è vero che, affinché cambi la regione dovrà cambiare l’Iran, non è un’idea tanto realista rabbonire mullah e sodali.
Sempre dal FOGLIO, l'editoriale a pagina 3:
Questo giornale ha riconosciuto al governo italiano, e in particolare al suo ministro degli Esteri, l’indubbio successo diplomatico di essersi ritagliato un ruolo importante nello scenario mediorientale e di collegamento tra Europa e Stati Uniti riguardo la vicenda del Libano. Allo stesso modo ci siamo permessi di dubitare sulla visione dalemiana rispetto alla sfida jihadista, ammesso che di strategia ce ne sia una. E’ ottimo andare nel Libano del sud con gli auspici del popolo della pace e il voto dell’opposizione filoamericana, è fantastico rilanciare le relazioni transatlantiche ed è meraviglioso aver contribuito a convincere l’Onu a inviare per una volta le truppe in una zona di crisi. Ma il punto è: per fare che? Nessuno, né Palazzo Chigi né la Farnesina, ha avuto l’accortezza di spiegarcelo. E quando qualcuno d’area ci prova – come il presidente del Cespi, Silvano Andriani, ieri sull’Unità – è anche peggio: a suo dire, e al contrario di ciò che ha detto giovedì l’Onu, Teheran non viola nessun trattato sul nucleare, a differenza degli Stati Uniti. La visione strategica offerta dal centro studi vicino ai Ds è questa: “Sarebbe prova di saggezza riconoscere all’Iran il ruolo di grande potenza regionale”, non comprendendo così la natura rivoluzionaria e apocalittica del regime islamista di Teheran.
Come spesso capita quando a guidare le danze c’è Massimo D’Alema, si nota un abile uso della tattica (compresa la passeggiata a braccetto con un volenteroso cancellatore di Israele) e una cronica carenza di strategia. Dall’11 settembre di cinque anni fa, questo piccolo giornale d’opinione crede che il mantenimento dello status quo mediorientale, cioè l’appeasement nei confronti dei regimi dispotico-islamici e dell’ideologia guerrasantiera che li alimenta, non sia più un’opzione a disposizione dell’occidente. La migliore strategia, anzi per il momento l’unica, resta quella di un nuovo impegno occidentale per abbattere gli ostacoli politici, ideologici e religiosi che da sessanta anni impediscono ai mediorientali di vivere liberamente senza che nessuno li educhi ad amare la morte più della vita o che li istighi a tagliare la testa a crociati ed ebrei. Oggi questa strategia politico-militare è certamente in difficoltà, a causa della rappresaglia iraniana in Iraq e in Libano, ma almeno è una strategia. A complicare le cose è arrivato il redde rationem diplomatico sul nucleare iraniano, una sfida cominciata quando a Washington c’era Clinton e a Teheran governavano i cosiddetti moderati riformisti di Khatami sui quali ancora oggi la sinistra italiana continua a prendere un abbaglio. E’ una vecchia storia: nei conflitti ideologico-militari del passato, il mondo libero si è sempre confrontato con una parte di sé che non riusciva a riconoscere l’esistenza di un nemico, malgrado questi non nascondesse affatto le sue intenzioni. In questo caso sono farsi la bomba e distruggere Israele.
Dall'UNITA' del 1 settembre, l'articolo di Silvano Andriani citato dal FOGLIO, "Nucleare, trattati o carta straccia?:
Se si considera la questione nucleare iraniana sulla base dei fatti, si può sostenere che la richiesta rivolta all'Iran dalla Comunità internazionale di non dotarsi della capacità di arricchire l’uranio non abbia molto fondamento nel diritto internazionale e tuttavia l'eventualità che l'Iran si doti di armi nucleari rappresenti un problema politico e strategico di primaria grandezza, gravido di pesanti conseguenze negative.
Il trattato di non proliferazione nucleare, entrato in vigore nel 1970, vieta ai paesi firmatari di dotarsi di armi nucleari.
Ma non gli impedisce di dotarsi di tecnologie nucleari per uso civile, purchè essi accettino di sottoporsi al controllo dell'Agenzia specializzata, l'Aeia. Fin dall'inizio fu chiaro che il trattato creava due pesanti squilibri. Il primo tra i paesi che già detenevano armi nucleari e quelli che si impegnavano a non a averne. A questo problema il trattato rispondeva con l'impegno delle potenze nucleari esistenti ad un disarmo graduale. Tale impegno è stato sostanzialmente violato, anzi alcune potenze nucleari hanno continuato a fare esperimenti allo scopo di acquisire armi nucleari più sofisticate.
Il secondo squilibrio si è creato tra i paesi firmatari del trattato e quelli che hanno deciso di non firmare.
Gli effetti di tale squilibrio si sono materializzati nel tempo e oggi anche Israele, India e Pakistan posseggono armi nucleari. Ad essi si sta ora aggiungendo la Corea del nord. A questo squilibrio il trattato dava una risposta piuttosto debole, vietando alle potenze nucleari esistenti di avere qualsiasi rapporto di collaborazione nucleare con paesi non firmatari del trattato. Questo divieto è stato platealmente violato dagli Usa con la firma dell'accordo di cooperazione nucleare concluso con l'India di recente, proprio mentre la Comunità internazionale chiedeva all'Iran qualcosa che va anche oltre il rispetto del trattato. Non sembra che finora la comunità internazionale si sia preoccupata per le violazioni sistematiche del trattato e per le loro conseguenze, forse anche perché del Consiglio di Sicurezza dell'Onu fanno parte tutte le potenze nucleari originarie che sono le prime a violare il trattato da esse promosso.
L'Iran ha firmato il trattato quando al potere c'era ancora lo Scià, ma il regime komeinista non lo ha mai ripudiato e tuttora afferma di volere dotarsi di tecnologie nucleari per poter produrre energia elettrica e per consentire al paese un salto nella capacità di sviluppo tecnologico. La Comunità internazionale, tuttavia, imputa all'Iran di avere eluso i controlli e per questo chiede che esso rinunci ad arricchire l'uranio. Una tale sanzione non è prevista dal trattato e comunque la risposta più ragionevole sembrerebbe la richiesta di controlli più stringenti e non suscettibili di essere elusi, come, del resto, si fece con Saddam, ottenendo il risultato desiderato.
Se si vuole ricostruire tutta la storia, è utile ricordare che l'elusione dei controlli è iniziata probabilmente all'epoca in cui l'Iraq di Saddam, che aveva scatenato una guerra contro l'Iran, stava cercando di dotarsi di armi nucleari. Nella fase più recente l'amministrazione Bush ha classificato l'Iran tra gli «Stati canaglia» da abbattere e, di conseguenza, si è rifiutata di trattare con l'Iran anche quando il governo iraniano, controllato allora dalla componente riformista del regime, chiedeva di farlo. Quanto agli europei, a parte il governo Berlusconi che, scimmiottando ridicolmente gli Usa, rifiutò perfino di far parte del gruppo incaricato di trattare, i paesi che compongono il gruppo, Inghilterra, Francia e Germania, accettarono di trattare senza gli Usa, che anzi mostravano chiaramente di non credere a quella trattativa, e con quasi niente in tasca, soprattutto niente sulla sicurezza poiché l'Iran era minacciata dagli Usa e non dall'Europa.
Dopo la minaccia statunitense era prevedibile che gli «Stati canaglia» che potevano avrebbero accelerato le attività per fornirsi di tecnologie nucleari. Lo hanno fatto Iran e Corea del Nord, quest'ultima sta conseguendo l'obbiettivo e gli Usa sono ora costretti a trattare. Anche su questo versante la politica muscolare di Bush si è risolta in una prova di debolezza.
Ora la situazione è alquanto cambiata. Gli Usa affermano di dare priorità alla diplomazia e le contropartite offerte sono più consistenti. Ma essi ancora non trattano e l'appoggio incondizionato che hanno dato ad Israele per la guerra contro il Libano, che non pochi commentatori hanno considerato come un primo passo verso un attacco contro gli impianti nucleari iraniani, lascia aperto il dubbio se il governo Usa pensi di puntare ad impedire che l'Iran si doti di armi nucleari o pensi ancora di dovere abbattere il regime iraniano. Il dubbio può nascere anche dalla rapidità con la quale il rappresentante Usa all'Onu ha bocciato il documento recentemente presentato dall'Iran, probabilmente frutto del prevalere della componente più moderata del regime, che offre interessanti aperture, tra le quali l'accettazione della sospensione dell'arricchimento dell'uranio come une dei punti della trattativa. L' adozione in sede Onu di eventuali sanzioni contro l'Iran, anche per le quali gli Usa insistono, potrebbe innescare ritorsioni, a cominciare dal ripudio del trattato da parte dell'Iran, con esiti imprevedibili.
Anche in Iran la situazione è cambiata. In peggio. Ora al potere ci sono i fondamentalisti con la tendenza a fare dell'Iran il riferimento dell'antioccidentalismo che la politica statunitense sta alimentando in tutto l'Islam. Del resto la politica statunitense non fa altro che rafforzare il regime iraniano. Tuttavia, nonostante le dichiarazioni deliranti del presidente Ahmadinejad cntro Israele, c'è nulla che possa farci pensare che il governo iraniano non sappia che un attacco nucleare contro Israele significherebbe la distruzione dell'Iran. I paesi che puntano a dotarsi di armi nucleari non lo fanno perché pensano di usarle effettivamente, ma in quanto sanno che esse sono ormai la moneta del potere e possono definire i rapporti di forza politici in una determinata area o a livello mondiale.
Il possesso di armi nucleari da parte dell'Iran rappresenta un'eventualità molto rischiosa in quanto modificherebbe sostanzialmente i rapporti di forza in Medioriente e non solo tra Iran ed Israele, ma, soprattutto, tra Iran, paese sciita, ed i paesi sunniti, già fortemente preoccupati per l'emergere intorno all'Iran di un blocco sciita sempre più potente. Ne deriverebbe certamente una rincorsa alla produzione di armi nucleari da parte di altri paesi, quali la Turchia, l'Egitto, l'Arabia Saudita, l'Algeria.
Un attacco aereo contro l'Iran potrebbe causare danni gravissimi, ma rafforzerebbe certamente il regime.
E sappiamo che l'Iran può colpire Israele ed i suoi impianti nucleari, alimentare il terrorismo, destabilizzare i mercati petroliferi, rendere ancora più esplosiva la situazione in Iraq e Libano, aumentare la tensione in tutto il Medioriente. Un accordo non può avere altro obbiettivo che quello di impedire che l'Iran si doti di armi nucleari, non può impedirgli di avere una politica energetica autonoma, né negargli i diritti che il trattato di non proliferazione riconosce a tutti i paesi firmatari. E non può ignorare i problemi della sicurezza. Esistono i problemi della sicurezza di Israele, ma esistono anche quelli dell'Iran che, negli ultimi cinquanta anni, è stato aggredito due volte, la prima direttamente da potenze occidentali e la seconda da Saddam sostenuto dagli occidentali; e di recente è stato minacciato dagli Usa.
Sarebbe prova di saggezza da parte dell'Occidente riconoscere all'Iran il ruolo di grande potenze regionale, responsabilmente coinvolta nella definizione dei nuovi equilibri mediorientali e spingerlo a svolgere tale ruolo. Se si affermasse una prospettiva di questo tipo, discutere in futuro della possibilità di fare del Medioriente una zona denuclearizzata sarebbe possibile.
Ma il problema delle armi nucleari e della loro disseminazione non riguarda solo il Medioriente. Il trattato di non proliferazione è diventato un colabrodo ed il tema del disarmo nucleare si ripropone con forza.
Il futuro del pianeta sarà multipolare, ce lo dice il fallimento dell'unipolarismo statunitense. Il mondo tuttavia è stato già in passato multipolare e non è stato un passato di pace. Si tratta di sapere verso quale tipo di multipolarismo intendiamo andare e se esso sarà basato sul possesso di armi nucleari.
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