Dietro i mea culpa dei burattini, la strategia del burattinaio Dan Vittorio Segre analizza i recenti "esami di coscienza" di Hamas ed Hezbollah
Testata: Il Giornale Data: 29 agosto 2006 Pagina: 6 Autore: R. A. Segre - Livio Caputo - Massimo Introvigne Titolo: «I «mea culpa» e il burattinaio di Teheran - La voce stonata di un governo anti israeliano - La rete sciita che può salvare il Medio Oriente»
Dal GIORNALE del 29 agosto 2006:
Il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah ha fatto, domenica, pubblica ammenda per aver provocato col rapimento di due soldati israeliani la reazione di Gerusalemme. A lui ha fatto eco, ieri da Gaza, il portavoce di Hamas, GhaziHammad, affermando alla radio israeliana che non si possono imputare all’occupazione tutti i mali dei palestinesi. Sono dichiarazioni sorprendenti per il loro realismo, coraggio intellettuale e politico, soprattutto nel clima di trionfalismo per la vittoria riportata in Libano sul nemico sionista e l’atmosfera di odio anti-israeliano e antisemita che dilaga - su comando o spontaneamente - fra le masse islamiche. È lecito pertanto chiederci che cosa le abbiano provocate. Ci sono, anzitutto, motivi locali. Il 51% dei libanesi chiede il disarmo delle milizie hezbollah (mentre l’80% della popolazione sciita si oppone). Il partito di Dio, pur offrendo ingenti somme per indennizzare i proprietari di immobili distrutti dall’aviazione israeliana, sa di perdere sostegno nell’opinione pubblica libanese che lo incolpa di essere la causa della guerra. Qualcosa di simile sta succedendo a Gaza e nella Cisgiordania dove le «vittorie» di Hezbollah e i lanci di missili contro il territorio israeliano non compensano i gravi problemi di sicurezza e i disastri economici provocati dalla sospensione degli aiuti economici imposti da Europa e Israele a seguito della costituzione di un governo che chiede la distruzione dello Stato ebraico. Prima di sapere se i lodevoli ripensamenti delle due organizzazioni terroriste, siano o no una «rondine» che annuncia la primavera, è necessario chiedersi, tenuto conto della loro dipendenza ideologica e finanziaria dall’Iran, se non si tratta di un mutamento di canovaccio nello «spettacolo di burattini» da parte del loro burattinaio. Il quale non più tardi di domenica, dopo aver decretato più volte l'impegno dell’Iran per distruggere Israele, ha ribadito che la forza nucleare, «diritto sacrosanto » del regime islamico, non è diretta contro nessuno, «neppure contro i sionisti». Per la capacità di dissimulazione istituzionalizzata per motivi storici e religiosi nella cultura sciita, è lecito chiedersi se non si tratti di un’offensiva del presidente iraniano per «addormentare » la volontà del pubblico israeliano favorevole a una guerra preventiva contro l’Iran (ed eventualmente contro la Siria) dopo aver corretto gli errori emersi nella campagna del Libano. Come, cioè, risvegliare in Israele il partito della pace in favore di negoziati a lungo termine per una pace illusoria, come illudere gli israeliani che «il lupo ha cambiato il pelo» e che l’obbligo di distruzione di Israele non era in definitiva che una «boutade» politica avventata. Il futuro dirà se Ahmadinejad sarà «miracolato» assieme a Nasrallah e a Hamas, oppure se Israele (sotto pressione dei «no global della pace») si troverà di fronte a una nuova trappola. Un segno lo si avrà con la costituzione della commissione di inchiesta sulla condotta della guerra del Libano. Se da essa il premier Omert, il ministro della Difesa Peretz, e il Capo di Stato Maggiore Halutz - principali responsabili degli errori in questa campagna - salveranno le loro poltrone avvalendosi del fatto che l’operazionemilitare, per quanto sballata, abbia portato al ravvedimento dei peggiori nemici di Israele, allora i «mea culpa» di Nasrallah e di Hamas avranno raggiunto lo scopo: intorpidire la volontà di combattere di Israele. Un obiettivo che il presidente iraniano si prefiggeva.
Deliri di onnipotenza e ostilità verso Israele.Un editoriale di Livio Caputo sulla politica estera del governo italiano:
Ci mancava solo il delirio di onnipotenza. Non contento di avere imbarcato l'Italia in una spedizione libanese rischiosa, costosa e priva del mandato necessario per attuare le risoluzioni 1559 e 1701 dell'Onu, il duo Prodi-D'Alema si è messo in testa di risolvere anche la questione palestinese, di fare «digerire» a Israele la presenza ai suoi confini di truppe di Paesi che non ne riconoscono l'esistenza e addirittura di inviare un corpo di spedizione dell'Onu a Gaza. Fiero, come dice lui, «di avere rilanciato il ruolo internazionale dell'Italia», il presidente del Consiglio ha preso a telefonare a destra e a sinistra come una specie di autoproclamato demiurgo mediterraneo e si è messo a fare da spalla a Kofi Annan che non ne ha mai combinata una giusta e che è prossimo alla scadenza del mandato. Dal canto suo il titolare della Farnesina, dopo avere irritato Israele e gli amici italiani dello Stato ebraico con gli ammiccamenti a Hezbollah, si è messo a inseguire l'impossibile progetto di schierare una forza internazionale a Gaza. È superfluo osservare la velleità di questi progetti, frutto solo della vanità dei protagonisti o di calcoli politici interni a una coalizione di centrosinistra in cui molti vedono l'intervento militare italiano in Libano in funzione antisraeliana. Il momento per rilanciare un qualsiasi negoziato è sbagliato: Israele è uscito traumatizzato dal conflitto, si sta rendendo conto che la forza internazionale che per la prima volta ha accettato alla sua frontiera non disarmerà Hezbollah né chiuderà le frontiere con la Siria e, per reazione, ha rimandato alle calende greche anche il piano di ritiro unilaterale dalla Cisgiordania, pilastro della campagna elettorale di Olmert. Finché Hamas non riconoscerà il diritto di Israele all'esistenza e rinuncerà alla violenza, premere su Gerusalemme perché rimetta in moto la Road Map sarebbe quasi un atto di ostilità. Pretendere poi che accetti nell'Unifil truppe di Paesi musulmani che da sempre si rifiutano di avere con lui rapporti diplomatici sembra eccessivo perfino per un antiisraeliano storico come Kofi Annan. Altrettanto irrealistico, ma diplomaticamente più insidioso è il progetto dalemiano di inviare un corpo di spedizione Onu anche a Gaza. Negli intenti di D'Alema, i Caschi blu dovrebbero proteggere la striscia contro le incursioni dell'esercito israeliano, e in cambio impedire che questa venga usata per lanciare missili contro il Sud dello Stato ebraico. Sembra una cosa ragionevole. Ma, per avere un senso, la missione dovrebbe fare ben altro: procedere al disarmo dei gruppi terroristici che lanciano attentati suicidi contro Israele, dare la caccia alle organizzazioni che rapiscono i giornalisti stranieri e li liberano solo dopo avergli imposto la conversione all'Islam, mettere fine al flusso proibito di armi verso coloro che vogliono combattere Israele fino alla sua distruzione. Sarebbe una superoperazione di polizia senza esclusione di colpi, con scontri, attentati suicidi e morti a ripetizione, cui nessuno Stato accetterebbe di partecipare e che il Consiglio di Sicurezza non ordinerà mai. Allora, qual è il reale intento di D'Alema? Costruire uno scudo dietro il quale i palestinesi possano fare ciò che vogliono, compresa la preparazione di attentati, senza che Israele possa più compiere incursioni preventive; porre le premesse perché il Palazzo di Vetro possa mettere quando vuole lo Stato ebraico sul banco degli imputati; legittimare a tutti gli effetti il governo di Hamas. Il ministro degli Esteri non ci riuscirà, ma il solo fatto che ne abbia parlato autorizza a pensar male.
Un editroriale di Massimo Introvigne invita a considerare con attenzione le correnti interne al mondo sciita ostili al khomeinismo, ad Ahmadinejad e a Hezbollah.I Ignorate dalla diplomazia italiana che preferisce andare a braccetto con i deputati del gruppo terrorisstico. Ecco il testo:
Ahmadinejad in Iran e Nasrallah a Beirut stanno cercando di rovesciare il tradizionale rapporto di forza nel mondo islamico, che vede gli sciiti (15%) subordinati ai sunniti (80%, mentre il rimanente 5% è costituito da denominazioni «minori»). Il piano preoccupa le monarchie tradizionali sunnite - Giordania, Marocco, Arabia Saudita - e perfino i sunniti di Al Qaida: se Bin Laden dialoga discretamente con Teheran, dal numero due Al Zawahiri ai comandanti di seconda generazione in Arabia Saudita, Pakistan e Irak è arrivata via internet una pioggia di critiche agli errori strategici e dottrinali di Hezbollah (e implicitamente di chi gli detta la linea, l'Iran). Sfruttare la rivalità fra sciiti e sunniti può essere una strategia per l'Occidente, ma rischia di destabilizzare le fragilissime democrazie in Irak e in Libano, che per sopravvivere hanno bisogno che le due branche dell'islam convivano e collaborino. Un illustre studioso della Shia, l'iraniano professore in America Vali Nasr, propone in un saggio su Foreign Affairs che sta facendo il giro della diplomazia mondiale (Vaticano compreso) il dialogo diretto con l'Iran e gli hezbollah come unica strada per evitare la guerra atomica, inevitabile perché l'Iran in un modo o nell'altro si doterà della bomba. La tesi ha il difetto di ignorare la natura millenarista e apocalittica dell'ideologia di Ahmadinejad e di Nasrallah: con chi aspetta la fine del mondo e lo sterminio finale degli ebrei non si può dialogare. C'è un'altra via. Le critiche durissime che le massime autorità religiose sciite libanesi stanno rivolgendo in questi giorni a Nasrallah, accusandolo di avventurismo e dichiarando che non rappresenta affatto tutti gli sciiti del Libano, costituiscono una novità storica che non va lasciata cadere. Tradizionalmente la Shia ha predicato l'obbedienza alle autorità costituite, chiunque fossero, e proprio nel mondo sciita è nato intorno alla Prima guerra mondiale il movimento moderato detto «costituzionalista», uno dei primi tentativi di conciliare pensiero islamico e democrazia moderna. Certo, tutto è cambiato con Khomeini e la rivoluzione iraniana del 1979. Ma Khomeini, che ha sostituito il costituzionalismo con la teocrazia del «governo del giurista islamico» non ha mai rappresentato tutto il mondo sciita, e non mancano i suoi critici nello stesso Iran. Il rappresentante più alto in grado al mondo della gerarchia degli sciiti (che, a differenza dei sunniti, hanno un «clero») è l'ayatollah Sistani di Najaf, in Irak, cauto ma intelligente protagonista del dialogo con l'Occidente e gli Stati Uniti. L'Azerbaijan, altro Stato a maggioranza sciita che naviga su un mare di petrolio, ha una gerarchia religiosa moderata, cui fa riferimento anche la minoranza sciita nella cristiana Georgia. Gli sciiti dell'Arabia Saudita, a lungo discriminati, sono ora in dialogo con il re Abdallah, che ha ottenuto successi significativi nel tentativo di sottrarli all'influenza iraniana. Ora anche in Libano la gerarchia sciita attacca gli Hezbollah. Non tutti gli sciiti sono terroristi. Dialogare con la Shia moderata e insistere sul fatto che la posizione sciita tradizionale è diversa da quella di Ahmadinejad e Nasrallah può essere una carta importante per isolare i terroristi e chi li sostiene. È un peccato che questi sviluppi sembrino sfuggire completamente a D'Alema, che continua a considerare come legittimi rappresentanti del mondo sciita solo gli Hezbollah e il governo di Teheran.
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