Hezbollah non disarma, ma non ha vinto la guerra nemmeno quella della propaganda, almeno nel mondo arabo
Testata: Il Foglio Data: 29 agosto 2006 Pagina: 1 Autore: la redazione - Amir Taheri - Amy Rosenthal Titolo: «Hezbollah non disarma e lo dice Prodi e Annan fingono di non sentire - Rancori a Beirut - Ecco perché Hezbollah non ha vinto (almeno in medio oriente) -La guerra ha fatto bene a Bibi Netanyahu, Olmert lo sa e ci pensa»
Dal FOGLIO del 29 agosto 2006:
Roma. Il governo italiano ha approvato, ieri, il decreto sulla missione militare in Libano, con circa 2.500 soldati. Il ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, ha parlato di “forte ripresa dell’iniziativa internazionale per la pace nell’intera regione”. Da Beirut, prima tappa di un tour di undici giorni in medio oriente, Kofi Annan, ha detto che “il disarmo di Hezbollah e il controllo dei confini sono importanti per l’unità nazionale del Libano”. Il segretario generale dell’Onu ha incontrato il premier Fouad Siniora e il ministro dell’Energia, Mohammed Fneish, membro di Hezbollah. Il presidente del Consiglio, Romano Prodi, ha evitato di rispondere nel merito ai giornalisti che chiedevano lumi sul netto rifiuto da parte del ministro del Lavoro libanese, Tarrad Hamade, dirigente di Hezbollah, di ogni ipotesi di disarmo delle milizie: “Le regole d’ingaggio sono chiarissime, poi ognuno fa le sue dichiarazioni”. La posizione di Hamade non riguarda le regole d’ingaggio, né si limita a essere semplice propaganda, evidenzia invece un secco rifiuto del senso complessivo della risoluzione 1.701 dell’Onu, mostrando un’ambiguità di fondo, non risolta, legata al documento. Nonostante Annan, ieri, abbia detto di avere ottenuto dal governo libanese e da quello israeliano l’impegno a rispettare la risoluzione 1.701, Hezbollah, protagonista del conflitto, accetta soltanto la prima parte della risoluzione: il cessate il fuoco, ma rifiuta di collaborare alla soluzione politica. Non ha mai infatti annunciato un disarmo. L’ipoteca che grava sulla missione dell’Unifil in Libano non riguarda più le regole d’ingaggio, ma proprio il rifiuto della principale condizione posta dallo stesso Prodi alla missione: Hezbollah continua a non accettare nel suo complesso la risoluzione 1.701 (mentre Israele l’ha approvata integralmente). A tutt’oggi, non esiste una sola dichiarazione o un solo documento ufficiale in cui il leader del Partito di Dio, Hassan Nasrallah, accetta le prescrizioni della 1.701. A fronte di questo significativo vuoto, Prodi sostiene che il 17 agosto il premier libanese Fouad Siniora “ha assicurato che Hezbollah ha accettato le disposizioni della risoluzione 1.701 e che collaborerà con la forza dell’Onu”. L’assicurazione non trova nessun riscontro ed è anzi smentita da Nasrallah e dai dirigenti di Hezbollah (e dai loro partner iraniani e siriani). In particolare, il leader sciita rigetta apertamente, con parole non equivocabili, il richiamo – ribadito dalla 1.701 – alla risoluzione 1.559 del 2004 che intimava il disarmo di Hezbollah: “Rispetteremo la cessazione delle ostilità; ma la guerra non è ancora finita. Continueremo la resistenza fino a quando il nemico continuerà l’aggressione. Non è il momento per discussioni pubbliche sul disarmo di Hezbollah, è immorale parlarne adesso. Qualcuno afferma che il disarmo della resistenza è la condizione essenziale per uno stato libanese forte. Io penso esattamente il contrario”.
Assicurazioni di seconda mano Questa posizione è sostenuta dal presidente libanese, Emile Lahoud: “In queste condizioni non è possibile richiedere il disarmo della resistenza senza risolvere prima i problemi che la resistenza solleva”. La voluta confusione – in cui i paesi che mandano i contingenti militari, Italia in testa, non si fanno carico di ottenere una accettazione aperta e piena da Hezbollah della risoluzione dell’Onu, accontentandosi di assicurazioni di seconda mano di un premier libanese che è ostaggio politico di Hezbollah – costituisce un’ipoteca drammatica. Si prospetta, infatti, la ripetizione del quadro tipico delle missioni dell’Onu, a partire da quella del Congo del 1961, in cui fu massacrato Patrice Lumumba: le faticose mediazioni lessicali degli ambasciatori, definite nell’asettico Palazzo di vetro, le volute ambiguità delle risoluzioni, sono meccanicamente trasferite su un terreno di battaglia, in cui vigono ben altre regole. Si inviano poche migliaia di Caschi blu a far da barriera tra eserciti armati in totale vuoto di strategia. La Francia, che ha ben chiara l’inattendibilità delle assicurazioni di Siniora su Hezbollah, non a caso ha tergiversato a lungo, richiedendo all’Onu la garanzia di regole d’ingaggio precise. L’Italia, invece, punta a un protagonismo effettivo del contingente internazionale, alla sua capacità di contribuire a impostare scenari di pace, non disarmando direttamente Hezbollah, ma assistendo il governo e l’esercito libanese ai quali la 1.701 assegna il compito. Ma l’esercito libanese è molto debole e ha limitata operatività sul piano militare.
Di seguito un articolo su un sondaggio che rivela: il 51% dei libanesi vuole il disarmo di Hezbollah:
Beirut. Un sondaggio pubblicato ieri dal quotidiano libanese francofono l’Orient le Jour prova che l’88 per cento dei libanesi sogna un paese al riparo dai conflitti regionali. Il 51 per cento vuole il disarmo di Hezbollah. Durante il weekend, il leader del Partito di Dio è apparso in televisione, intervistato dall’emittente libanese New- Tv. Ha detto che se avesse previsto l’entità della risposta israeliana, il suo gruppo non avrebbe rapito i due soldati di Tsahal, il 12 luglio. Ieri, da- Beirut, il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, nella prima tappa di un tour mediorientale, ha chiesto la liberazione dei due militari e la fine del blocco israeliano sul Libano. Il ministro degli Esteri italiano, Massimo D’Alema, ha invece smentito lo stesso leader del Partito di Dio, dichiarando che l’Italia non medierà nella questione prigionieri. Nasrallah è pronto a incontrare Annan. Il leader sciita, con l’intervista e il nuovo atteggiamento dialogante, si mette al riparo da chi, in Libano, gli chiede il conto della guerra. Sono soprattutto i politici e gli intellettuali del fronte del 14 marzo a farlo: chi dopo l’assassinio dell’ex premier Rafiq Hariri, il 14 febbraio 2005, ha portato nelle strade di Beirut migliaia di persone, il 14 marzo appunto, per manifestare contro l’egemonia siriana. Alcuni di loro hanno aperto un’inchiesta per indagare sulle circostanze che hanno portato al conflitto. La crisi in Libano ha rafforzato il rancore dei politici e della società civile verso l’asse Hezbollah-Siria- Iran. Gli attivisti libanesi antisiriani a Parigi danno la colpa della distruzione di Beirut più che alle bombe israeliane al movimento sciita. Alcuni intellettuali nei salotti francesi – che portanto ancora sul petto la spilla con il volto del giornalista assassinato, Samir Kassir – dicono al Foglio che Israele avrebbe dovuto colpire la Siria per impedire il riarmo degli Hezbollah dall’Iran. In una recente intervista Walid Jumblatt, leader druso, ha paragonato Nasrallah ad Adolf Hitler: “Anche il Führer ha ingigantito il senso d’onore della popolazione e ha guidato così la Germania verso la guerra”. L’agenzia di stampa iraniana, Irna, ha riportato le parole del Gran Muftì di Damasco, Sheikh Ahmad Badr el din Hassoun: “I giovani di Hezbollah temevano che la guerra terminasse prima di ottenere il martirio; gli israeliani, invece, avevano paura di morire”. L’attacco di Bashar el Assad Il 13 luglio, Jumblatt ha detto al Figaro che il movimento sciita è diventato un “satellite” dell’Iran. Qualche giorno dopo, sul quotidiano online liberale saudita, Elaph, ha ribadito che il popolo libanese “è ostaggio” dall’asse Damasco-Nasrallah-Teheran. “L’Iran vuole imporre attraverso la Siria un nuovo medio oriente. Il rapimento dei soldati israeliani non ha alcuna connessione con la richiesta del rilascio dei prigionieri libanesi a Israele, ma è collegato a specifici interessi dell’asse siriano-iraniano”. Sul sito Thissyria.net, Samir Geagea, capo maronita delle Forze libanesi, ha dichiarato che Hezbollah non persegue gli interessi del paese, ma della Siria e dell’Iran. “Ci sono molti prigionieri libanesi nelle carceri di Damasco – ha detto Geagea – Dovremmo quindi rapire qualche soldato siriano?”. I leader del 14 marzo continuano a rilasciare interviste per convincere la comunità internazionale a non cadere nella trappola dell’asse sciita. In risposta, il rais siriano Bashar el Assad, nel suo ultimo discorso, ha definito le forze del 14 marzo le “forze del 17 maggio”, data in cui, nel 1983, rappresentanti americani, libanesi e israeliani firmarono un accordo nel tentativo di mettere fine alla guerra civile. Era presidente Amin Gemayel, che oggi ritiene Hezbollah colpevole per i 33 giorni di guerra. “Negli anni 70 avevamo Fatah- land – ha detto riferendosi alla presenza delle milizie palestinesi in Libano durante la guerra civile – ora c’è Hezbollah-land”. Il fornte antisiriano a Beirut ha paura che il silenzio possa riportare il paese sotto il controllo non più solo di Damasco, ma anche di Teheran. Saad Hariri, figlio dell’ex premier, sul quotidiano saudita Okaz ha elogiato la posizione di Riad contro l’Iran (il regno aveva subito criticato l’attacco del Partito di Dio al convoglio israeliano) e ha detto di essere stanco degli slogan di Hezbollah. “Arriverà un giorno in cui faremo i conti”, ha detto.
Amir Taheri a pagina 3 dell'inserto spiega perché Hezbollah non ha vinto in Libano, nemmeno nella comunità sciita:
Dalle notizie trasmesse da tutti i media occidentali, Hezbollah sembra aver ottenuto una vittoria schiacciante contro Israele e gli Stati Uniti, sanato i dissapori tra sunniti e sciiti, e dato forza alla pretesa dei mullah iraniani di assumere la leadership del mondo musulmano. Il volto di Hassan Nasrallah, il giovane mullah alla testa del ramo libanese del movimento pansciita, ha campeggiato sulle copertine delle riviste di tutto l’occidente, ribadendo il messaggio che questo figlio della rivoluzione khomeinista sia il nuovo eroe della mitica “via araba”. Forse perché guarda molta Cnn, anche la guida suprema dell’Iran, Ali Khamenei, ha creduto a questa “vittoria divina” e ha chiesto ai 205 membri del suo majlis islamico di inviare un messaggio di congratulazioni a Nasrallah “per la sua sapiente e lungimirante conduzione della umma che ha portato alla grande vittoria in Libano”. Grazie al controllo del flusso delle informazioni provenienti dal Libano durante il conflitto e all’aiuto ricevuto da tutti coloro che non condividono la politica statunitense, Hezbollah ha probabilmente vinto la guerra mediatica in occidente. Ma in Libano, in medio oriente e nel mondo musulmano in genere, il quadro è decisamente diverso. Cominciamo dal Libano. Subito dopo l’ordine del cessate il fuoco stabilito dalle Nazioni Unite, Hezbollah ha organizzato una serie di spettacoli di fuochi d’artificio, distribuendo frutta e dolci per celebrare il trionfo. Tuttavia, la maggior parte dei libanesi, trovando l’idea sconveniente, non ha partecipato ai festeggiamenti. Quella che avrebbe dovuto essere “la più grande marcia della vittoria” di Beirut sud, la roccaforte di Hezbollah, ha attirato solo poche centinaia di persone. Inizialmente, gli Hezbollah non sapevano se festeggiare la vittoria o mettersi a lutto per piangere i loro “martiri”; la seconda opzione sarebbe stata più in sintonia con la tradizione sciita, incentrata com’è sul culto del martirio dell’imam Hussain nel 680 d.C. Alcuni membri di Hezbollah avrebbero voluto giocare la carta del martirio per poter accusare Israele – e anche gli Stati Uniti – di crimini di guerra. Erano consapevoli che per gli sciiti, allevati in una cultura di eterno vittimismo, sarebbe stato più facile piangere su una calamità immaginata che ridere di gioia per una vittoria dichiarata. Dal punto di vista politico, Hezbollah ha dovuto dichiarare il trionfo per una semplice ragione: doveva dare a intendere che la morte e la desolazione che aveva provocato erano servite a qualcosa. Una dichiarazione di vittoria sarebbe stata lo scudo di Hezbollah contro le critiche mosse a una strategia che aveva portato il Libano a una guerra all’insaputa del suo governo e della sua gente (…). La tattica ha funzionato per un paio di giorni. Ma non è bastata a zittire i critici, che negli ultimi giorni si sono fatti sempre più severi. I leader del movimento “14 Marzo”, il partito che detiene la maggioranza in Parlamento e nel governo libanese, hanno chiesto l’apertura di un’indagine per capire meglio le circostanze che hanno condotto alla guerra, percorrendo una via indiretta per accusare Hezbollah di avere provocato la tragedia. Il primo ministro, Fouad Siniora, ha affermato che non permetterà a Hezbollah di continuare a vivere come uno stato dentro lo stato. Anche Michel Aoun, leader cristiano maronita e alleato tattico di Hezbollah, ha chiesto lo scioglimento della milizia sciita. Dopo la dichiarazione di vittoria, Nasrallah ha proseguito quella che è stata definita “L’inondazione verde” (Al-sayl al-akhdhar), in riferimento alle ingenti quantità di banconote verdi (i dollari americani) che Hezbollah sta distribuendo tra gli sciiti a Beirut e nel sud. I dollari dell’Iran vengono traghettati a Beirut passando per la Siria e distribuiti tramite le reti dei militanti. Chiunque provi che la sua casa ha subito danni a causa della guerra riceve 12 mila dollari. L’inondazione verde è stata decisa per mettere a tacere i detrattori di Nasrallah e dei suoi capi a Teheran, ma non sembra che il giochetto stia funzionando. “Se Hezbollah ha vinto, è stata una vittoria di Pirro – afferma Walid Abi-Mershed, noto giornalista libanese – Ha fatto pagare un prezzo troppo alto al Libano, e per questo deve essere ritenuto responsabile”. Hezbollah è criticato anche all’interno della comunità sciita libanese che corrisponde al 40 per cento circa della popolazione. Sayyed Ali al Amin, il grande vecchio dello sciismo libanese, ha rotto un lungo periodo di silenzio per criticare Hezbollah per avere provocato la guerra e ha chiesto il suo disarmo. In un’intervista concessa al quotidiano Beirut an-Nahar, al Amin ha respinto l’affermazione secondo cui Hezbollah rappresenterebbe l’intera comunità sciita: “Non credo che abbia chiesto alla comunità sciita cosa pensasse dell’idea di iniziare la guerra. Il fatto che masse (di sciiti) siano fuggite dal sud dimostra che non approvavano la guerra. La comunità sciita non ha mai concesso a nessuno il diritto di scatenare guerre a suo nome”. Ma ci sono stati attacchi anche più duri. Mona Fayed, illustre docente sciita all’università di Beirut, ha scritto un articolo che è stato pubblicato anche da an-Nahar, chiedendo: “Chi è sciita in Libano oggi?” e fornendo una risposta sarcastica. “Sciita è colui che riceve istruzioni dall’Iran, terrorizza i propri compagni di fede fino a ridurli al silenzio e conduce la nazione alla catastrofe senza consultare nessuno. Un altro accademico, Zubair Abboud, scrivendo su Elaph, notiziario online in lingua araba, ha attaccto gli Hezbollah e accusando Nasrallah di mettere a repentaglio la vita del Libano per servire le ambizioni territoriali dell’Iran. Prima di provocare la guerra, Nasrallah stava già ricevendo critiche sempre maggiori non solo dal mondo sciita, ma anche dall’interno del gruppo Hezbollah. Alcuni componenti dell’ala politica dell’organizzazione avevano espresso insoddisfazione per l’eccessivo accento che Nasrallah già poneva sull’apparato militare e di sicurezza del movimento. Parlando sotto garanzia di anonimato, essi avevano descritto lo stile di Nasrallah “stalinista”, sottolineando il fatto che il consiglio per la direzione del partito (la shura) non teneva una sessione plenaria da cinque anni. Nasrallah prendeva tutte le decisioni più importanti soltanto dopo essersi consultato con i suoi contatti iraniani e siriani, e durante le sue visite ufficiali a Teheran si assicurava incontri in solitaria con la guida suprema dell’Iran, Ali Khamenei. Nasrallah giustificava il suo comportamento sostenendo che il coinvolgimento di troppe persone nel processo decisionale avrebbe permesso al “nemico sionista” di infiltrarsi più facilmente nel movimento. Dopo avere ricevuto il via libera dall’Iran per provocare la guerra, ha agito senza informare nemmeno i due ministri Hezbollah del gabinetto di Siniora, né i 12 membri Hezbollah del Parlamento libanese. Nasrallah è stato poi criticato anche per avere riconosciuto Ali Khamenei come il Marja al Taqlid (Fonte di emulazione), la più alta autorità teologica dello sciismo. Per sottolineare la sua bay’aah (fedeltà) a questa figura, Nasrallah bacia la mano di Ali Khamenei ogni volta che lo incontra (…). La stragrande maggioranza di sciiti libanesi considera piuttosto il grande ayatollah Ali Sistani, iracheno, o l’ayatollah Muhammad Hussein Fadlallah, di Beirut come “Fonte di emulazione”. Inoltre, alcuni sciiti libanesi mettono in dubbio la strategia di opposizione di Nasrallah al “progetto di pace” promosso dal premier Siniora e propongono, in alternativa, un “progetto di sfida” con il sostegno dell’Iran. La coalizione guidata da Siniora vuole costruire un Libano pacifico nel cuore di una zona turbolenta. I suoi oppositori liquidano questo disegno definendolo un piano “per creare una Monaco più grande”, mentre il “progetto di sfida” di Nasrallah mira a trasformare il Libano nella prima linea della difesa iraniana in una guerra tra civiltà in cui l’islam (sotto la guida di Teheran) si scontra con gli “infedeli”, con a capo l’America. “La scelta è tra la spiaggia e il bunker”, afferma lo studioso libanese Nadim Shehadeh. Chiaramente, la maggioranza degli sciiti libanesi preferirebbe la spiaggia. C’è stato un tempo in cui gli sciiti erano una sottoclasse di contadini poveri e sporchi del sud, con qualche sporadico elemento a Beirut. Negli ultimi 30 anni circa, invece, il quadro è cambiato. Il denaro inviato dagli sciiti immigrati in Africa occidentale (dove dominano il commercio dei diamanti) e negli Stati Uniti (in particolare nel Michigan) ha contribuito a creare un prospero ceto medio sciita che è più interessato alla bella vita che al martirio alla imam Hussain. Questa nuova borghesia sciita sogna di vivere in un luogo che sia all’avanguardia della politica libanese e spera di potere sfruttare il vantaggio demografico della comunità come un trampolino di lancio per la leadership nazionale. E Hezbollah, a meno che non cessi di essere uno strumento della politica iraniana, non può realizzare quel sogno Lungi dal rappresentare il consenso nazionale libanese, Hezbollah è un gruppo settario che si regge su una milizia addestrata, armata e controllata dall’Iran. Per dirla con le parole di Hossein Shariatmadari, editore del quotidiano iraniano Kayhan, “Hezbollah è l’Iran in Libano”. Alle elezioni municipali del 2004, Hezbollah ha ottenuto il 40 per cento circa nelle aree sciite, mentre il resto della popolazione ha votato il rivale Amal (Speranza) e altri candidati indipendenti. Alle ultime elezioni generali dell’anno scorso, Hezbollah ha ottenuto solo 12 dei 27 seggi assegnati agli sciiti, tra i 128 totali dell’Assemblea nazionale, a dispetto delle alleanze con i partiti cristiani e druse, e nonostante la spesa di ingenti somme di denaro iraniano per comprare i voti. La posizione di Hezbollah non è più sicura nemmeno nel mondo arabo, dove il movimento è visto come uno strumento in mano all’Iran piuttosto che l’avanguardia di un nuovo Nahda (risveglio), come sostengono i media occidentali. Il gruppo ha ancora potere perché ha armi, denaro e sostegno dall’Iran, dalla Siria e da tutti i paesi che odiano l’America, ma la lista dei più illustri scrittori arabi, sia sciiti sia sunniti, che hanno descritto Hezbollah per quello che è, un cavallo di Troia khomeinista, sarebbe troppo lunga da inserire in un unico articolo. E stanno cominciando a sollevare il velo del silenzio per rivelare quello che è veramente successo in Libano. Ora che ha perso più di 500 dei suoi combattenti e che quasi tutti i suoi missili a medio raggio sono andati distrutti, Hezbollah potrebbe avere qualche difficoltà a continuare a sostenere la tesi della vittoria. “Hezbollah ha vinto la guerra di propaganda perché molti in occidente hanno voluto che vincesse per accumulare qualche punto contro gli Stati Uniti”, spiega il giornalista egiziano Ali al Ibrahim. Ma gli arabi sono diventati abbastanza intelligenti da distinguere tra una vittoria televisiva e una vera”. Se Hezbollah non ha vinto, ha vinto Israele? Lo si vedrà in futuro: un editoriale spiega a quali condizioni lo si potrà affermare:
Osservatori internazionali e israeliani, come l’ex ministro laburista Shlomo Ben-Ami, vedono nella situazione che si è creata con l’intervento delle forze Onu sul confine libanese l’opportunità di una ripresa di trattative tra Israele e paesi arabi, palestinesi compresi. In questa novità vedono una sconfessione o addirittura una sconfitta della linea dei ritiri unilaterali adottata da Ariel Sharon e seguita nel programma di Kadima. Su quest’analisi, che coglie un punto reale, cioè la possibilità di riannodare negoziati dopo la reazione all’aggressione Hezbollah, pesa un pregiudizio, quello di chi non si rende conto che l’unilateralismo israeliano è stato l’effetto, non la causa, dell’assenza di interlocutori credibili per trattare una coesistenza non precaria. I nemici di Israele (e, se è lecito dirlo, dell’occidente), Iran, Siria, Hamas, Hezbollah e naturalmente al Qaida, hanno sempre puntato su una condizione di non pace e non guerra, che mantenesse Israele sotto scacco, continuamente attaccata da attentati e lanci di ordigni, ma impossibilitata a reagire contro l’aggressore asimmetrico. A questo Israele ha risposto con la duplice strategia dei ritiri unilaterali, dal Libano, da Gaza e in prospettiva dalla Cisgiordania, e della reazione militare agli attacchi provenienti dalle zone da cui si era ritirato. Così ha fatto fallire, seppure a carissimo prezzo, i progetti mal calcolati di Hamas, che ora è costretto a cedere il monopolio governativo, e degli Hezbollah. E’ questo che ha indotto l’Europa, che si era un adagiata in una comoda ininfluenza, ad assumersi qualche responsabilità reale. Se si aprisse davvero uno spazio per trattare una coesistenza nella sicurezza, questo sarebbe il massimo risultato della strategia israeliana, che pure è tanto contestata in patria (non da chi vuole una trattativa, ma da chi lamenta che l’attacco al Libano non sia andato fino in fondo, cioè fino a Damasco). Il fatto è che, purtroppo, la trattativa ancora non c’è perché gli interlocutori ancora mancano, per il rifiuto a riconoscere l’esistenza di Israele, che è e resta il discrimine fondamentale.
Nella politica interna israeliana, intanto, è certo che la guerra in Libano ha indebolito il governo Olmert e rafforzato il Likud di Netanyahu. Ecco il testo di un articolo di Amy Rosenthal:
Gerusalemme. Aumentano da parte dei deputati laburisti alla Knesset, il Parlamento israeliano, le critiche nei confronti del ministro della Difesa, Amir Peretz, sulla gestione della crisi libanese. C’è chi non nasconde che i giorni al potere del leader laburista siano contati. Ma Peretz non è l’unico a subire l’effetto negativo della guerra contro Hezbollah. La coalizione di governo del premier Ehud Olmert è instabile e oggetto di forti critiche dopo l’operazione libanese. Un sondaggio del quotidiano Yediot Ahronoth ha mostrato che il 63 per cento degli israeliani vuole le dimissioni del primo ministro. Un numero ancora più alto di cittadini è insoddisfatto dal lavoro del suo collega Peretz. Maariv ha pubblicato un altro sondaggio, giungendo alle stesse conclusioni. Soltanto il 14 per cento degli intervistati ha detto che voterebbe oggi per Olmert. Le voci di un possibile rimpasto dell’esecutivo si fanno sempre più insistenti. Si pensa che Olmert potrebbe invitare a far parte della compagine di governo diverse forze d’opposizione, forse addirittura il Likud di Benjamin Netanyahu. Anche perché, altri sondaggi provano uno spostamento a destra dell’elettorato in seguito al conflitto. Se si votasse oggi, in Israele, i partiti di destra avrebbero la meglio su Kadima e Avoda. Secondo un sondaggio del canale israeliano Channel 2, se si tenessero elezioni oggi, in Israele, il Likud e Israel Beiteinu, partito di Avigdor Lieberman, otterrebbero ciascuno 24 seggi; Kadima andrebbe da 29 a 14: Avoda da 19 a nove. Secondo Michael Oren, Senior Fellow allo Shalem Center di Gerusalemme, “il Likud penserà ad accettare un posto nella coalizione guidata da Ehud Olmert soltanto quando l’idea di altri ritiri dai territori palestinesi sarà cancellata dall’agenda”. Anche il deputato del Likud, Yuval Steinitz, pensa che per ora sia troppo presto per parlare di accordi, ma per un diverso motivo: “Il Likud non accetterà di entrare in coalizione con Olmert se il governo prima non deciderà di portare a termine un’inchiesta sulla gestione della guerra in Libano. Ripeto le parole di Netanyahu: ci sono semplicemente troppe variabili al momento”. Anche Daniel Doron, direttore dell’Israel Center for Social & Economic Progress, sostiene che Netanyahu non accetterebbe per ora di entrare in una coalizione con il primo ministro: “E’ necessario costruire una nuova destra e Netanyahu sta lavorando in questa direzione. Non vuole compromettere i risultati ottenuti come partner di una coalizione instabile”. Sostiene Oren che tatticamente per il Likud “sarebbe meglio rimanere all’opposizione in modo da far cadere il governo centrista di Olmert e riemergere in primo piano alle prossime elezioni”. Sono tutti d’accordo: Netanyahu ha agito con grande prudenza durante la guerra in Libano. E’ sicuramente tornato sulla scena come leader e potenziale rivale del primo ministro. “Netanyahu è di certo riuscito a valutare il pericolo in anticipo – spiega sempre Oren – La sua ripresa è una lezione sulla varietà della politica israeliana. E’ stato cancellato dopo aver guidato il Likud alla sua più grande sconfitta elettorale. Ora è percepito come un serio rivale di Olmert per il premierato”. Benjamin Netanyahu non è l’unico possibile antagonista del primo ministro. Avigdor Lieberman, leader di Israel Beiteinu, non è lontano dal capo del Likud nei consensi. “Era percepito, prima, come un politico di estrema destra – spiega Oren – oggi, invece, gli israeliani cercano disperatamente una figura forte per la carica di primo ministro”. Ci sono due elementi che lavorano a vantaggio di Lieberman: è visto come un personaggio non appartenente all’élite politica; la controparte araba è intimorita da lui. “Mi sono reso conto dell’enorme popolarità di Lieberman – racconta Oren – mentre ero al nord come riservista nell’esercito durante la guerra. Tutti i soldati con cui ho parlato mi hanno detto che lo voteranno alle prossime elezioni”. Si tratta di un sentimento diffuso non soltanto tra i militari, ma anche tra gran parte della popolazione israeliana. Il deputato Steinitz del Likud pensa che Lieberman “potrebbe andare bene per una coalizione di centrodestra e per noi potrebbe essere un buon alleato”. L’analista Doron è d’accordo: “Lieberman sarebbe un buon alleato per il Likud, soprattutto su questioni di sicurezza interna. Ma non ha il savoir faire da statista di Netanyahu né tantomeno il suo intuito in economia”. Certo è che in questi giorni il sostegno pubblico degli israeliani per il governo di Olmert è drammaticamente diminuito e che la sua coalizione barcolla. La destra all’opposizione lo sa bene e non mancherà di approfittare della situazione per tornare sulla scena da protagonista.
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