Viaggio nel totalitarismo islamico la propaganda della rivoluzione islamica iraniana, la jihad filonazista di Haji Amin al Husseini
Testata: Il Foglio Data: 26 agosto 2006 Pagina: 2 Autore: Massimiliano Lenzi - Carlo Panella Titolo: «LA RIVOLUZIONE SUI MURI DI TEHERAN - FASCISLAM»
Da Il FOGLIO del 26 agosto 2006:
La rivoluzione islamica nei manifesti khomeinisti è l’anatomia di un regime raccontata attraverso i suoi slogan di propaganda politica. La manipolazione e l’inganno sono, nell’era delle folle e della piazza, un linguaggio di comunicazione e, al tempo stesso, il ritratto di un sistema di potere che fa leva soprattutto sull’emotività delle masse. In Iran, dopo la destituzione dello Scià e la salita al potere dell’ayatollah Khomeini, i poster della rivoluzione hanno incarnato, da subito, le tre linee guida dell’attuale regime iraniano: antioccidentalismo, integralismo religioso e dialettica amico/nemico. Un libro, “Ondate rivoluzionarie, l’arte del manifesto politico”, scritto dal politologo statunitense Jeffrey T. Schnapp e pubblicato dalla casa editrice Skira ne traccia la storia iconografica, confrontandola con i linguaggi politici delle democrazie occidentali e dei totalitarismi europei che hanno segnato il Ventesimo secolo. Punto di partenza è il pugno di Allah, il primo manifesto celebrativo della rivoluzione khomeinista che compare per la prima volta sui muri di Teheran nel febbraio del 1980. Il titolo è emblematico: “Il pugno, in nome di Dio misericordioso”. La semantica delle immagini è didascalica: la mano chiusa (citazione delle rivoluzioni comuniste i cui regimi saranno, fin quasi al loro crollo, sostenitori del regime iraniano in chiave anti- Usa), attaccata saldamente al braccio, per esprimere la forza di un rivolta che non accetta mediazioni. I volti anonimi della folla, ritratti in fotografia dentro al pugno, sono tutti di uomini, delle donne neanche l’ombra. In questo caso i segni grafici sono premonitori di quella che sarà la politica del regime: riduzione dei diritti (a partire da quelli delle donne) e imposizione, autoritaria, di una rigida ortodossia religiosa. Pochi mesi dopo la pubblicazione di questo manifesto politico l’apparizione in pubblico di una donna, con la testa scoperta, sarebbe stata considerata addirittura un crimine e non solo un peccato. Non manca poi la celebrazione del profeta esiliato: è il poster che magnifica il ritorno in Iran e la conquista del potere da parte dell’ayatollah Khomeini. Il concetto è espresso dal richiamo al versetto coranico: “La verità è giunta e la falsità è fugata” (Sura 17, 81), riportata sia in arabo sia in inglese, perché il messaggio della rivoluzione fosse chiaro anche (e soprattutto) all’estero. Di seguito, una scritta in persiano: “Congratulazioni a tutti i musulmani e ai popoli oppressi del mondo, ai fratelli e alle sorelle iraniani, nel primo anniversario della Rivoluzione islamica, 11 febbraio 1980”. Il linguaggio punta già, in maniera diretta, ad internazionalizzare l’idea e la volontà dell’Islam che non deve rimanere chiusa nei confini dell’Iran. Il Bene (Khomeini, rientrato trionfante dall’esilio francese) ed il Male (lo Scià, in fuga, ed i suoi amici occidentali) sono già ben definiti: l’ayatollah e la religione coranica rappresentano la Verità. La pubblicazione del poster segnerà, in Iran, anche l’inizio di un obbligo: cominciare ogni frase con le parole “Nel nome di Allah, generoso e La rivoluzione islamica nei manifesti khomeinisti è l’anatomia di un regime raccontata attraverso i suoi slogan di propaganda politica. La manipolazione e l’inganno sono, nell’era delle folle e della piazza, un linguaggio di comunicazione e, al tempo stesso, il ritratto di un sistema di potere che fa leva soprattutto sull’emotività delle masse. In Iran, dopo la destituzione dello Scià e la salita al potere dell’ayatollah Khomeini, i poster della rivoluzione hanno incarnato, da subito, le tre linee guida dell’attuale regime iraniano: antioccidentalismo, integralismo religioso e dialettica amico/nemico. Un libro, “Ondate rivoluzionarie, l’arte del manifesto politico”, scritto dal politologo statunitense Jeffrey T. Schnapp e pubblicato dalla casa editrice Skira ne traccia la storia iconografica, confrontandola con i linguaggi politici delle democrazie occidentali e dei totalitarismi europei che hanno segnato il Ventesimo secolo. Punto di partenza è il pugno di Allah, il primo manifesto celebrativo della rivoluzione khomeinista che compare per la prima volta sui muri di Teheran nel febbraio del 1980. Il titolo è emblematico: “Il pugno, in nome di Dio misericordioso”. La semantica delle immagini è didascalica: la mano chiusa (citazione delle rivoluzioni comuniste i cui regimi saranno, fin quasi al loro crollo, sostenitori del regime iraniano in chiave anti- Usa), attaccata saldamente al braccio, per esprimere la forza di un rivolta che non accetta mediazioni. I volti anonimi della folla, ritratti in fotografia dentro al pugno, sono tutti di uomini, delle donne neanche l’ombra. In questo caso i segni grafici sono premonitori di quella che sarà la politica del regime: riduzione dei diritti (a partire da quelli delle donne) e imposizione, autoritaria, di una rigida ortodossia religiosa. Pochi mesi dopo la pubblicazione di questo manifesto politico l’apparizione in pubblico di una donna, con la testa scoperta, sarebbe stata considerata addirittura un crimine e non solo un peccato. Non manca poi la celebrazione del profeta esiliato: è il poster che magnifica il ritorno in Iran e la conquista del potere da parte dell’ayatollah Khomeini. Il concetto è espresso dal richiamo al versetto coranico: “La verità è giunta e la falsità è fugata” (Sura 17, 81), riportata sia in arabo sia in inglese, perché il messaggio della rivoluzione fosse chiaro anche (e soprattutto) all’estero. Di seguito, una scritta in persiano: “Congratulazioni a tutti i musulmani e ai popoli oppressi del mondo, ai fratelli e alle sorelle iraniani, nel primo anniversario della Rivoluzione islamica, 11 febbraio 1980”. Il linguaggio punta già, in maniera diretta, ad internazionalizzare l’idea e la volontà dell’Islam che non deve rimanere chiusa nei confini dell’Iran. Il Bene (Khomeini, rientrato trionfante dall’esilio francese) ed il Male (lo Scià, in fuga, ed i suoi amici occidentali) sono già ben definiti: l’ayatollah e la religione coranica rappresentano la Verità. La pubblicazione del poster segnerà, in Iran, anche l’inizio di un obbligo: cominciare ogni frase con le parole “Nel nome di Allah, generoso e misericordioso”, versetto che è stampato a caratteri cubitali sul manifesto. Quella dell’accostamento tra il corpo umano, Dio e il carattere ineluttabile della rivoluzione resterà una costante nella pubblicistica celebrativa del regime. Nel 1979, pochi mesi dopo la sua salita al potere, il Partito islamico rivoluzionario commissionerà la realizzazione di un’immagine di propaganda, una sorta di promemoria per il futuro. Due dita a forma di V, in segno di vittoria, su un fondale nerissimo e con dietro un sole artificialmente rosso, ad evocare il sangue ma anche a richiamare il futuro. Le parole, a corredo, saranno poche e telegrafiche: “Congratulazioni per la vittoria, Partito islamico rivoluzionario”. Pochi mesi, e quel partito rivelerà la sua missione concreta: un vero e proprio braccio armato per ottenere e mantenere l’egemonia del clero su ogni sfaccettatura della vita, della politica, del commercio e della cultura islamici. Ci sarà un futuro ma c’è anche un passato. Come in ogni mito che si rispetti, la rivoluzione islamica, salita al potere, si trova a dover fare i conti con la costruzione, ad uso del popolo, della propria storia. Cosa c’era prima della conquista del potere? Com’è stata la vita di Khomeini esiliato? Quali sono stati i nemici? La linea elementare da seguire sarà quella del sacrificio e dell’eroismo, nel nome di Allah misericordioso. Il protagonista sarà ancora una volta lui, l’ayatollah Khomeini. La data di inizio del viaggio rivoluzionario a ritroso viene identificata nel 3 giugno 1963 e verrà ricordata, nei libri di storia ufficiale, come la prova generale della Rivoluzione islamica. Quel giorno l’Ayatollah pronuncia uno dei discorsi più accesi e feroci contro gli Stati Uniti e lo Scià, al seminario Faziye della città di Qom. Forse non a caso l’evento coincise con il giorno più importante del calendario sciita, in cui si commemorava la brutale uccisione di Hussein, il terzo Imam, e di settantadue suoi discepoli ad opera degli uomini del califfo Yazid. Ogni anno, dal 680, gli sciiti ricordano la morte di Hussein con grande partecipazione emotiva, rivivendo insieme la battaglia che introdusse nella religione sciita l’esaltazione del martirio e l’idea che i giusti, come Hussein, siano membri di una minoranza perseguitata che chiede giustizia. Nel 1963, la feroce opposizione all’allora recente legge che garantiva ai militari americani l’immunità dalle azioni penali dei tribunali iraniani catapultò al centro della politica del paese l’ayatollah Khomeini, che due giorni dopo la sua arringa venne arrestato. Subito i suoi seguaci scesero in strada ma l’insurrezione venne repressa dalla forze armate iraniane e non si seppe mai il numero dei morti di quella giornata. I gruppi religiosi, in assenza di stime ufficiali (quelle ufficiose, fornite da ambienti vicini al governo dello Scià, parlavano di un centinaio di persone), puntarono forte sulla propaganda della strage e cominciarono a parlare di migliaia e migliaia di sciiti uccisi dai soldati. La riproposizione dell’immagine del giusto Hussein (che dava un’identità di martirio al movimento rivoluzionario) consentì, insieme alla conta dei cadaveri presunti, a Khomeini di tener vivo il ricordo di quell’insurrezione di giugno sino al 1979, anno della Rivoluzione islamica. Un ricordo che, il regime degli Ayatollah, non dimenticherà di celebrare una volta al potere. E lo farà, per l’ennesima volta, attraverso un manifesto. L’immagine scelta raffigura una mano insanguinata, violata dalle ferite ma sicura che scrive su un muro, con il proprio sangue, la data del 3 giugno 1963. E’ il sangue dei martiri che tiene acceso il ricordo dei vivi. E’ il mito preistorico di una rivoluzione religiosa che ha tutti gli ingredienti per perpetuarsi e per proporsi come modello al mondo islamico: c’è la strage degli sciiti, c’è il profeta Hussein (un’ossessione che si riaffaccia sempre), c’è l’eroe Khomeini, c’è il nemico americano e occidentale. Il poster commemorativo, finanziato dal Partito della Repubblica Islamica materializza anche la celebrazione del potere clericale sull’Iran. In quel partito, infatti, tra i fondatori figurano Ali Khamenei, attuale leader spirituale del paese, e Akbar Hashemi Rafsanjani, l’ex presidente. La propaganda, poi, non dimentica di celebrare i diseredati dell’Islam. E’ un altro aspetto dell’ideologia khomeinista, soprattutto nei mesi precedenti e successivi alla presa del potere: quello che tenta di legare la miseria delle masse arabe, la loro povertà, all’idea necessaria di rivoluzione religiosa (un modello, questo, in parte mutuato dalle rivoluzioni comuniste). E’ il caso del manifesto “L’organizzazione dei diseredati per la rivoluzione islamica”, del 1979. Alcuni concetti essenziali dell’islamismo – e questo manifesto ben li rappresenta – sono ritenuti retaggio di idee pre-islamiche, in particolare la dottrina del Messia e del suo ritorno. In contrasto con il credo dei musulmani sunniti, gli sciiti sono convinti che il profeta Maometto avesse scelto il suo successore Alì e ritengono che Dio avesse comandato a quest’ultimo di guidare la società islamica insieme ai suoi 11 discendenti. Gli sciiti ritengono che il dodicesimo Imam, Mohammad al Mahdi (il messia) si stia celando e riapparirà, un giorno, per realizzare la promessa di un paradiso in terra. Il rosso nel manifesto sui diseredati è un esplicito riferimento al sangue dei martiri e i rivoluzionari iraniani sono presentati quali precursori della riscossa globale dell’Islam. In alto si legge il versetto: “Non c’è altro dio che Allah” e al centro, “Gloria alla bandiera del governo dell’imam Mahdi”. In sintesi, il messaggio del manifesto è: la rivoluzione iraniana aprirà la strada al ritorno del Messia e all’istituzione di un governo islamico mondiale che riscatterà i diseredati musulmani. L’unità del popolo islamico è un carattere che fa capolino anche in un manifesto degli anni Ottanta. La sua spiegazione è nel titolo: “La potenza di una nazione ridestata vince sugli eserciti di tutte le superpotenze. Firmato, Imam Khomeini”. Il periodo è quello della guerra tra Iran e Iraq. La grafica è ancora una volta caratterizzata da una mano insanguinata (il riferimento è, anche in quest’occasione, al martirio di Karbala), con in sottoimpressione degli uomini che si lanciano contro missili e carri armati. Una simbologia scelta dai propagandisti per raffigurare la supremazia della fede islamica sulle sofisticate armi occidentali. I colori del manifesto, blu, bianco e rosso, sono esplicito riferimento alla bandiera degli Stati Uniti, il nemico da abbattere. Segni, simboli, fotografie, slogan: la storia dei manifesti politici khomeinisti trova il suo contrappasso, semantico e pratico, nel linguaggio dei poster delle democrazie moderne. L’opinione pubblica, puro contorno nella rivoluzione di Allah, diventa, nelle propagande occidentali, destinatario finale di messaggi, anch’essi certo manipolatori e persuasivi, ma che hanno lo scopo di ottenere il consenso ad una proposta politica. La partecipazione alla vita della nazione, in questo caso, non passa attraverso la catarsi di un profeta ma attraverso il voto elettorale. Ecco, allora, che i manifesti rappresentano, letteralmente e materialmente, un ponte fra la sfera pubblica, costituita dalle comunicazioni di massa, e gli spazi pubblici che sono il teatro vero della politica. Siamo nel linguaggio della politica di massa ma con possibilità di scelta finale. Gustave Le Bon, il sociologo delle folle, descriveva l’irrazionalità delle masse in poche righe: “Qualsiasi idea venga suggerita alle folle può avere un’effettiva influenza a patto che assuma una forma assoluta, costante e semplice. Allora le idee si presentano sotto forma di immagini, e per le masse sono accessibili solo sotto tale aspetto. Queste idee sotto forma di immagini non sono collegate da alcun legame logico di analogia o consequenzialità, e possono prendere l’una il posto dell’altra, come le diapositive della lanterna magica, che l’operatore preleva dall’alloggiamento in cui erano collocate una sopra l’altra”. Anche per queste ragioni le democrazie hanno bisogno di fornire alle proprie opinioni pubbliche qualcosa di più, dei resoconti concreti sul loro operato. E’ il caso del manifesto sulle “Donne-impiegato” (Titolo del poster, “Women office works”) comparso negli anni Trenta negli Stati Uniti. Innanzitutto il committente, l’ufficio per le donne: si trattava di un ente fondato nel 1920 con lo scopo di analizzare e rappresentare le esigenze delle donne lavoratrici e, nel corso degli anni, pubblicare sintesi sul ruolo femminile nei vari campi professionali. Scopo dell’associazione: ottenere una reale parità per le donne nei luoghi di lavoro. Rispetto al regime khomeinista, nelle democrazie il committente di un manifesto politico non è soltanto il partito politico (magari unico) al potere ma sono soggetti diversi, sindacati, associazioni e altri ancora. Secondo aspetto: il linguaggio, pur restando propagandistico, fornisce numeri statistici rilevati da ricerche condotte sul campo. Negli Usa questa campagna sul lavoro femminile ebbe un successo notevole, arrivando addirittura ad innescare, in alcuni stati del paese, un aumento dell’occupazione femminile. La prova che, quando ha del genio, la comunicazione riesce a consegnare alla storia i suoi eroi (del bene e del male) con pochi tratti. Napoleone è l’esilio in una mano crociata sul petto, Adolf Hitler è il nazismo in una mano tesa davanti alla folla plaudente, Winston Churchill è la vittoria in due dita ed un sigaro, De Gaulle il ritorno in due braccia. Simboli e potere. L’ayatollah Khomeini è l’Islam che avanza, nascosto nella barba grigia del suo profeta contemporaneo, e nei versetti coranici propagandati sui manifesti della Rivoluzione: “Non c’è altro dio che Allah, gloria al governo dell’imam”.
Di seguito, un articolo di Carlo Panella sul rapporto tra il gran muftì di Gerusalemme ,primo leader del movimento nazionale palestinese , e il nazifascismo. Ecco il testo:
La compromissione tra il nazismo e una parte consistente del mondo islamico si sviluppò durante gli anni 30 e 40 su tre livelli: l’azione di alcuni gruppi dirigenti nazionali; la definizione di programmi politici e ideologie poi determinanti nel dopoguerra (nasserismo e baathismo); lo schieramento combattente di consistenti settori popolari musulmani. Tralasciando Mussolini e la sua “spada dell’islam”, la vicenda centrale di questo legame riguardò il Gran Muftì di Gerusalemme, Amin al Husseini, le cui gesta sono note – inclusi i due appuntamenti con Hitler del 28 novembre 1941 e del 1° luglio 1942 – ma sono travisate e giustificate dalla storiografia europea. Storici e saggisti, come Maxime Rodinson e ancora, nei giorni scorsi, Sergio Romano, attribuiscono infatti la scelta di campo filonazista del Gran Muftì alla “realpolitik”: per conseguire l’indipendenza nazionale della Palestina contro la potenza mandataria inglese, il leader palestinese sarebbe stato costretto ad allearsi coi “nemici dei suoi nemici”. La tesi giustificazionista è apparentemente attendibile, ma destituita di fondamento e non solo perché smentita dall’esempio opposto di Ghandi, Nehru e dello stesso Jinnah, leader della Lega musulmana indiana, che invece operarono per una piena vittoria inglese contro il nazismo. Nel momento in cui strinse alleanza con Hitler (tentando, con il Baath, un golpe militare filonazista a Baghdad nel maggio 1941, rapidamente fallito), il Gran Muftì aveva infatti già ottenuto dalla Gran Bretagna tutto quanto poteva desiderare sotto il profilo degli interessi nazionali dei palestinesi: tutto il territorio della Palestina, accompagnato dalla cancellazione di ogni impegno britannico nei confronti dei sionisti e del loro “focolare nazionale”. Neville Chamberlain, dopo il fallimento della sua politica a Monaco nel 1938, certo ormai dello scoppio della guerra, aveva pubblicato il 20 aprile del ’39 un Libro bianco in cui impegnava il suo paese a consegnare tutto il territorio del Mandato agli arabi palestinesi e solo a essi. Si è trattato di una pagina vergognosa, motivata soprattutto dalla volontà di non irritare alcune centinaia di migliaia di soldati indiani di religione musulmana, che Londra si preparava a mobilitare per la guerra incombente. La mossa fu stigmatizzata da Winston Churchill: “E’ un’altra Monaco e una resa alla violenza degli arabi”. I “nemici” inglesi, dunque, nulla più potevano dare al Gran Muftì e al possente movimento palestinese, reduce nel ’39 da un’Intifada triennale che aveva mietuto non meno di 6.000 vittime. La riprova si ebbe con la reazione del vero movimento nazionalista palestinese, quello alternativo alla leadership del Gran Muftì e diretto da Raghib al Nashashibi, leader del partito della Difesa nazionale (che aveva vinto le ultime elezioni amministrative), così come del re di Transgiordania, Abdallah al Hashemi, che accettarono l’offerta del Libro bianco (Nashashibi sarà ucciso da un sicario del Gran Muftì ad Amman nel 1941 e re Abdallah da altri suoi uomini nel 1950). Ma il Consiglio palestinese, egemonizzato dal Gran Muftì – dando prova della solita cecità tattica e strategica che caratterizzerà anche la leadership di Yasser Arafat – rifiutò un’offerta che, se accettata, avrebbe ostacolato qualsiasi progetto futuro di uno stato sionista. Le motivazioni della scelta filonazista del Gran Muftì non sono state dunque di realpolitik, ma sono state conseguenti a quella scelta di campo tutta ideologica e di affinità politica con il nazismo che la leadership palestinese aveva da tempo maturato. Le parole pronunciate dal Gran Muftì a Sarajevo, il 21 dicembre 1944, davanti alle Ss islamiche bosniache, tolgono ogni dubbio: “La Germania è la sola grande potenza che non ha mai attaccato un paese islamico. Inoltre la Germania nazionalsocialista sta combattendo contro il mondo ebraico. Il Corano dice: ‘Voi vi accorgerete che gli ebrei sono i peggiori nemici dei musulmani’. Vi sono inoltre considerevoli punti in comune tra i principi islamici e quelli del nazionalsocialismo, vale a dire nei concetti di lotta, di cameratismo, nell’idea di comando e in quella di ordine. Tutto ciò porta le nostre ideologie a incontrarsi e facilita la cooperazione, io sono lieto di vedere in questa Divisione una chiara e concreta espressione di entrambe le ideologie”. Quella del Gran Muftì, dunque, fu una scelta di campo ideologica e non tattica e non fu affatto improvvisata, tanto che, durante i suoi intensi rapporti con i dirigenti nazisti a Berlino, il leader palestinese sostenne sempre che tutti gli avvenimenti di fine anni Trenta nei paesi arabi – golpe iracheno del 1941 incluso – erano stati ispirati o direttamente organizzati da una sua setta segreta, il Hizb al Umma al Arabiyya, di cui avrebbero fatto parte anche i principali collaboratori del re saudita Abdulaziz ibn Saud. Già nel 1940, dunque, alla fondazione del “Comitato arabo” filonazista, che si prefiggeva il compito di coordinare le attività di tutti i nazionalisti filonazisti, avevano partecipato, oltre al Gran Muftì, anche Rashid Ali al Gailani a nome dell’Iraq, con i generali Yunus al Sabati e Naji Sawqat; il segretario personale di re Abdulaziz ibn Saud, Yusuf Yassin, e il consigliere del re saudita Khalid al Hud, oltre al siriano Shuqri al Kuwatli (nel dopoguerra effimero premier siriano). Fallito nel maggio 1941 il golpe filonazista di Baghdad, nel corso successivo della guerra si saldò tra Roma e Berlino una sorta di “internazionale nera” arabo-musulmana, di cui fecero parte anche il ministro delle Finanze e governatore della Banca nazionale dell’Afghanistan, Abdul Majid Khan, Tayyeb Nasser, presidente del partito egiziano Misr, il leader delle “camicie verdi” egiziane (cui appartennero Nasser e Sadat) Mustafa al Wakil, il capo del neo Destour tunisino Habib Thameur e naturalmente il mitico comandante militare palestinese Fawzi al Qawuqji. In Algeria, nonostante l’opposizione del popolare leader del Ppa, Merssalii Haji, un folto gruppo di nazionalisti (spesso provenienti da militanza nel Pcf o nella sinistra) seguì il gruppo guidato da Belghassem Radjeff che collaborò attivamente con i nazisti, ricevendone denaro e appoggio sia da Parigi sia attraverso Vichy. In Egitto, Gamal Abdel Nasser, nel 1941, prese contatti, assieme ad Anwar al Sadat, con il generale Rommel, durante la battaglia di el Alamein come testimoniato dallo stesso Sadat: “L’Asse aveva forze superiori. La macchina bellica fascista in Cirenaica era ora nelle mani esperte dei tedeschi. La Gran Bretagna guardava in faccia la sconfitta. Approfittare di queste circostanze così favorevoli era per l’Egitto un dovere. Il morale delle nostre forze era alto, ed esse erano pronte a combattere. Prendemmo contatto con il quartier generale tedesco in Libia e ci muovemmo in completa armonia con esso (…). Se il collegamento tra gli egiziani insorti e le truppe dell’Asse fosse diventato effettivo, la nostra guerra sarebbe diventata un affare internazionale”. Falliti quei contatti con i nazisti, nel 1942, Nasser e Sadat presero parte al tentativo di portare l’Egitto a fianco dell’Asse da parte del filonazista Ali Maher, appoggiato dal generale Neguib – primo leader del golpe del 1952 in Egitto. Nasser e Sadat furono arrestati e imprigionati assieme a seimila egiziani accusati di collaborazionismo con i nazisti. L’influenza che ebbe poi il nazismo nella formazione dell’ideologia dei gruppi dirigenti nazionali arabi che presero il potere negli anni del dopoguerra – tutti stretti alleati del comunismo sovietico, così come lo erano stati del nazismo tedesco – è efficacemente sintetizzata da Sami al Joundi, uno dei fondatori nel 1937, assieme a Michel Aflaq, del partito Baath che poi prese il potere in Siria e in Iraq con Hafez al Assad e Saddam Hussein: “Eravamo nazisti, ammiratori del nazismo, leggevamo i suoi testi e le fonti della sua dottrina, specialmente Nietzsche, Fiche e i ‘Fondamenti del secolo XIX’ di H.S Chamberlain – tutto incentrato sulla razza (il genero di Wagner applicò il darwinismo evoluzionista alle razze umane, molto amato da Hitler, Himmler e Rosenberg) – Fummo i primi a pensare di tradurre il ‘Mein Kampf’. Chiunque fosse vissuto in quegli anni a Damasco, si sarebbe reso conto della propensione del popolo arabo verso il nazismo, perché il nazismo era la potenza che poteva essere a modello. Nel 1940 cercai di procurarmi una copia de ‘Il mito del XX secolo’ di Alfred Rosenberg, ma riuscii a trovarne una sola copia, in francese, nella biblioteca personale di Michel Aflaq”. Naturalmente, questi percorsi ideologici filonazisti comuni a quasi tutte le leadership arabo-islamiche che presero il potere dopo il 1945 non erano affatto isolati dal proprio contesto nazionale. Ne furono la prova le decine di migliaia (forse più) di musulmani, soprattutto europei e delle repubbliche sovietiche, che si arruolarono volontari non soltanto nella Wehrmacht, ma anche nelle Ss naziste. Furono addirittura un milione i non tedeschi a combattere sotto le insegne del quarto Reich, spesso quali volontari (tra questi moltissimi i musulmani bosniaci, albanesi e balcanici). La storiografia ha poco indagato su questo fenomeno che pure sarebbe stato centrale per comprendere – non certo per giustificare – le radici delle dinamiche antislamiche che con tanta prepotenza sono emerse in campo serbo-jugoslavo negli anni Novanta. Mentre infatti era evidente che buona parte dei volontari in campo nazista delle repubbliche sovietiche occupate dal Reich era motivata, anche, dalla ribellione contro il giogo staliniano moscovita cui erano sottomessi (è questo il caso dei ceceni, degli inguscezi musulmani e di tanti georgiani cristiani), questo non fu certo il caso dei volontari musulmani balcanici. Eppure, le Ss musulmane organizzate dal Gran Muftì in Bosnia contarono su una leva di ben 8.000 unità e furono particolarmente attive nei feroci rastrellamenti contro i partigiani titini. A essi si affiancarono alcune centinaia di palestinesi e arabi che erano fuggiti assieme al Gran Muftì a Berlino (a partire dal loro comandante militare Fawzi al Qawuqji) e che si erano arruolati volontari nella Free Arab Legion Sonderverband 287. Nel 1948, il Gran Muftì, di nuovo alla guida del movimento palestinese nel tentativo di distruggere lo stato ebraico era inseguito da un mandato di cattura emesso da Belgrado per “reati contro l’umanità” ed era affiancato da tutto il quadro dirigente arabo-palestinese che aveva condiviso con lui l’alleanza filonazista da Berlino. Al suo fianco, decine di ufficiali nazisti scampati all’arresto in Europa, che innerveranno poi, a partire da Otto Skorzeny, sino a tutti gli anni Sessanta (con sciagurata complicità americana per responsabilità di Allen Dulles) i servizi segreti egiziani.
Di seguito, sempre dal FOGLIOla fatwà del Gran Muftì, Haj Amin al Husseini, per il jihad contro la Gran Bretagna a fianco dell’Asse nazi-fascista. Il testo è estratto dal “Libro Nero dei Regimi Islamici” di Carlo Panella” (Rizzoli). Ecco il testo:
“In nome di Allah clemente e misericordioso. Invito tutti i fratelli musulmani del mondo al jihad per Allah, per la difesa dell’islam e del suo territorio, contro il suo nemico. O fedeli, obbedite e rispondete all’appello! O musulmani! Il fiero Iraq si è posto alla vostra avanguardia nella sacra lotta e si è posto contro la Gran Bretagna, il più grande nemico dell’islam, sicuro che Allah gli avrebbe dato la vittoria. Gli inglesi hanno tentato di aggredire questa umma arabo-musulmana, ma essa è scattata piena di dignità e fierezza a difendere la sua sicurezza, a lottare per il suo orgoglio, a salvaguardare la sua integrità. L’Iraq combatte contro il tiranno che ha avuto sempre per mèta la distruzione dell’islam in tutto il dar all’islam. E’ dovere di tutti i musulmani aiutare l’Iraq nella sua lotta e adoperare tutti i mezzi per combattere il nemico, il tradizionale traditore in tutte le epoche e in tutte le circostanze. Chiunque abbia seguito la storia moderna del medio oriente vide ovunque le mani inglesi lavorare per la fine del califfato ottomano e per la divisione dei paesi arabi. La politica araba verso i popoli arabi si maschera sotto il velo dell’ipocrisia. Appena l’occasione le si presenta, l’Inghilterra stringe il paese sottomesso nella sua morsa imperialistica, adducendo futili motivazioni. Essa crea discordie e contrasti all’interno dello stesso paese e li alimenta in segreto mentre si mostra esteriormente in veste di consigliera e di fedele amica. Il tempo in cui l’Inghilterra ingannava i popoli d’oriente è tramontato. La nazione araba e l’umma musulmana del mondo si sono risvegliati per lottare contro la prepotenza britannica. Gli inglesi hanno rovesciato il califfato ottomano, hanno distrutto il governo musulmano in India aizzando le diverse comunità l’una contro l’altra; hanno soffocato il risorgimento egiziano fondato da Mohammed Ali, colonizzando l’Egitto per mezzo secolo. Essi hanno colto l’occasione nell’indebolimento dell’impero ottomano e hanno allungato le mani impossessandosi, con ogni sorta di raggiri, di molti paesi arabi, come è successo ad Aden, nei Nove Distretti, nell’Hadramut, Oman, Masqat e negli Emirati del Golfo Persico e di Transgiordania. La prova lampante delle mire imperialistiche britanniche si è avuta nella Palestina musulmana, la quale, benché promessa dall’Inghilterra allo sheikh Hussein, ha dovuto subire l’oltraggioso insediarsi degli ebrei, vergognosa politica, destinata a separare i paesi arabo-musulmani dell’Asia da quelli dell’Africa. In Palestina gli inglesi hanno commesso barbarie inaudite. Hanno profanato, tra l’altro, la moschea di al Aqsa e hanno contaminato il Corano. Gli inglesi hanno dichiarato la più tenace guerra contro l’islam, con i fatti e con le parole. L’allora primo ministro britannico Gladstone dichiarò al Parlamento che il mondo non potrà avere pace finché esiste il Corano. Quale odio contro l’islam è più forte di questo che dichiara pubblicamente il sacro Corano un libro nemico del genere umano? Tale sacrilegio (takfir) dovrà rimanere impunito? Dopo l’annientamento dell’Impero musulmano in India e del califfato ottomano, l’Inghilterra, seguendo la politica di Gladstone, ha continuato la sua opera di distruzione dell’islam, privando molti stati islamici in oriente e occidente della loro libertà e indipendenza. Il numero dei musulmani che vivono oggi sotto l’Inghilterra e invocano la liberazione dal suo terribile giogo, supera i 220 milioni. Per questo vi invito, o fratelli, alla guerra per Allah, per preservare l’islam, la vostra indipendenza e libertà. Vi invito ad aiutare l’Iraq con tutte le vostre possibilità, affinché possa respingere la sciagura che lo tormenta. O eroico Iraq, Allah è con te, la nazione araba e la umma musulmana sono solidali con te nel tuo santo jihad”. Amin al Husseini
Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione del Foglio lettere@ilfoglio.it