La sinistra non può andare a braccetto con i fascisti islamici nemici della pace Victor Magiar interviene sulla politica equivicina ad Hezbollah del ministro degli Esteri italiano
Testata: Europa Data: 24 agosto 2006 Pagina: 1 Autore: Victor Magiar Titolo: «Sono fascisti, non compagni»
Da EUROPA del 24 agosto 2006:
Durante questa ultima crisi mediorientale, il nostro ministro degli esteri ha voluto fare qualcosa di speciale, che lo distinguesse da altri colleghi della diplomazia internazionale e che potesse lasciare il segno. Appena iniziata la tregua è il primo “diplomatico” ad arrivare in Libano. Subito dopo, un “gesto”: invece di incontrare il governo libanese va nei quartieri più colpiti dalle bombe israeliane, ancora prima che ci vada il presidente Siniora. Non ci va da solo, ma con i rappresentanti di una precisa fazione libanese, quella coinvolta nel conflitto, quella responsabile (almeno quanto gli israeliani?) dell’escalation, quella che da anni ha esautorato l’esercito e lo stato libanese dal sud del Libano, quella che professa la sterminio degli ebrei (non solo la cancellazione di Israele), quella che da più di venti anni lancia missili sulla Galilea, quella che viene vissuta dalla maggioranza dei libanesi come una minaccia, una falange armata, ricca e prepotente al servizio di Teheran e Damasco. Perché quando parliamo di Hezbollah parliamo dell’incubo fascistoide e fondamentalista che tiene prigioniero lo sviluppo del Libano e i suoi (pochi) leader democratici. Inoltre, il rappresentante delle future forze di interposizione che dovrebbero garantire «la sicurezza di Israele» e «l’integrità del Libano» (cioè il disarmo di Hezbollah per mano dei libanesi aiutati dalle “mani” Onu), nella scenografia drammatica (e purtroppo reale) di diversi palazzi sventrati, spiega ai giornalisti che è stato Olmert a fare un disastro. I media arabi non potevano perdere una così ghiotta occasione: l’Italia passeggia con Hezbollah e accusa Israele. Per capire la portata dell’evento basterebbe porsi laicamente alcune domande: sarebbe stato diverso se D’Alema, invece degli esponenti di Hezbollah, avesse incontrato gli amici del democratico Hariri assassinato dai siriani pochi mesi fa o il collega druso dell’Internazionale socialista Jumblat? Sarebbe stato diverso se avesse stretto le mani e si fosse fatto filmare con chi, veramente, difende il Libano e (cosa non di poco conto) i principi democratici? Se avesse espresso solidarietà al popolo libanese senza abbracciare Hezbollah? Se avesse conquistato la simpatia popolare libanese senza urtare, accusare, condannare Israele (che comunque si dice di voler difendere)? Ma perché D’Alema lo ha fatto? Perché in lui, come in una buona parte del popolo della sinistra, alberga un grande equivoco. Già all’inizio della crisi, ben destreggiandosi fra le cancellerie del mondo, il ministro degli esteri è tornato da una prima missione in Libano enunciando un concetto: Israele ha vinto sei volte in Libano ma non ha mai vinto. Questa non è solo una constatazione ma è anche una teoria politica: insegnava Nasser «Israele può vincere cento guerre, a noi basta di vincere l’ultima». Così quella frase di apparente buon senso è in realtà la descrizione del vero problema geopolitico del Medio Oriente nonché la teoria principe dei nemici della pace. Lo stato di Israele, esteso come il Lazio e con i suoi cinque milioni di ebrei, non potrà mai sconfiggere (e tanto meno distruggere) gli stati arabi, forti della loro estensione equivalente a due volte e mezzo l’Europa geografica e popolata da oltre 350 milioni di persone. E oggi che il mondo arabo sembra quasi voler approdare a un accordo con Israele (basti pensare che addirittura Bin Laden non fa la guerra a Israele ma all’Occidente), sono altre le forze che alzano la bandiera della distruzione di Israele: paesi non-arabi ma musulmani, un oceano di terre popolato da altri 850 milioni di persone. Questo è il punto: Israele può solo resistere, sopravvivere, ma perché esista in pace e sicurezza occorre che l’oceano musulmano accetti l’esistenza di questo minuscolo scoglio. Ma chi non vuole accettare Israele? Ai più informati è chiaro che il cosiddetto “ri- fiuto arabo” non appartiene al mondo arabo tout court ma a una sua componente, quella che (in opposizione ai vecchi sovrani e notabili amici degli ebrei) ha elaborato un pensiero totalitario, identitario, nazionalista. L’aspetto nazionale e la stagione del post-colonialismo ha fatto apparire questi movimenti fascistoidi agli occhi di certa sinistra europea come fossero espressioni di progresso: qualcuno considerava “compagni” gli assassini del Bath siriano o del Bath iracheno allora legati, finanziati e armati dall’Urss. Al nazionalismo arabo, sconfitto in casa dalla propria stessa incapacità, è seguita l’illusione islamista: la vicenda algerina è maestra. Ora non è più il panarabismo ma il panislamismo, non gli arabi ma i persiani, a fare propria la questione israeliana, ma sia chiaro: non vogliono uno stato per i palestinesi, vogliono distruggere Israele. Quello che sconcerta è che questi nuovi fascisti vengono però “compresi” da buona parte della sinistra in Europa: vengono considerati come i rappresentanti più originali dei popoli e della loro lotta contro le oppressioni (delle quali è responsabile sempre l’occidente!). Ma è un fatto implicitamente razzista, inconsapevolmente colonialista, comunque falso, credere che per liberarsi dalle oppressioni “quei popoli” non possano che aderire a movimenti radicali o fondamentalisti. Se questo è il substrato culturale che permette di parlare con disinvoltura con le formazioni fondamentaliste, di considerarle “legittime rappresentanti”, è poi più facile esprimere politiche ambigue e, temo, disastrose. Forse anche per questo nessun politico italiano ha dato importanza ad alcune evidenti “coincidenze”: Iran e Siria, proprio mentre sono sotto pressione della comunità internazionale (la prima per la sua avventura nucleare e la seconda per le sue responsabilità per l’assassinio del libanese Hariri) cercano ora un ruolo (che qualcuno vorrebbe loro dare) per contenere Hezbollah. Solo una lettura naif può pensare che Hezbollah operi autonomamente, o che i loro attacchi siano la risposta a chi sa quale ingiustizia. E ancora: come non accorgersi che da quando il mondo arabo cerca un accordo con Israele l’Iran ha fatto sua la tesi della distruzione di Israele, ideologicamente e concretamente, sostenendo Hezbollah e Hamas? Ma ora sullo scenario ci sono due importanti novità. Per la prima volta il mondo ha riconosciuto allo stato d’Israele il diritto di difendersi e di avere confini certi, facendosi addirittura carico della sua sicurezza. Come spiegano bene Polito e Colombo (Il Corriere 20 agosto 2006) ora il mondo deve fare sul serio: la risoluzione Onu richiede (e basa la sua logica) sul ritiro dal Sud del Libano sia dei soldati israeliani che delle falangi Hezbollah. Se le Nazioni Unite (e l’Italia) tradissero questo mandato si riproporrebbe la crisi in condizioni assai più gravi. Invece ora, davvero, il consesso internazionale può fare la differenza grazie anche alla seconda novità (che più mi sta a cuore). Oggi, come dopo la guerra del Kippur o come dopo la prima intifada, esiste sul campo l’unica condizione che può far vincere la pace: nessuno può vincere militarmente. Sanno bene i libanesi e i leader del mondo arabo che se Israele verrà attaccato risponderà con la consueta durezza; sanno bene gli israeliani, politici e opinione pubblica, che la forza non basta a piegare i nemici. Questa è la “condizione regina” che porta al compromesso: nessuno può vincere. Ma c’è un’unica obiezione, molto seducente, che possono formulare oggi solo i fanatici di Hezbollah, Hamas, Damasco e Teheran: Israele può vincere cento guerre, a noi basta di vincere l’ultima. Questi sono i nemici della pace e vanno sconfitti, politicamente. Nessuno deve loro prestare il fianco, dare credito, ruolo e dignità: altrimenti sarebbero sconfitti i moderati arabi oggi, domani chissà chi altro. Oggi l’Italia può fare la differenza, non se lo scordino i nostri rappresentanti in parlamento.
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