Dal GIORNALE del 24 agosto 2006, l'editoriale di Paolo Guzzanti sulle regole d'ingaggio della missione Onu in Libano:
Finalmente abbiamo le regole d'ingaggio, ovvero che cosa dovrebbero andare a fare i nostri soldati in Libano: tutto, possibilmente sparare sui soldati di Israele, ma non disarmare Hezbollah, come voleva la risoluzione dell'Onu. È contento adesso il capo del governo di Gerusalemme Olmert? Ecco quello che riferisce l'agenzia Reuters: «L'uso della forza, “compresa la licenza di uccidere”, è autorizzata anche per difendere le forze armate libanesi a cui potrebbero essere associate truppe Onu, se l'autore o gli autori della minaccia sono armati. La forza dovrà essere proporzionale al livello della minaccia. Ma il livello della risposta potrebbe anche essere più elevato». Traduzione: i soldati che andranno in Libano, non andranno a disarmare i terroristi hezbollah, che il governo libanese ha dichiarato far parte delle sue stesse forze armate, ma andranno in Libano a «difendere le forze armate libanesi», cioè gli hezbollah incorporati nell'esercito libanese. E a difenderli da quali attacchi? La risposta è scandalosamente ovvia: i nostri soldati fiancheggeranno le forze armate libanesi per proteggerle, hezbollah compresi, da contrattacchi israeliani in risposta al lancio di nuovi missili. Ed ecco quindi spiegato l'entusiasmo guerrafondaio dei nostri pacifisti: vogliono che gli italiani siano, nella loro immaginazione malata ma attivissima, i nuovi marines che sparino sugli israeliani. E, se ci fate caso, tutti i conti tornano: non è forse vero che ferve a sinistra un ampio dibattito sul parallelismo tra hezbollah e Resistenza? E non sono forse gli ebrei i nuovi nazisti? E non è stato forse un momento di imbarazzo da oscurare con la disinformazione quello in cui si è scoperto che il giovane Angelo Frammartino è stato pugnalato a morte «per sbaglio», nel senso che il partigiano era sicuro di uccidere un ebreo? E non avete notato la fretta con cui il padre della vittima ha perdonato il boia di suo figlio? E non avete notato come le femministe siano rimaste zitte con la coscienza coperta da tre strati di crema a protezione totale della vergogna dopo lo sgozzamento di una ragazza musulmana in Italia da parte di paparino suo? E non avete notato l'altro fatterello stranissimo per cui i nostri ambientalisti pronti a urlare per una patata geneticamente modificata non hanno fiatato, né fiateranno mai per la costruzione di armi nucleari da parte dell'Iran che impicca le sue figlie per le quali le femministe non muovono un dito? Stiamo facendo un minestrone di cose diverse? Macché: stiamo infilando in unico filo tutte le perle della stessa collana. L'Italia del governo Prodi sta godendo i benefici del prestigio internazionale costruito dopo i cinque anni di governo Berlusconi che hanno fatto del nostro Paese un protagonista della politica estera. E spende questo patrimonio per compiere un'operazione semplicemente oscena: andare in Libano per fiancheggiare «la resistenza», ovvero i terroristi, legare le mani di Israele per impedirne l'autodifesa e oscurare la bara già arrivata, quella del pacifista scambiato per ebreo, e quelle che inevitabilmente verranno. A questo punto ci chiediamo però che intenzione abbia il centro destra: ora tutto è chiaro, non ci sono più equivoci sulla vera natura della missione Onu costruita da D'Alema, l'equivicino della reazione sproporzionata D'Alema l'abbiamo capito: ma noi, che cosa ci stiamo a fare? Il governo Prodi ha forse offerto un tavolo delle decisioni comuni e condivise, con responsabilità comuni e condivise? No. E allora basta, per favore, con questa disgustosa pantomima. I soldati italiani restino a casa e il centro destra si decida a dire un no forte e chiaro e la smetta di tentennare. p.guzzanti@mclink.it
Da pagina 4, un articolo di Gian Micalessin dal Libano cristiano:
I cristiani di Rumaich sono arrabbiati. Molto arrabbiati. È cominciato tutto qui davanti. Una fattoria come tante in questo villaggio a uno sputo dal confine tra l'inferno di Beint Jbeil a nordest e l'apocalisse di Ait Ech Chaab, un chilometro a ovest. Pierre fa strada sul pergolato, scosta le trecce di tabacco profumato, mostra l'alone nero, il foro nell'impiantito, apre la porta, scende le scale. Lezzo di cenere e morte. Sulla parete un alone di fuoco e schegge, una sindone di sangue, cervella, morte. «Una bimba era lì, decapitata». Pierre mostra il materasso incrostato, incartapecorito, bruciato. «L'altra là, sfigurata». Ancora sangue raggrumato, screziature d'orrore, diapositive di morte impresse nell'intonaco impiastricciato. «La madre senza una gamba, respirava ancora, le ho portate fuori, una alla volta. Quando ha fatto giorno sono tornato dentro, ho trovato la testolina, ho portato via anche quella». Qui a Rumaich, uno dei cinque villaggi cristiani tra Beint Jbeil e Ait Ech Chaab, la storia della fattoria maledetta la conoscono tutti. È la notte del 20 luglio. Otto giorni prima Hezbollah attacca due jeep israeliane sul confine, a un chilometro da qui, cattura due soldati, ne uccide otto, accende la guerra. «In cantina quella notte ci sono trenta sciiti, sono arrivati il primo giorno e noi gli abbiamo aperto le porte. Sono i nostri vicini, gente disperata come noi», racconta Pierre. Quella notte cambia tutto. Salah Jawed, uno dei capifamiglia, esce al tramonto. Lascia moglie e due figlie ad aspettarlo. Tony Machoul ascolta, si fa il segno della croce. Ha 45 anni, è uno dei più famosi costruttori della città. Tira su avamposti dell'Unifil da qui al mare. Scuote la testa. «Tra Rumaich, Ainata, El Qauzah, Ain Ebel e Debel non saremo in più di quindicimila, ma ci comportiamo con gli sciiti come con dei fratelli. Io ne ho ospitati 60 a casa mia. In cambio abbiamo avuto molto poco. Avremo molto poco. Hezbollah sta già distribuendo i soldi dell'Iran, del Qatar del Bahrain. Noi le nostre case distrutte ce le dovremo ricostruire da soli. Eppure questa guerra l'hanno voluta loro». Racconta i sei anni passati a costruir fortini bianchi con la bandiera azzurra collina dopo collina. «Davanti c'erano sempre loro, scavavano bunker, tiravano cavi per le linee telefoniche, sprofondavano nella terra tra tunnel e gallerie, si preparavano. L'hanno voluta, l'hanno cercata questa guerra. E ora cantano vittoria perché tanto le case loro non se le pagano». Anche Tony ha vissuto la sua notte d'ingratitudine e rabbia. «Una notte qualcuno bussa alla porta, mi tira giù dal letto. In strada ci sono altri vicini e, nascosti tra le case, un gruppo di Hezbollah. Hanno già installato le katiusce, le stanno puntando. Noi ci mettiamo in mezzo, li fermiamo. Loro ci puntano le armi addosso. Io vado in bestia. Prendo da parte uno che conosco, gli urlo in faccia. Come ti permetti, sei pazzo, vuoi far morire noi e tutta la tua gente? Discutiamo per un'ora, minaccio di aprire la porta, di buttare fuori i 60 sciiti che ho in cantina. Finalmente arriva l'ordine se ne vanno, ci lasciano in pace. Ma quella notte capisco tutto. Dei loro confratelli se ne fregano, vogliono far radere al suolo anche Rumaich, vogliono farci spazzare via dagli israeliani». Ad Ain Ebel, cinque chilometri più indietro, alle porte di Beint Jbeil il 60enne Maroun Has Rouni ha poche idee, ma ben chiare. «Li vedi quegli uliveti? Sono i miei, sono 50mila alberi, non ci posso mettere piede da due anni perché quelli ci dovevano scavare i loro bunker, nascondere i loro missili. Ora io maledico gli israeliani per un solo motivo, perché si sono fermati troppo presto. Mi hanno colpito la casa, ma poco importa. Per quel che mi riguarda potevano anche colpirla di nuovo. Se andavano avanti ancora due giorni ci liberavano di quella gente, salvavano il Libano». La voce gira ovunque. In quei bunker, in quei campi dove a dieci giorni dalla fine dei combattimenti il lezzo di morte toglie ancora il respiro, i miliziani di Hezbollah erano allo stremo. «Mangiavano bacche - dice chi li ha visti -, aspettavano la morte». Maroun mostra la voragine nella casa colpita da un obice israeliano. «Due giorni ancora e, credetemi, avrei goduto a spendere i soldi per ripararla. Almeno l'avrei riparata per sempre. Così invece so che succederà ancora».
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