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Il Foglio Rassegna Stampa
01.09.2006 L'Iran tira dritto verso la Bomba
gli Usa vogliono sanzioni, l'Europa ripete "dialogo"

Testata: Il Foglio
Data: 01 settembre 2006
Pagina: 1
Autore: la redazione
Titolo: «Nucleare (in)civile»

Dal FOGLIO del 1 settembre 2006:

Roma. L’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, ha consegnato ieri il rapporto sul nucleare iraniano al Consiglio di sicurezza dell’Onu, nel giorno della scadenza dell’ultimatum per Teheran sul pacchetto di incentivi avanzati dal 5+1 (Stati Uniti, Francia, Cina, Russia, Regno Unito e Germania). L’Agenzia fa sapere che l’Iran non ha fermato il suo programma nucleare. “Un rifiuto iraniano rappresenterebbe un test per il Consiglio di sicurezza”, ha detto dieci giorni fa John Bolton, ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite. Ci siamo, e i segnali sono tutt’altro che incoraggianti. La coesione maturata nelle scorse settimane tra Europa e Stati Uniti intorno alla risoluzione 1.701 sulla crisi in Libano presenta crepe vistose su un altro dossier, quello del nucleare iraniano. Allo scadere dell’ultimatum, mentre il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad promette che “l’Iran non indietreggerà di un centimetro dinnanzi alle intimidazioni dell’occidente”, Washington parla di sanzioni e l’Europa di dialogo. “E’ tempo di fare una scelta per l’Iran. Noi abbiamo fatto la nostra. Continueremo a lavorare a fianco dei nostri alleati per trovare una soluzione diplomatica, ma devono esserci conseguenze per la sfida iraniana e non dobbiamo permettere che l’Iran sviluppi armi nucleari”, ha detto George W. Bush ieri. Per il dipartimento di stato l’arresto del processo d’arricchimento è una condizione irrinunciabile e “l’Iran – ha sottolineato il sottosegretario Nicholas Burns – non ha soddisfatto l’unico criterio importante”.
Per la diplomazia del Vecchio continente, invece, l’enfasi è ancora sulla trattativa. Il ministro degli Esteri francese, Philippe Douste-Blazy, concede che la risposta di Teheran “non è soddisfacente”, ma sottolinea che la Francia “vuole evitare uno scontro di civiltà” e siccome l’Iran ha espresso la volontà di dialogare, Parigi percorrerà quella strada, sempre che l’atteggiamento iraniano sia “concreto, trasparente e costruttivo”. Possibilista riguardo alla ripresa dei negoziati, a dispetto della violazione della risoluzione 1.696, anche il cancelliere tedesco, Angela Merkel: “Non chiuderemo la porta all’Iran”, ha detto. Javier Solana, plenipotenziario agli Esteri dell’Ue, continua a puntare sul canale aperto con il negoziatore di Teheran, Ali Larijani. Un incontro è in programma per i prossimi giorni e fonti del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale iraniano dicono al Foglio che Bruxelles è interessata a una proposta di “dialogo esplorativo”. Questo mentre, a Washington, Burns sottolineava: “Deve esserci una risposta internazionale e noi crediamo che ci sarà. Pensiamo che un regime di sanzioni sarà concordato a settembre”. La prossima settimana sono previsti due appuntamenti tra i 5+1: un incontro in Europa in cui si discuterà di sanzioni e un altro più tecnico all’Onu sulla formulazione di una nuova risoluzione.

Misure punitive “light”
Sarà infatti necessaria un’ennesima risoluzione per votare le misure punitive già più volte ventilate. Secondo gli accordi informali tra i 5+1, le sanzioni saranno applicate in maniera graduale. Anzitutto, saranno introdotte restrizioni sull’importazione in Iran di materiali e di tecnologia nucleare. In secondo luogo saranno introdotte limitazioni diplomatiche nei confronti delle autorità e saranno congelati i beni dello stato iraniano all’estero. Potrebbe inoltre essere circoscritto l’accesso dell’Iran ai mercati finanziari e ai prestiti della Banca mondiale.
Riguardo alle sanzioni, l’impressione è che i tempi continueranno a dilatarsi; anche il portavoce del dipartimento di stato americano, Sean McCormack, ha ammesso: “Ci vorrà del tempo”. Teheran , intanto, ostenta sicurezza. In visita in Giappone, il viceministro degli Esteri Abbas Araghchi ha dichiarato di essere certo che la querelle sarà presto risolta attraverso il negoziato. “L’Iran è pronto a discutere del suo programma nucleare – ha detto ad Atene l’inviato Mohammed Navahandian – Non dobbiamo essere così sensibili alle scadenze. Ci dobbiamo concentrare sui contenuti”. Fiutando le divisioni all’interno del Consiglio di sicurezza, l’Iran si comporta come se la risoluzione fosse ininfluente. I giochi per Teheran sono ancora aperti. Il capo dell’Agenzia atomica iraniana si recherà a Mosca la prossima settimana e il segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, è atteso sabato a Teheran e ha già parlato di un probabile incontro tra le autorità iraniane e i 5+1. Ma l’Iran conta anche sul fatto che il rapporto dell’Aiea possa essere meno severo del previsto. Agli ispettori è stato impedito l’accesso ad alcuni siti e dai controlli effettuati risulta che l’Iran avrebbe continuato con il suo programma meno velocemente del previsto. A Vienna queste valutazioni fanno pensare che a una nuova risoluzione non potranno seguire che sanzioni light. “Sanzioni diplomatiche”, come dice Konstantin Kosachev, presidente della commissione Esteri della Duma e sanzioni “leggere” come chiede Tokyo, contraria a misure che prendano di mira le esportazioni iraniane di petrolio e gas.

Sempre dal FOGLIO, un articolo spiega perché a Teheran il nucleare civile non serve:


Milano. L’Iran ha davvero bisogno del nucleare civile? Per l’estensione delle sue riserve, è il terzo paese al mondo per quantità di petrolio (con il 10 per cento del totale) e secondo di gas (con il 16 per cento). Il fabbisogno nazionale di elettricità (che negli ultimi dieci anni è schizzato da 80 a 145 miliardi di chilowattora) è soddisfatto in larga maggioranza dai combustibili fossili, cui si aggiunge una quota crescente ma minoritaria d’idroelettrico e modeste importazioni (2,2 miliardi di chilowattora nel 2004). La produzione petrolifera è in continuo aumento, sui 4 milioni di barili al giorno, di cui 1,5 destinati ai consumi interni. Dal 1982, però, l’Iran importa prodotti raffinati: dall’estero provengono 150 mila barili al giorno di benzina su una domanda di 400 nel 2005, che si stima saliranno a 188 mila nel 2006. La bolletta che Teheran deve pagare è tra 3 e 4 miliardi di dollari all’anno. Il paese ha predisposto interventi per migliorare la sua capacità di raffinazione, attualmente scarsa e concentrata in strutture vecchie e inefficienti, e spera di poter raggiungere l’indipendenza nel 2010. Per quel che riguarda il gas naturale, più del 60 per cento delle riserve (30 mila miliardi di metri cubi) non sono ancora state sviluppate: l’Iran è soltanto il quinto produttore al mondo. Negli ultimi dieci anni la produzione è raddoppiata. Il gas naturale rappresenta circa la metà del consumo interno di energia primaria: Teheran ne importa dal Turkmenistan e ne esporta verso la Turchia. Secondo stime, il saldo sarebbe negativo, anche se di poco. L’aumento della domanda mondiale di gas ha spinto il paese a focalizzare l’attenzione sull’esigenza di costruire nuove pipeline e dotarsi di terminali per la liquefazione del gas. La vera domanda alla base del tiremolla internazionale sull’atomo, dunque, è: perché l’Iran dovrebbe investire una importante massa finanziaria sull’uranio (di cui è povero), quando con la stessa quantità di denaro potrebbe garantirsi l’indipendenza nei prodotti derivati dal petrolio o potenziare la sua posizione come esportatore di gas? Un rapporto del Congresso americano conclude l’analisi della situazione economica, energetica e politica del paese sottolineando che “l’Iran non ha bisogno dell’energia nucleare; ha bisogno di riconnettersi col resto del mondo, riallineare le sue priorità, e sviluppare le sue vaste riserve di petrolio e gas naturale”. E’ anche vero, come osserva Angelantonio Rosato di Limes, che “l’Iran, come la Russia, pur essendo ricco di gas e petrolio non vuole rinunciare all’atomo per uscire dalla scomoda condizione di petrostato in balia delle forti oscillazioni dei prezzi globali. La ricerca dello scontro internazionale è funzionale al superamento delle contraddizioni interne: se il popolo è unito contro un ‘nemico esterno’, le questioni domestiche passano in secondo piano”. Del resto, in un paese dove il costo di estrazione del greggio è una manciata di dollari, il nucleare – che alcuni considerano economicamente inefficiente anche nei paesi importatori di petrolio – non ha le stigmate della buona scommessa imprenditoriale. A tutto questo vanno aggiunte le sanzioni, che Teheran sembra disposta a sostenere. Dice Tom G. Palmer, analista del Cato Institute, think tank ultraliberista americano: “Se tiriamo le somme, scopriamo che il nucleare costerebbe agli iraniani una cifra assai maggiore del valore dell’elettricità che potrebbe generare. Chiaramente, essi hanno ambizioni militari a livello regionale: mi pare ovvio che il nucleare serva per le armi, non per la corrente”. La scarsa credibilità internazionale non gioca certo a favore del presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, aggiunge Michael Ledeen dell’American Enterprise Institute, un’altra istituzione del liberismo americano: “L’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) ha scoperto che l’Iran da vent’anni mente a proposito dei suoi progetti nucleari. Non c’è alcuna ragione per mentire su un programma pacifico, e questa è il motivo per cui ogni persona informata dei fatti è convinta che si tratti di un programma militare”.

Un altro articolo spiega come siano gli stessi ayatollah a confermare che vogliono costruirsi armi nucleari.
Ecco il testo:

Roma. La risposta negativa di Teheran alla richesta delle Nazioni Unite d’interrompere l’arricchimento dell’uranio “è l’ennesima conferma della volontà dell’Iran di dotarsi di armi atomiche – ha detto l’ambasciatore americano all’Onu, John Bolton, ieri – Non c’è atra spiegazione, altrimenti, a un atteggiamento di questo tipo”. Il governo iraniano è molto attento a dichiarare in ogni apparizione pubblica che il programma nucleare è per scopi civili e non militari. Alcuni alti ufficiali del regime, però, hanno affermato direttamente e indirettamente che Teheran vuole ottenere la bomba atomica. Il 7 giugno del 2006 il ministro degli Esteri iraniano, Manouchehr Mottaki, davanti alle telecamere dell’emittente Channel 2, dichiara: “Noi vogliamo enfatizzare la natura pacifica delle nostre armi nucleari”. Poi, dopo essersi accorto della svista, prova a correggersi: “Voglio dire, del nostro impianto nucleare”. Il 26 agosto 2006, il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, ha inaugurato l’impianto di acqua pesante ad Arak. Durante la cerimonia, ha affermato che “l’Iran non rappresenta una minaccia per alcuno stato, nemmeno per il regime sionista, che senza dubbio è un nemico per i paesi della regione”. Il 27 agosto, però, la Repubblica islamica ha testato in mare nuovi missili, che hanno rinnovato le preoccupazioni dei paesi confinanti sulle vere intenzioni di Teheran. L’arricchimento di uranio, infatti, cui il paese non rinuncia, può produrre materiale per testate nucleari. La natura bellica del programma nucleare è stata confermata indirettamente anche dal viceportavoce del Parlamento iraniano, Mohammad Reza Bahonar; sostiene che a volere l’atomica non sia soltanto il governo, ma la stessa popolazione civile. In un’intervista a Sharif News, un nuovo sito dell’Università tecnologica di Teheran, Bahonar dichiara che l’occidente deve “temere il giorno in cui il popolo iraniano si ammasserà per le strade, manifesterà, e chiederà al proprio governo di produrre armi nucleari per fare fronte alle minacce”. Nella stessa intervista, Bahonar fa riferimento alle manovre militari, Zarbat-e Zolfaqar, iniziate ad agosto. (segue dalla prima pagina) “Il portavoce ha detto che l’operazione Zolfaqar – riporta il sito Sharif – ha dimostrato che l’Iran è determinato a difendere il proprio paese contro gli abusi e a tagliare le mani di ogni invasore, prima che la sua mano si allunghi per invaderci”. Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Hamid Reza Asefi, ha però cercato di rimediare alle dichiarazioni troppo esplicite del collega Bahonar. “Quello che ha detto il portavoce del Parlamento è inaccurato – ha spiegato preoccupato Asefi – La produzione di armi nucleari non fa parte della dottrina difensiva dell’Iran”. Il quotidiano conservatore Resalat, scrive, in un editoriale, che l’inaugurazione della centrale nucleare di Arak dimostra per l’ennesima volta che la Casa Bianca e l’Unione europea sono completamente inefficienti. “I recenti sviluppi degli scienziati iraniani e le sedici tonnellate di acqua pesante prodotta negli impianti di Arak porteranno, senza dubbio, a dure conseguenze (…) per gli oppositori del programma nucleare”. Secondo la testata iraniana, gli Stati Uniti cederanno davanti al progetto di arricchimento dell’uranio e cominceranno a essere meno esigenti nei negoziati. “Mentre l’atmosfera in occidente non è calma – scrive Resalat – l’Iran continua composto e senza badare alle pressioni e alle minacce il suo cammino verso l’evoluzione”. “L’evoluzione” della Repubblica islamica non ha però toni troppo pacifici. Il 15 agosto del 2006, Ahmed Khatami, alto esponente iraniano, ha detto all’emittente Irinn che gli Stati Uniti e Israele non devono azzardarsi a minacciare Teheran: “Devono temere il giorno in cui i nostri missili, con una gittata di 2.000 chilometri, saranno lanciati nel cuore di Tel Aviv”, ha detto. Intanto, il suo omonimo, Mohammed Khatami – ex presidente iraniano – è atteso la prossima settimana negli Stati Uniti. Nonostante sia stato invitato dal segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, per aprire un “dialogo tra civiltà”, non sembra essere ben disposto a trattare. Ha già fatto sapere che è meglio che Washington non gli dia alcun problema.

Infine , una lettera al direttore di Carlo Panella sull'incomprensione della natura della jihad contro Israele:

Al direttore - Piero Fassino, che è filosionista, ci aiuta a capire l’errore che fa velo alla sinistra nel comprendere il medio oriente: “Non esistono due torti, ma due ragioni, da difendere: la sicurezza di Israele e il diritto dei palestinesi ad avere uno stato”. Non è affatto così, queste due ragioni sono sovrastate da un torto: il rifiuto di Israele per ragioni religiose, per antisemitismo islamico, perché “il Giudizio Universale non verrà sino a quando i musulmani non avranno ucciso l’ultimo ebreo” (Statuto di Hamas, condiviso da Hezbollah). Quando Sofri propone il disarmo atomico unilaterale di Israele, dimostra una uguale fede totale, laicissima, nelle leggi della politica (che già lo portò ad appoggiare, con Prodi, Fassino e D’Alema, quell’aborto insulso che fu “l’accordo di Ginevra”), una apologia della capacità di persuasione del “discorso”, del gesto, dello schema politico. Ma la logica per cui 50 stati islamici rifiutano l’esistenza di Israele non ha a che fare con Westfalia, con la politica, col senso che ha la storia in occidente: Israele è rifiutato in nome del jihad, non della “terra”, e non solo da bin Laden. Un jihad per il Giudizio Universale che è egemonismo musulmano, proselitismo con la spada, una interpretazione feroce del Corano diventata maggioritaria nel Novecento, ben prima che Israele nascesse. Un jihadismo, diffuso, che impregna e appesantisce e allontana dalla modernità tutte le società musulmane di oggi e che partorisce il jihadismo terrorista. Il laicismo europeo sfocia nell’incapacità di capire che l’islam moderno, che in coro rifiuta Israele, agisce nella storia per ragioni slegate dalla logica delle nazioni, della politica, degli accordi tra stati. Non solo quello di Ahmadinejad, tutto il rifiuto islamico di Israele – anche dei “moderati” – è apocalittico. George W. Bush col suo messianesimo solidamente equilibrato dal senso laico dello stato, questo lo ha ben chiaro e infatti calibra il suo contrasto queste forze apocalittiche, con questo terreno di scontro. L’Europa laicista non vede, non coglie, non contrasta. Carlo Panella

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