Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
Il fallimento del multiculturalismo gli interventi di Amartya Sen, Angelo Panebianco e Ian Buruma
Testata: Corriere della Sera Data: 24 agosto 2006 Pagina: 1 Autore: Angelo Panebianco - Amartya Sen - Ian Buruma Titolo: «L'islam globale bussa all'Europa - La confusione illiberale - L'ossessione dell'identità»
Dal CORRIERE della SERA del 24 agosto 2006, un editoriale di Angelo Panebianco:
Si può discutere se abbia ragione Amartya Sen quando, nel suo eccellente intervento pubblicato ieri dal Corriere, attribuisce alle degenerazioni delle politiche multiculturali la formazione di una subcultura islamica alienata e ostile in Gran Bretagna, oppure se è il multiculturalismo in quanto tale la causa prima di quella alienazione. Come mostra lo scalpore provocato dalla pubblicazione dell'inserzione dell'Unione delle comunità islamiche italiane (Ucoii), equiparante Israele e nazismo, la questione non riguarda solo la Gran Bretagna ma anche noi. Nel nostro caso siamo di fronte a un problema che può essere così sintetizzato: non abbiamo nulla da obiettare al fatto che il controllo della maggior parte delle moschee e di altri luoghi di aggregazione islamica, nonché la rappresentanza dell'islam italiano, siano assunti, in tutto o in parte, da un islamismo radicale la cui predicazione si ispira ai Fratelli musulmani? Ci conviene seguire le orme della Gran Bretagna e creare così le condizioni per la formazione di una subcultura islamica alienata e ostile anche in Italia? La questione non riguarda solo l'imbarazzante presenza dell'Ucoii nella Consulta islamica (su cui rinvio a quanto ha scritto Magdi Allam su questo giornale). Riguarda soprattutto l'esistenza o meno della volontà di combattere una battaglia politica e culturale (ma anche giuridica, mettendo in campo leggi adeguate) contro l'islamismo radicale. Per impedire che l'islam italiano, man mano che passa il tempo, ne risulti sempre più impregnato, finendo poi per scegliere definitivamente, nei termini di Sen, la «separazione» anziché l'integrazione. Il modo in cui decideremo oggi di atteggiarci verso l'islamismo radicale nostrano indirizzerà in una direzione o nell'altra il nostro futuro, e anche quello dei musulmani che vivono in Italia. Non ci si può nascondere, tuttavia, la connessione stretta che esiste, in questo campo, fra «politica interna» (la politica verso l'islam italiano) e «politica estera» (le grandi scelte di campo nella lotta contro la sfida jihadista, non solo quella sunnita di Al Qaeda ma anche quella sciita di Iran e Hezbollah). In Italia, e non solo in Italia, è attivo e assai forte un «partito della resa», o dell'appeasement, che manda continui segnali, e che è disposto a venire a patti persino con i mandanti dei kamikaze, figurarsi poi con quelli che fanno il tifo a bordo-campo e che chiamano «martiri» quei kamikaze. È, quello della resa, un partito eterogeneo. Lo compongono sia coloro che, per ragioni ideologiche (ostilità agli Stati Uniti e ad Israele), non riconoscono come «nemico» l'islamismo radicale, sia coloro che, per quieto vivere o per una valutazione miope dei nostri interessi nazionali, pensano che con quel nemico dobbiamo stipulare un compromesso, sia, infine, coloro che, in omaggio al multiculturalismo, sono disposti a tollerare qualunque aberrazione, purché generata da una cultura «altra». C'è una differenza sostanziale fra i tempi di Monaco (1938) e quelli di oggi: allora, la sciagurata politica di appeasement riguardò solo rapporti fra Stati, fra le democrazie e la Germania hitleriana. Oggi riguarda anche i rapporti fra le democrazie occidentali e certi gruppi che vivono sul loro territorio. Come la Gran Bretagna ha già sperimentato a proprie spese, anche il multiculturalismo è, in buona sostanza, «politica estera con altri mezzi». Sarebbe bene non ripercorrerne le orme. Di seguito, l'intervento di Amartya Sen, dal CORRIERE del 23 agosto:
Tutto iniziò in Canada. Ed iniziò bene. Nel 1971 il Canada fu il primo Paese ad adottare ufficialmente il multiculturalismo. Come dichiara con orgoglio il sito web del Canadian Heritage, «il Canada affermò così il valore e la dignità di tutti i cittadini indipendentemente dalle origini razziali o etniche, dalla lingua o dalla religione». Il multiculturalismo fu poi adottato ufficialmente dalla maggior parte degli Stati dell'Unione europea, con la Gran Bretagna alla testa di una tendenza che andava diffondendosi e che divenne rapidamente di moda in tutto il mondo. Ma quei tempi felici sono finiti, almeno in Europa. Ora francesi e tedeschi nutrono molti dubbi sull'opportunità di mantenere questo atteggiamento, e danesi e olandesi hanno già modificato la loro politica ufficiale. Perfino la Gran Bretagna è in preda all'incertezza. Qual è, allora, il problema? La storia del multiculturalismo è un buon esempio di come un ragionamento fallace possa intrappolare la gente in nodi inestricabili, da lei stessa creati. L'importanza della libertà culturale, fondamentale per la dignità di ognuno, deve essere distinta dall'esaltazione e dalla difesa di ogni forma di eredità culturale che non tenga conto delle scelte che le persone farebbero se avessero l'opportunità di vedere le cose criticamente e conoscessero adeguatamente le altre opzioni possibili nella società in cui vivono. La libertà culturale pretende, in primis, l'impegno a contrastare l'adesione automatica alle tradizioni quando le persone (compresi i giovani) ritengono giusto cambiare il loro modo di vivere. Il valore che la diversità può avere, in termini di libertà, deve dipendere proprio da come viene determinata ed affermata. Se in una famiglia conservatrice di immigrati in Inghilterra una ragazza vuole uscire con un ragazzo inglese, la sua scelta non può essere biasimata appellandosi alla libertà multiculturale. Al contrario, il tentativo dei suoi tutori di impedirglielo (cosa che accade spesso) non è affatto un atteggiamento multiculturale, dal momento che è volto a tenere le culture separate, in quella che si potrebbe definire una «pluralità di monoculturalismi». Eppure è la proibizione dei genitori che oggi sembra suscitare le simpatie dei devoti multiculturalisti. In questo contesto, è interessante esaminare la storia del multiculturalismo in Gran Bretagna. In Inghilterra la fase positiva dell'integrazione multiculturale è stata seguita da una fase di separatismo e di confusione. L'Inghilterra postcoloniale partì straordinariamente bene, cercando di integrare le comunità di immigrati attraverso un trattamento non discriminatorio nell'assistenza sanitaria, sociale e nel diritto di voto. Quest'ultimo diritto proveniva dalla decisione lungimirante di creare un Commonwealth di nazioni, iniziativa in sé multiculturale con una forte leadership inglese, che ha reso possibile, tra le altre cose, a tutti i cittadini residenti nel Commonwealth (compresa quasi tutta la popolazione di immigrati non bianchi in Gran Bretagna) di partecipare alle elezioni. A differenza della vicenda palesemente discriminatoria degli immigrati in Germania, Francia e in gran parte dell'Europa, la politica britannica di dare il più rapidamente possibile diritti economici, sociali e politici agli immigrati legali va ricordata con grande favore. I problemi, ad esempio nel mantenere l'ordine pubblico, che si verificarono e che furono chiaramente collegati ai disordini del 1981, soprattutto a Brixton e Birmingham, furono affrontati con un'ulteriore azione lungimirante guidata da Lord Scarman, che condusse un'inchiesta su quei disordini e accusò lo «svantaggio razziale che è un dato di fatto della vita inglese». Non tutti i problemi rilevati dal rapporto di Scarman sono stati risolti (la razza può ancora creare differenze, come continuano a crearle la classe sociale e il genere), ma c'è stato un impegno persistente, cominciato assai prima che il «multiculturalismo» diventasse uno slogan diffuso, nel cercare di ottenere che tutti gli inglesi fossero trattati da eguali, indipendentemente «dall'origine razziale o etnica, dalla lingua o dalla religione», per citare nuovamente la fondamentale espressione del Canadian Heritage. La tragedia è che, quando lo slogan del multiculturalismo ha guadagnato terreno, è aumentata anche la confusione su quali fossero i suoi requisiti. La prima confusione è quella tra il conservatorismo culturale e la libertà culturale. Essere nati in una particolare comunità non è di per sé un esercizio di libertà culturale, dal momento che non è una scelta. Al contrario, la decisione di restare saldamente all'interno della tradizione sarebbe un atto di libertà se la scelta fosse fatta dopo aver preso in esame diverse alternative. Nello stesso modo, la decisione di allontanarsi — di poco o di molto — da schemi di comportamento tradizionali, presa dopo un'attenta riflessione, sarebbe anch'essa un atto di libertà multiculturale. La seconda confusione risiede nell'ignorare il fatto che, mentre la religione potrebbe essere un elemento di identità importante (soprattutto se si ha la libertà di scegliere se seguire o rifiutare le tradizioni ereditate o assegnate), ci sono altre affiliazioni e associazioni — politiche, sociali, economiche — cui le persone danno valore. La cultura non è limitata alla religione. L'espressione canadese si riferisce esplicitamente alla lingua, oltre che alla religione, e a questo proposito vale la pena di ricordare che, anche se in Inghilterra i bengalesi sono ora ufficialmente etichettati come «musulmani inglesi», essi hanno lottato (e con successo) per l'indipendenza non in nome della religione, ma per ottenere la libertà linguistica e politica. I leader politici inglesi ora si rivolgono spesso ai diversi gruppi di appartenenti alla stessa religione come a comunità separate, governate dalle loro tradizioni (naturalmente chiedendo che la politica religiosa abbia una forma «moderata»). I portavoce religiosi dei gruppi di immigrati vengono presi in considerazione — e hanno accesso ai corridoi del potere — come mai prima d'ora. Nuove «scuole religiose» vengono create con l'incoraggiamento e il sostegno del governo, che guarda con più attenzione a «equilibri» religiosi alquanto meccanici, secondo i desideri dei cosiddetti leader delle comunità, piuttosto che a questioni più importanti come i contenuti educativi e l'insegnare ai bambini a ragionare liberamente. Il ruolo di divisione di una scuola separata, così determinante nel seminare discordia nell'Irlanda del Nord, allontanando cattolici e protestanti (e instillando l'idea di classificazione fin dall'infanzia) è ora permesso e, in effetti, incoraggia a seminare alienazione in un'altra parte della popolazione inglese. Quel di cui abbiamo ora bisogno non è l'abbandono del multiculturalismo, né il rifiuto della meta di un'eguaglianza indipendente dalle «origini razziali o etniche, dalla lingua o dalla religione», ma il superamento di queste due confusioni che hanno già creato tanti problemi. È importante perché la libertà è fondamentale, ma anche per evitare ribellioni di emarginati come in Francia, e la crescente minaccia di correnti di pensiero violentemente separatiste, in ascesa in Gran Bretagna, che in alcuni casi hanno dato luogo ad azioni brutali. È importante riconoscere che il primo successo del multiculturalismo inglese era legato al tentativo di integrare, non di separare. Concentrarsi sul separatismo, come si fa ora, non è un contributo alle libertà multiculturali, ma è il suo opposto.
Infine, l'odierno intervento di Ian Buruma, del quale non condividiamo una evidente sottovalutazione del pericolo dell'antisemitismo, che nasce dalla cecità verso il fatto che esso si manifesta prevalentemente, nel nostro tempo, sotto forma di antisionismo. Ecco il testo:
L'aspetto più strano dell'alterco con le forze dell'ordine in cui è stato di recente coinvolto Mel Gibson non riguarda le ingiurie contro gli ebrei. La nozione che «gli ebrei di merda» sono «responsabili di tutte le guerre del pianeta» (e di tutto il resto si direbbe) non è né nuova né insolita. È stato un cliché antisemita per secoli. Più preoccupante è quel particolare miscuglio di sentimentalismo religioso e di arroganza hollywoodiana che è affiorato dopo che Gibson ha smaltito la sbornia in galera. L'attore ha dichiarato che desiderava «incontrare i capi della comunità ebraica, con i quali instaurare un dialogo diretto, per scegliere la via migliore verso la guarigione». Come se nessun altro, al di fuori dei «capi religiosi», potesse fare al caso suo; come se questi presunti «capi» fossero preti, o psichiatri, o guru appositamente addetti alle cure dello spirito. Come se l'antisemitismo fosse un morbo inflitto a Gibson dal mondo esterno. L'antisemitismo esiste ancora, così come i pregiudizi contro neri, musulmani, sikh, tutsi, o persino cattolici, non sono mai scomparsi. Che gli ebrei siano stati vittima del genocidio più sistematico della storia conferisce all'antisemitismo una sfumatura particolarmente sinistra, ma in quanto pregiudizio non ha nulla d'insolito. Lo sterminio degli ebrei, almeno in Occidente, non è più una minaccia reale, e certo non pensava a questo Gibson. Ma il pregiudizio sociale basta e avanza. È almeno un segno di progresso che l'antisemitismo, come il pregiudizio razziale contro i neri, non sia più socialmente accettabile. Non si possono più bollare le persone come «sporchi negri» o «sporchi ebrei» senza doverne rispondere davanti alla legge, e questo è già un passo avanti. Con ogni probabilità questo progresso non sarebbe stato possibile senza l'intervento dei movimenti d'opinione e delle organizzazioni sociali, un po' come i diritti dei lavoratori non sarebbero mai stati garantiti a tutti, o forse nemmeno concessi, senza i sindacati. Ma come tutte le forme di potere, il potere di promuovere gli interessi di minoranze vulnerabili è esposto alla corruzione. Proprio come i leader sindacali talvolta abusano della loro posizione per accumulare potere (e denaro) per i propri scopi, così i leader delle varie comunità e i guardiani dell'antirazzismo sono talvolta tentati di perseguire i propri interessi in modo non sempre favorevole alle persone che dovrebbero difendere. Quando si suona l'allarme troppo spesso, e a volte senza nessun motivo, o quando ci si sente offesi per motivi personali, senza nessuna chiara provocazione, questa sorveglianza rischia di slittare in una forma di intimidazione contro la libertà di espressione. Uno dei grandi poteri di cui si sono impadronite le organizzazioni delle varie comunità, come pure i governi nazionali autoritari, è il potere sull'uso del linguaggio. Esse stabiliscono i termini in cui le loro comunità possono essere discusse dagli altri. L'intimidazione è più efficace quando i timori aleggiano in superficie e le minacce restano sottintese. Un esempio è l'attuale timore di dire qualunque cosa che possa apparire antisemita, specie negli Usa, dove gli ebrei si sentono più al sicuro che in ogni altro Paese in qualsiasi momento della loro storia. Di nuovo, è una cosa buona stare in guardia contro l'antisemitismo. Ma questo allarme è squillato così spesso e con reazioni talmente spropositate da provocare un'ansia esagerata che soffoca ogni dibattito serio, e non soltanto per quel che riguarda la posizione attuale di Israele. Qualche tempo fa mi è stato chiesto, da un curatore del Metropolitan Art Museum di New York, di scrivere un articolo per il catalogo di una mostra sulla storia dell'abbigliamento e del dandismo in Inghilterra nei secoli XVIII e XIX. Come esempio della relativa libertà della società inglese dell'Ottocento, in confronto al resto d'Europa, ho citato Benjamin Disraeli, un dandy ebreo che arrivò a ricoprire la carica di primo ministro. Il redattore del catalogo e il curatore della mostra non hanno perso tempo a farmi capire che il riferimento al dandy ebreo doveva sparire. Hanno detto che non sapevo «com'erano le cose là dentro», e che «i membri del consiglio erano molto suscettibili su questo argomento». Forse sì, forse no. Nessun membro del consiglio d'amministrazione aveva visto il testo. Ma il timore di un giudizio negativo era bastato a far cancellare le parole considerate «lesive». Questi battibecchi sull'uso del linguaggio travalicano i confini delle comunità. Nel clima attuale uno scrittore di origine ebraica, o islamica, o sikh può essere accusato facilmente di aver offeso la sua «comunità» dal di fuori. L'esempio più famoso è Salman Rushdie, ma ce ne sono tanti altri. A Birmingham, in Inghilterra, la rappresentazione di un'opera teatrale intitolata Behzti («Disonore»), di un autore britannico di origine sikh, Gurpreet Kaur Bhutt, su delitti e abusi sessuali nella sua comunità, è stata sospesa quando i sikh hanno inscenato violente proteste davanti al teatro. Ben pochi, o forse nessuno, di loro aveva letto l'opera, ma i leader della comunità, invitati ad assistere alle prove, si erano sentiti offesi dalla «rappresentazione negativa» dei sikh. La polizia si è rifiutata di garantire la sicurezza e l'opera è sparita dal cartellone. Dal bestseller di Monica Ali, Brick Lane, che parla della comunità originaria del Bangladesh in Inghilterra, sarà tratto un film che doveva essere girato proprio a Brick Lane, nell'area a Est di Londra dove abitano gli immigrati di quel Paese. Ma un commerciante del posto, di nome Abdus Silique, ha dato vita alla «Campagna contro il film Brick Lane di Monica Ali», minacciando di dare alle fiamme i suoi libri, perché sosteneva che il romanzo non rappresentava nel modo giusto la sua comunità. Silique e un gruppo di uomini che la pensano come lui si definiscono «capi della comunità», anche se non sono stati eletti in quel ruolo da nessuno, e anche se la maggioranza degli immigrati del posto non ha sollevato obiezioni alla realizzazione del film, né al romanzo di Monica Ali. Eppure è stato necessario trasferire il set del film in un'altra zona. Malgrado tutto il bene realizzato in passato dalle organizzazioni delle varie comunità, la visibilità sempre maggiore dei cosiddetti «capi della comunità» e di altre figure che si appropriano del diritto di definire come gli altri devono parlare delle loro comunità, sta minacciando seriamente il diritto alla libertà di espressione. Rushdie ha fatto una distinzione importante tra l'attacco alle persone e la critica rivolta al loro modo di pensare. Se è indispensabile trattare con rispetto il singolo individuo, sia esso musulmano, cristiano, ebreo, sikh o altro, credenze od opinioni non devono essere esonerate dalla critica, né dalla satira. Il problema è che molti credenti sono incapaci di tali distinzioni. Theo van Gogh, il regista olandese, è stato assassinato due anni fa da un fondamentalista islamico per aver «insultato il Profeta». Van Gogh, benché spesso offensivo, o addirittura scandaloso, non ha mai preso di mira l'individuo di fede islamica, ma solo la fede religiosa. Per il suo assassino però non c'era nessuna differenza. E i nostri leader si rivelano sempre più insicuri e timorosi e finiscono per cedere a queste pressioni. Il governo inglese ha introdotto una nuova legge quest'anno contro l'istigazione all'odio razziale per motivi religiosi. Ciò sembra molto progressista e di nobile ispirazione. In realtà non lo è. Chi definisce il significato di odio? Chi decide quando è stato istigato? Se permettiamo ai capi delle minoranze, che siano legalmente eletti a quel ruolo o l'abbiano assunto di propria iniziativa, di censurare ogni critica con la minaccia della violenza, lasciamo campo libero al fanatismo. Se si pensa che il mondo sia dominato da una congiura ebraica, non ci meraviglia che Gibson abbia chiesto di parlare con i suoi massimi rappresentanti. Il numero crescente di persone che intervengono in difesa degli ebrei e di altre minoranze non fa altro che confermare i sospetti di quanti sono convinti che esista davvero una congiura ebraica. In un certo senso, i leader delle minoranze più indifese sono un po' come i capi delle gang criminali e difatti tali organizzazioni, che seguono le specificità etniche, spesso dichiarano di difendere gli interessi degli immigrati più recenti, che non sanno a chi rivolgersi appena sbarcati. Ma quale italoamericano o anglocinese di seconda o terza generazione vorrebbe mai essere rappresentato dalla mafia o dalle triadi cinesi? La maggior parte delle persone, superato il disagio iniziale, vogliono essere identificate come cittadini del Paese di accoglienza, piuttosto che come membri di una comunità etnica o religiosa, anche se questo non esclude la possibilità di appartenere a entrambi. L'ideale del multiculturalismo nasconde un aspetto reazionario. Si presume che le minoranze siano più contente di farsi rappresentare da leader etnici o religiosi piuttosto che da esponenti nazionali. Questo concede troppo potere ai capi delle comunità, il cui status dipende dalla loro abilità nel controllare il modo in cui parliamo delle persone da loro rappresentate, e questo impedisce proprio ai loro protetti di pensare a se stessi come singoli cittadini. Anzi, impedisce qualunque dibattito razionale. E il dibattito è un aspetto vitale dell'educazione politica. Nelle società democratiche è stato necessario educare la maggioranza al rispetto delle minoranze. Ma oggi gli immigrati e i loro figli devono imparare che l'offesa è il prezzo che dobbiamo tutti pagare per la libertà di pensiero e di espressione. Poiché molti immigrati vengono da Paesi dove tale libertà non esiste, dovrebbero essere i primi ad apprezzarne i benefici.
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