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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
31.08.2006 Ritratto di Nagib Mahfuz
un articolo di Magdi Allam

Testata: Corriere della Sera
Data: 31 agosto 2006
Pagina: 1
Autore: Magdi Allam
Titolo: «La coscienza laica dell'Egitto contro tutti i fondamentalismi»

Dal CORRIERE della SERA del 31 agosto 2006:

La Sfinge dei nostri tempi. Un colosso di vitalità passionale travolgente e di maestria letteraria sublime, incastonato in un corpo mansueto e addomesticato fino ad apparire talvolta remissivo e sconfitto.
Nagib Mahfuz è stato l'emblema di una qualità del tutto singolare di moderazione, che rasenta l'equilibrismo. Una vita a tal punto calcolata da mantenersi perennemente in bilico tra l'accondiscendenza ossequiosa nei confronti dell'autorità costituita e la ribellione di un animo capace di violare le tenebre dell'oscurantismo ed elevare il vessillo dei lumi della ragione.
A nche alla soglia dei 95 anni, la provocazione intellettuale era rimasta ben viva nel suo carattere, affondata nella custodia ingualcibile del Dna. Come pulsante era rimasto l'amore viscerale per l'inseparabile Nilo dalle mille suggestioni, accanto al quale ha voluto vivere e ha scelto di morire.
Probabilmente era scritto nei disegni immutabili del destino che il vecchio leone della letteratura egiziana Nagib Mahfuz, premio Nobel nel 1988, trovasse l'appuntamento con la morte uscendo di casa, per attraversare la strada e forse poter sentire, per l'ultima volta, lo sciacquio del grande e adorato Fiume. Forse uno strattone improvviso per liberarsi di chi lo accompagnava ha provocato, il 19 luglio scorso, la brutta caduta e la letale ferita alla testa. Se n'è andato ieri, serenamente. «Lascia un vuoto incolmabile nella cultura egiziana e araba», ha detto il presidente della Repubblica Hosni Mubarak. Possiamo aggiungere con certezza: la perdita è planetaria, perché Mahfuz, che probabilmente non ha mai attraversato la frontiera dal suo Paese, appartiene — come tutti i grandi — alla laica cultura del mondo.
Provocatore, sì, fino alla fine. Con l'irriverenza di Oscar Wilde, si faceva un punto d'onore di frequentare i piaceri della vita, di lasciarsi sedurre gioiosamente dalle tentazioni, di odiare l'intolleranza e di non sopportare i fondamentalisti, anzi tutti i fondamentalismi. Quando una volta gli chiesi che cosa pensasse dei Fratelli Musulmani, un sorriso increspò le sue labbra, prima di rispondere: «Li lascerei liberi di esprimere le loro opinioni. Tanto la gente capirebbe e, dopo averli ascoltati, gli negherebbe la fiducia». Forse sbagliava, ma di fronte alle riserve dettate dalle cronache quotidiane faceva spallucce. E ti ricordava di aver esultato per il coraggio di Anwar Sadat, quando fu capace di fare la pace con Israele, ma di averlo aspramente criticato quando decise di aprire le porte del potere proprio ai fondamentalisti, che un giorno l'avrebbero ucciso durante una parata militare.
L'Islam politico lo spaventava. Ad esso contrapponeva le suggestioni e il fascino di un'ideologia laica. Diceva: «Prima o poi tornerà il socialismo. Il socialismo non morirà mai». In questa sua visione si nascondevano convinzioni e contraddizioni che Mahfuz cercava di piegare, adattandole all'estrema duttilità di una mente fertile e curiosa, che non sopportava costrizioni che potessero «cambiare le mie quotidiane e irrinunciabili abitudini».
Abitudini innocenti o quasi, come accendere di nascosto dalla moglie Attayat- Allah (che vuol dire «Dono di Dio») l'amata sigaretta, e forse assai più pericolose, come sfidare gli estremisti a viso aperto, non temendone la ferocia e il fanatismo. E rifiutando sdegnosamente la scorta per poter andare a bere il caffè e leggere i giornali nella taverna «Alì Baba» (fin quando le forze glielo permisero), oppure andare personalmente al suo giornale, «Al-Ahram», a consegnare la pungente rubrica settimanale.
Nell'ottobre del 1994, mentre stava per salire sull'auto che doveva portarlo «in ufficio» fu avvicinato da un presunto ammiratore che, dopo essersi profuso in elogi, estrasse un coltello e lo colpì più volte.
Era un fanatico dell'Islam, che però fallì la sua missione di morte. Pur essendo diventato praticamente cieco, sordo e con il braccio sinistro offeso, Mahfuz riuscì a sopravvivere grazie alla sua indomabile forza di volontà. L'Egitto di ogni giorno se lo faceva descrivere dagli amici, alcuni intellettuali gli leggevano i giornali, affettuosi estensori raccoglievano le sue idee e le trasmettevano ai lettori.
«Rinnegare qualcosa? Pentirmi di che cosa?». Lo scrittore reagiva con fastidio appena qualcuno accennava ad un ripensamento. Mahfuz, laica coscienza critica di un Paese tumultuoso e di un mondo arabo che non ha ancora avuto il coraggio di cambiare, invece di moderarsi raddoppiava le provocazioni. Come quando mi disse d'essere favorevole alla clonazione degli esseri umani. Non convinto della risposta chiesi alla mia interprete, Dina Izzat, che doveva parlargli all'orecchio perché ormai il suo udito era quasi svanito, di ripetere la domanda. Dopo la terza conferma, l'autore della
Via dello zucchero alzò fieramente il capo come per dire: «Ha capito perfettamente!». Ci lascia oltre 60 libri, tra cui la memorabile Trilogia, Il vicolo del mortaio, Il giorno in cui fu ucciso il leader. E poi quell'irriverente I ragazzi del nostro quartiere, il racconto che gli ha procurato l'odio dei fanatici, e che agli occhi dei fondamentalisti suonava blasfemo come I
versi satanici di Salman Rushdie. In uno dei quartieri più popolari del Cairo, in mezzo al bazar di Hein el Khalili, c'è un raffinato bar-ristorante che porta il suo nome. Là, Mahfuz andava quando il locale poteva fondersi con gli odori e i sapori del vociante mercato che affascina i turisti di tutto il mondo. Probabilmente ha smesso di andarci anche perché il bar aveva dovuto dotarsi dell'atmosfera affettata di un ritrovo di lusso.
Allo scrittore piacevano le cose semplici. Negli ultimi anni riceveva in casa, con il suo pigiama a righe bianche e blu. Ti offriva caffè e succhi di frutta, che però allungava con l'acqua benedetta del suo Nilo. Ne conserviamo un ricordo- conseguenza decisamente fastidioso. Ma a Mahfuz tutto si perdona. Riposi in pace, vecchio leone. Lei non ha mai tradito la libertà.

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