La Francia esita ad inviare soldati in Libano e chiede che sia controllato il confine con la Siria che non ne vuole sapere e non smette di sostenere il terrorismo
Testata: Il Foglio Data: 24 agosto 2006 Pagina: 1 Autore: la redazione Titolo: «Parigi in retromarcia non esclude di “andare più lontano” in Libano - Perché Bashar el Assad non è pronto per fare il Sadat siriano»
Dal FOGLIO del 24 agosto 2006:
Roma. A due giorni dalla riunione dei ministri degli Esteri dell’Ue, che si terrà domani a Bruxelles, la Francia non ha escluso di poter mandare più soldati in Libano: “Non si può decidere su due piedi l’invio di migliaia di uomini”, ha affermato il ministro degli Esteri francese, Philippe Douste-Blazy. Il premier Dominque de Villepin, dopo aver incontrato il responsabile degli Esteri israeliano, Tzipi Livni, non ha escluso che, “una volta realizzatesi le condizioni necessarie”, la Francia “possa andare più lontano”. Parigi aspetta ancora regole d’ingaggio più forti dal Palazzo di vetro. L’Onu ha annunciato che le norme daranno ai Caschi blu licenza di sparare per proteggersi e proteggere i civili, ma anche per far rispettare il proprio mandato (regole discusse ieri dall’Ue nell’incontro dei rappresentanti diplomatici dei paesi membri). La Francia sembra ancora timida nel definire il proprio impegno al rinforzo dell’Unifil, il contingente dell’Onu incaricato di contribuire all’applicazione della risoluzione 1.701. L’Italia, invece, è pronta ad assumere un alto livello d’impegno (3.000 soldati) prendendo la leadership europea sulla questione libanese. Nella sostanza, però, la posizione francese non è ora molto lontana da quella italiana, ma i responsabili politici parigini si sono rivelati maldestri. Bisogna ricordare i vari interventi di Jacques Chirac nel mese di luglio e agosto, quando spingeva per la risoluzione del conflitto, chiedendo un cessate il fuoco “immediato”. La Francia ha trattato con gli Stati Uniti per far adottare dal Consiglio di sicurezza la risoluzione dell’11 agosto; ha cercato una soluzione politica nell’ambito istituzionale dell’Onu, mantenendo il contatto con Washington per arrivare a una posizione comune e non ripetere le divisioni del 2003. Sembrava ormai scontato per Parigi un ruolo da leader nella futura forza d’interposizione in Libano. I responsabili francesi ripetevano che un tale intervento doveva essere posto sotto l’articolo VII della carta dell’Onu e richiedevano regole d’ingaggio precise: la capacità di far fuoco in condizioni ostili, per non ritrovarsi come in Bosnia negli anni 90, quando il contingente francese fu bersagliato dai cecchini senza poter rispondere. Si tratta di considerazioni sensate che, tra l’altro, trovano una risposta nelle regole d’ingaggio dell’Unifil che si stanno delineando in queste ore, nonché nella volontà americana di adottare una seconda risoluzione per precisare il mandato.
L’Eliseo vuole pattugliare i confini siriani La Francia ha fin dall’inizio dichiarato di concepire un suo intervento nell’ambito di un’azione concertata dell’Ue. Le critiche cui è sottoposta Parigi derivano dalla gestione maldestra della sua posizione. Con la presentazione della risoluzione 1.701 si è conclusa una prima fase, quella politico-diplomatica, e si sono aperte le consultazioni con i vertici militari per definire l’eventuale impiego di truppe. Nell’esercito francese non hanno però dimenticato come nel 1983, 58 paracadutisti persero la vita in Libano assieme a 241 marine americani, vittime di un attentato compiuto da Hezbollah. I militari francesi sanno bene, quindi, quanto sia difficile affrontare le milizie sciite libanesi e sono riluttanti a tornare nell’area senza solide garanzie. Si tratta di seri motivi che sono stati riportati a Chirac dal ministro della Difesa Michèle Alliot-Marie. La presidenza ha dovuto prendere in considerazione la posizione dello stato maggiore e adottare la tattica prediletta da Chirac: non dire niente e mettersi al riparo, aspettando che il polverone ricada, mirando anche a suscitare una presa di coscienza da parte dei partner. Osservatori a Bruxelles rilevano quanto poco europea sia (e sia stata) la Francia: sempre pronta a esprimere una posizione, per l’appunto, “europea” che non fa altro che allargare la sua visione nazionale. Parigi non sa, e spesso non vuole, usare i meccanismi istituzionali dell’Ue. Chirac pensava a organizzare venerdì un incontro con il cancelliere tedesco Angela Merkel, privilegiando l’ormai tramontata visione dell’asse bilaterale franco-tedesco, mentre Massimo D’Alema chiedeva la convocazione del consiglio dei ministri degli Esteri. Il governo italiano tenta il colpo politico. Ma voci italiane, anche nell’esecutivo, si avvicinano alla linea francese e iniziano a considerare con più cautela un impiego militare che assomiglia a una “missione impossibile”. A Parigi non manca chi è pronto a contribuire alla forza ma non sarebbe dispiaciuto nel vedere l’Italia assumersene il rischio. L’ultima richiesta francese, peraltro, è sacrosanta: l’Unifil dovrà evitare l’arrivo di armi controllando tutta la frontiera libanese, parte siriana compresa.
Di seguito, un articolo sulla politica siriana:
Gerusalemme. Il presidente siriano Bashar el Assad si è scagliato contro la richiesta israeliana di schierare forze internazionali lungo il confine siro-libanese per prevenire, sostiene il governo di Ehud Olmert, il contrabbando d’armi verso Hezbollah. “E’ un atto ostile verso la Siria”, ha detto. Il ministro degli Esteri siriano, Walid Moallem, minaccia la chiusura delle frontiere in caso di dispiegamento di truppe in prossimità. Pochi giorni fa, il ministro per la Sicurezza interna israeliano, Avi Dichter aveva aperto un vivo dibattito nel paese, schierandosi a favore di un ritiro dalle alture del Golan, in cambio di una pace con Damasco. Il premier Olmert ha subito preso le distanze dalla dichiarazione del suo ministro: “Non c’è in agenda nessuna ripresa di negoziati con la Siria, membro aggressivo dell’asse del male e sostenitore del terrorismo, a meno che il paese non la smetta di fornire missili a organizzazioni terroristiche”. Il vice premier, Shimon Peres, è tornato sulle parole di Olmert: “I tempi non sono maturi per riprendere le trattative a meno che i siriani non ci dicano che sono aperti a seri colloqui”. In molti in Israele hanno definito le dichiarazioni di Dichter fuori luogo a pochi giorni dal cessate il fuoco tra Tsahal e Hezbollah, gruppo sostenuto dalla Siria. Eppure la proposta del ministro non nuova tra i vertici dell’intelligence. C’è chi in Israele ha ipotizzato un tentativo di separare Damasco dall’Iran fecendo svolgere così alla Siria un ruolo stabilizzante nella regione. Eyal Zisser, capo del dipartimento per il medio oriente e la storia africana dell’Università di Tel Aviv, sostiene che l’unico modo di rompere l’alleanza tra Teheran e Damasco è proprio quello di facilitare un accordo di pace tra la Siria e Israele, anche se ammette che, specialmente in seguito alla recente guerra in Libano, si tratta di un’impresa di difficile realizzazione. “Se si ascoltano attentamente i discorsi del presidente Assad – ha detto il professore al Foglio – persino l’ultimo del 15 agosto, il presidente non scarta mai completamente la parola pace o l’opzione dei negoziati quando si riferisce a Israele. Olmert e Peres, nelle lororo recenti dichiarazioni, hanno entrambi lasciato aperta la questione di trattative con la Siria”. Zisser sostiene però che, se Assad fosse sincero quando parla di pace, dovrebbe allora mostrarlo con i fatti, cambiare tattica, parlando con Israele ma allo stesso tempo diminuendo l’ostilità interna verso il paese e cessando di sostenere il terrorismo. In breve, Assad dovrebbe decidere se seguire o no i passi del suo predecessore egiziano Anwar el Sadat, che negli anni Settanta percepì la volontà israeliana di negoziare con il Cairo e iniziò uno storico dialogo. “Se Assad prendesse questa strada – spiega Zisser – allora Israele dovrebbe affrontare la questione del ritiro dalle alture del Golan”. L’ex ufficiale dell’esercito israeliano, il generale Yossi Kupperwasser, trova che Zisser sia troppo ottimista. “Assad non è Sadat! Il leader siriano crede di poter fare il doppio gioco, parlando di pace e sostenendo il terrorismo. Ci sono persone, in Israele, come Dichter, che pensano di poter usare l’esca delle alture del Golan per far cambiare direzione alla Siria. I siriani sono più interessati dal destino del Libano che dal ritorno del Golan”. Dice il generale che la vera minaccia per Assad, oggi, è la democratizzazione del Libano, che potrebbe contagiare la Siria e mettere a rischio il regime del rais. Finché Damasco rimane legata all’Iran – spiega – non vedo possibilità che Assad possa diventare promotore di pace nella regione. Né la Siria né Israele hanno comunque del tutto cancellato l’opzione dei negoziati e la questione, sui mass media israeliani e internazionali, resta un argomento di grande attualità, in queste ore. La tesi di Max Boot, editorialista del Los Angeles Times, si discosta molto da quella di Zisser. “La storia – scrive, suggerisce che soltanto la forza o la minaccia della forza può ottenere concessioni sostanziali dalla Siria. Nel 1998, la Turchia minacciò un’azione militare se la Siria non avesse messo fine al suo sostegno del terrorismo curdo. Damasco obbedì prontamente. Israele potrebbe non avere altra scelta se non quella di seguire l’esempio turco”.
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