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La Stampa Rassegna Stampa
31.08.2006 Abraham B. Yehoshua vorrebbe gli italiani anche a Gaza
l'opinione dello scrittore israeliano

Testata: La Stampa
Data: 31 agosto 2006
Pagina: 1
Autore: Abraham B. Yehoshua
Titolo: «Grazie Italia»

Pubblichiamo l'opinione dello scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua sull'attuale impegno internazionale dell'Italia, riprendendola dalla STAMPA del 31 agosto 2006:

SONO contento che l'Italia, senza inutili manierismi diplomatici, incertezze e calcoli, sia la prima nazione a inviare una forza internazionale di tremila soldati al confine tra Israele e Libano. In qualità di appartenente allo schieramento socialista fin dalla più giovane età mi sento ancor più soddisfatto che sia un governo di sinistra, sotto la guida di Romano Prodi, ad aver preso questa decisione coraggiosa. La sinistra europea, infatti, si è sempre mostrata riluttante a intervenire militarmente in conflitti internazionali, sia per via delle memorie del passato che di un'anacronistica visione romantica, nonché per il timore di essere sospettata di colonialismo.
RITENGO anche che le parole del ministro degli Esteri italiano Massimo D'Alema - che se la missione in Libano avrà successo, una simile forza militare potrà essere dispiegata anche al confine tra la Striscia di Gaza e l'Egitto dopo il raggiungimento di una tregua tra il governo dell'Autorità palestinese (Hamas compreso) e quello di Israele - rivelino lungimiranza e saggezza politica.
Concedetemi, con tutta la modestia possibile, di esprimere anche un senso di soddisfazione personale. Negli ultimi anni, infatti, da ogni ribalta pubblica o mediatica, ho cercato di convincere gli italiani, e tramite loro gli europei, a mostrare un maggior coinvolgimento nel conflitto arabo-israeliano e a esercitare pressioni politiche ed economiche sulle parti coinvolte in questo conflitto cronico e pericoloso. Ho cercato di spiegare agli europei che, nonostante io non rinneghi il grande aiuto e la sincera amicizia degli Stati Uniti nei confronti di Israele, la gestione americana del conflitto negli ultimi quarant'anni non ha recato gran beneficio. Il rapporto esageratamente emotivo che gli americani hanno con Israele, costruito su simboli mitici comuni ai due popoli - territori vergini, terra di immigrazione, unica democrazia - e l'eccellente apparato organizzativo della Lobby ebraica, che solitamente opera con successo a favore degli interessi battaglieri di gruppi della destra israeliana, non hanno favorito la pace in Medio Oriente. Il forte legame tra Israele e Stati Uniti ha addirittura peggiorato la già negativa immagine dello stato ebraico agli occhi degli arabi.
Non è compito di Israele, e non è nemmeno impresa conforme alle sue forze, essere il baluardo della civiltà occidentale dinanzi all'estremismo islamico. Su un piano ideologico Israele non è nemico dell'Islam e suo obiettivo è trovare un modus vivendi con il mondo arabo che lo circonda. Il problema fondamentale nei rapporti tra ebrei ed arabi in Medio Oriente, al di là della questione territoriale del controllo della Cisgiordania e delle alture del Golan, torna a essere, come in passato, quello della legittimità di una presenza ebraica in Medio Oriente e, ancor più, dell'esistenza stessa di uno stato ebraico. Le dichiarazioni estremistiche del presidente iraniano sono emblematiche. Israele e Iran non hanno un confine in comune e non hanno mai avuto motivo di controversia. Israele non ha mai occupato porzioni di territorio iraniano e fino alla presa del potere di Khomeini i rapporti tra le due nazioni erano ottimi. L'Iran non è nemmeno parte del mondo arabo e non ha quindi motivo di identificarsi con la sofferenza dei palestinesi più di quanto facciano i loro fratelli arabi in Giordania o in Egitto, che mantengono relazioni di pace con Israele. Eppure le dichiarazioni relative all'illegittimità di uno stato ebraico non giungono solo dall'Iran e dal mondo arabo ma rimbalzano come un'eco anche in determinati circoli occidentali e dell'est europeo.
L'ansia, la rabbia, la perplessità e l'ostilità che l'esistenza e l'identità ebraica hanno suscitato fin dall'antichità pulsano ancora nelle vene del mondo cristiano e musulmano. La memoria della Shoah non può essere un freno costante a vecchi virus antisemiti. Allorché udiamo le grida «morte a Israele» e vediamo l'aggressività degli Hezbollah o i razzi lanciati dalla Striscia di Gaza dopo il ritiro israeliano, lo smantellamento degli insediamenti e il disimpegno dell'esercito, abbiamo l'impressione che, in una parte della coscienza araba musulmana, le dichiarazioni di illegittimità dello stato ebraico si ricolleghino sostanzialmente alla negazione di un'esistenza nazionale ebraica.
Non voglio inoltrarmi in domande basilari sull'odio verso gli ebrei, da me già analizzate in dettaglio in un saggio pubblicato in diverse lingue. Occorre però tener presente che gli ebrei israeliani sono diversi dagli ebrei che la storia ha conosciuto per generazioni. Gli ebrei israeliani possiedono armi sofisticate, anche non convenzionali, e la memoria, amara come il fiele, dello sterminio e dell'umiliazione della Shoah. Essi combatteranno per la propria esistenza con tutte le loro forze. I raid su Beirut dell'aviazione israeliana, immediati e decisi, hanno dato solo una pallida idea di quanto Israele possa reagire con fermezza nel momento in cui si senta minacciato.
Israele si è sempre opposto a forze internazionali di interposizione tra esso e il mondo arabo. Ha sempre creduto che gli arabi dovessero riconoscere la sua esistenza e mantenere rapporti diretti col suo governo. E infatti, la pace raggiunta con la Giordania e l'Egitto è il risultato di contatti diretti tra Israele e i suoi vicini. Ma ultimamente, con il deterioramento della legittimità di Israele agli occhi di una parte del mondo musulmano e arabo, appare necessario l'intervento di una forza militare internazionale, non per proteggere Israele da attacchi nemici, questo Israele lo sa fare da sé, ma per ripristinare questa legittimità logorata.
È triste constatare che, dopo sessant'anni dalla sua fondazione, si assiste a una regressione in merito alla legittimità dello stato di Israele. Per evitare nuovi scenari di distruzione in Medio Oriente, come quelli delle ultime settimane, l'Europa, grazie alla propria posizione di prestigio nel mondo arabo, è tenuta a ribadire con forza la legittimità di Israele. In Israele si respira una atmosfera di avvilimento per il fatto che il suo esercito non sia riuscito a schiacciare l'organizzazione di Hezbollah. Molti israeliani che hanno vissuto per la prima volta l'esperienza di città bombardate da razzi e di lunghe settimane di permanenza nei rifugi, provano un senso di sconforto che potrebbe rivelarsi pericoloso e accrescere la loro violenza nei confronti dei palestinesi. Già ora vi sono avvisaglie di questa tendenza. La forza internazionale europea ha quindi l'importante compito di ripristinare la legittimità deteriorata di Israele agli occhi degli arabi da un lato, e di placare il senso di solitudine e la sete di vendetta degli israeliani dall'altro.
Agli inizi di luglio, dieci giorni prima dello scoppio della guerra, ho ricevuto in Italia il premio Viareggio per la letteratura internazionale. Si era allora al culmine dei Campionati mondiali di calcio. Io non sono un grande esperto di questo sport ma nel costante tentativo di esortare gli italiani a mostrarsi più attivi nella questione medio orientale ho promesso, di mia iniziativa, che l'Italia avrebbe avuto in premio la Coppa del mondo di calcio se si fosse mostrata più disponibile a un suo coinvolgimento nel conflitto. Ed ecco che la profezia si è avverata. L'Italia ha vinto la Coppa del mondo e sta per inviare una forza internazionale per mantenere la pace. Brava Italia.

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