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Il Foglio Rassegna Stampa
23.08.2006 Teheran continua la corsa verso il nucleare
mentre l'alleanza con Hezbollah e Hamas destabilizza il Medio Oriente

Testata: Il Foglio
Data: 23 agosto 2006
Pagina: 1
Autore: la redazione
Titolo: «L’ULTIMO TRUCCO DEI MULLAH - Perché la tregua libanese rischia di essere solo una pausa»

Dal FOGLIO del 23 agosto 2006, un'analisi della risposta temporeggiatrice dell'Iran alle richieste della comunità internazionale sul programma nucleare.
Ecco il testo: 

Roma. A Teheran l’uomo del giorno è Ali Larijani. Tocca al capo del Consiglio per la sicurezza nazionale consegnare la contro-proposta iraniana al pacchetto di incentivi dei 5 più 1 (Russia, Cina, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania) e annunciare che “nonostante l’illegale deferimento dell’Iran al Consiglio di sicurezza” la risposta di Teheran non soltanto sarà costruttiva ma aprirà “finalmente” il campo a un “negoziato serio”. Dal 23 agosto, stando alle autorità iraniane, sarà tutta un’altra musica perché nella replica di Teheran ci saranno “alcune domande utili a dissipare le ambiguità” e soprattutto “molte idee” che forniranno “un’opportunità eccezionale” per raggiungere il compromesso.
E’ presto per dire se l’ottimismo di Larijani riuscirà a sgretolare lo scetticismo delle cancellerie internazionali, se la sua “nuova formula” sarà sufficiente per dilatare i tempi della diplomazia e dividere ancora una volta i grandi elettori del Consiglio di sicurezza. L’Iran gioca con le sfumature. Rifiuta la conditio sine qua non della sospensione del programma di arricchimento e mette sul piatto della bilancia suggerimenti, consigli e un vago sentore di una possibile futura arrendevolezza. Del resto l’esperienza insegna che c’è sempre qualcuno pronto a credere alla buona fede di Teheran. Non c’era da trattenere il respiro, ieri, per sapere che l’Iran non congelerà il suo programma di arricchimento dell’uranio. Lo ha tuonato l’ayatollah Ali Khamenei e lo ha confermato il vicedirettore dell’Agenzia atomica iraniana, Mohammed Saeedi. Non soltanto la sospensione secondo Saeedi non è in agenda, ma Teheran sta “portando avanti la ricerca in tutti gli ambiti”. Eppure l’alto rappresentante per la Politica estera dell’Ue, Javier Solana, continuava a sperare nella diplomazia in virtù del canale aperto da Bruxelles con Larijani. La proposta iraniana “merita un’analisi dettagliata”, ha detto ieri. Anche l’Iran per motivi opposti confida nella diplomazia. Prima ancora che Larijani incontrasse gli ambasciatori ieri al palazzo del Consiglio per la sicurezza nazionale, tra i grandi elettori del Consiglio di sicurezza già trapelavano i distinguo: Stati Uniti e troika europea pronti a far valere le conseguenze della mancata osservanza della risoluzione dell’Onu; Mosca e Pechino orientate, invece, a cogliere l’ombra di un segnale positivo. Per europei e americani un no al congelamento del programma di arricchimento equivale a un rifiuto del pacchetto di incentivi. L’ambasciatore americano all’Onu, John Bolton, ha chiarito ieri che un rifiuto iraniano rappresenterebbe “un test per il Consiglio di sicurezza”. “Studieremo la risposta iraniana attentamente, ma se non dovesse soddisfare i termini definiti dai 5 più 1 siamo pronti a procedere al Consiglio di sicurezza con la richiesta di sanzioni”.

Insinuare il dubbio che il regime possa cedere
Cinesi e russi hanno già specificato che a prescindere dalla risposta secca sulla richiesta di congelamento bisogna capire se la sospensione sia o no trattabile. Teheran sostiene da mesi che il blocco del programma di arricchimento non può essere una condizione pregiudiziale all’inizio di colloqui, ma ha anche suggerito che questo risultato potrebbe essere raggiunto alla fine della trattativa. Lo va ripetendo da mesi, aggrappandosi alle zone grigie del trattato di non proliferazione e ne fa una questione di orgoglio nazionale. La leadership iraniana è consapevole che la “nuova formula”, per quanto sapientemente ambigua, non basterà ad archiviare il dossier nucleare, ma insinuare il dubbio che l’Iran sia disposta a cedere è di per sé un obiettivo importante. E prima ancora che trapelassero i primi commenti alla replica iraniana le eminenze grigie di Teheran avevano di che rallegrarsi. Le sanzioni invocate da Washington e dalla troika europea raccolgono pesanti obiezioni. “La posizione del governo cinese è molto chiara. Abbiamo sempre sostenuto una soluzione diplomatica della questione piuttosto che minacciare l’uso della forza o le sanzioni – ha detto Sun Bigan, inviato speciale cinese in medio oriente – Le sanzioni potrebbero creare tensioni a detrimento degli interessi regionali e anche dei nostri”.
Mosca resta scettica e secondo Konstantin Kosachev, presidente della commissione Esteri della Duma “le sanzioni saranno di natura diplomatica”, mentre il governo giapponese ha già segnalato l’intenzione di premere per un “alleggerimento” delle misure punitive. Per Tokyo, grande acquirente di idrocarburi iraniani, sarebbe preferibile che le sanzioni non colpissero le esportazioni iraniane di petrolio e gas. Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Hamid Reza Asefi, ha così trovato conferma alla sua previsione: “Parlano di sanzioni, ma sarebbero più dolorose per loro che per noi”.

 Sempre dalla prima pagina del FOGLIO, un articolo sull'alleanza tra Iran, Hezbollah e Hamas (cui sembrano ora aggiungersi le Brigate al  Aqsa:

Gerusalemme. Il quotidiano libanese Daily Star ha definito la relazione tra Hamas e Iran-Hezbollah “un’attrazione fatale”. La relazione proibita tra il movimento sunnita palestinese e l’asse sciita continua. Gli stessi analisti palestinesi riconoscono però che a lungo termine “l’attrazione fatale” è destinata alla catastrofe. “Nonostante l’esaltazione per la sconfitta d’Israele, Hamas non ha vinto niente”, spiega al Foglio Mohammed Salhi, giornalista palestinese. Continuano le trattative per un governo di unità nazionale tra il gruppo armato e Abu Mazen, presidente dell’Autorità nazionale, che ha dichiarato un cessate il fuoco nei confronti di Israele, rifiutato dal Jihad islamico. Tra le richieste di Hamas al rais, c’è il rilascio dalle prigioni israeliane dei membri del Parlamento appartenenti al movimento islamico. Ieri, una corte militare israeliana ha accusato il presidente del Parlamento palestinese, Abdel Aziz Duaik, membro di Hamas, detenuto, di appartenere a un’organizzazione illegale. Khaled Meshaal, leader di Hamas a Damasco, ha detto di essere pronto a uno scambio di prigionieri, rispondendo alle accuse del presidente egiziano, Hosni Mubarak, che aveva insinuato che Hamas stesse frenando la risoluzione della crisi in Libano. Mentre Hezbollah combatteva contro Israele, il gruppo sunnita non ha voluto accettare alcuno scambio e ha preferito continuare la lotta armata, per una questione di lealtà, dicono alcune fonti. “E’ l’unità della muqawama (resistenza)”, spiega al Foglio Marcelle Akel, giornalista libanese di Radio Montecarlo. Per Akel, Meshaal ha voluto essere fedele fino in fondo a Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah. Durante la crisi, Hamas ha continuato a combattere “l’entità sionista”, in appoggio al gruppo sciita, senza mai accettare alcun negoziato per il tanto atteso rilascio dei prigionieri. La causa della distruzione di Israele è, infatti, unificante. Qualche settimana fa, Ismail Haniye, primo ministro palestinese, le cui azioni dipendono in larga parte dalle decisioni di Meshaal, aveva dichiarato che l’Anp (istituzione nata dagli accordi di Olso e che di conseguenza riconosce Israele) non aveva più senso di esistere. Il Jihad islamico ha poi pubblicato sul proprio sito – che ha un dominio iraniano – che l’Anp deve essere sciolta, perché considerata strumento di pressione israeliano e americano. “E’ interesse di Teheran che l’Autorità scompaia – dice al Foglio Wahied Wahdat-Hagh, ricercatore di origine iraniana del Memri – In questo modo, sarebbe la ‘muqawama’ a governare”. Solidarietà tra gruppi armati Pochi giorni fa, Hamas ha però deciso di aprire un dialogo con Abu Mazen, che sembra soffocare nella morsa della rinnovata alleanza tra Meshaal e Nasrallah. Se anche la coalizione di governo si facesse, non sembra essere per tutti una buona notizia. “Il diavolo si nasconde nei dettagli – spiega al Foglio Daoud Kuttab, analista – Se Haniye rimarrà premier, allora non cambierà niente”. Nei Territori, la presenza iraniana cresce. Dopo il Jihad islamico e l’amicizia di Hamas, anche le Brigate dei martiri di al Aqsa, braccio armato di Fatah, sembrano essersi avvicinate a Teheran e Hezbollah. In un’intervista al quotidiano palestinese, al Hayat al Jadida, Abu Hamad, leader del gruppo, ha detto di “essere orgoglioso per la buona e stretta relazione” con il Parito di Dio. “A Nasrallah, leader della resistenza noi diciamo che nelle Brigate ci sono i suoi fratelli e i suoi figli”. Il quotidiano del Kuwait, al Seyassah, scrive che a Damasco, dove vive il leader di Hamas, sono arrivati da Teheran aerei carichi di missili a lunga gittata per la muqawama di Mashaal e Nasrallah.

Da pagina 3, un'intervista all'analista  Martin Kramer, che spiega perchè la guerra tra Israele ed Hezbollah appena conclusasi potrebbe essere stata soltanto una "battaglia".
Ecco il testo:  

Tel Aviv. Né Israele né Hezbollah hanno vinto la guerra. Ne è convinto Martin Kramer, analista del Washington Institute for Near East Policy, grande conoscitore dell’islam politico. “Innanzitutto non sono sicuro che sia stata una guerra. E’ stata piuttosto una battaglia, preceduta da altre e che potrebbe avere un seguito. In questa battaglia, in un certo senso, hanno perso entrambe le parti – spiega al Foglio – Hezbollah ci ha rimesso le sue posizioni nel sud del Libano, Israele parte del suo prestigio per non aver raggiunto alcuni degli obiettivi che si era dato: la liberazione dei due soldati prigionieri e la fine del lancio dei razzi”. Kramer ha diretto per più di due anni il Moshe Dayan Center for Middle Eastern Studies dell’università di Tel Aviv e ha insegnato negli atenei americani di Cornell, Georgetown, Brandeis e Chicago. In queste ore di tregua tra le parti, una forza internazionale d’interposizione fatica a essere dispiegata nel sud del Libano. L’Europa, infatti, che in un primo tempo si era proposta per svolgere un ruolo centrale nella missione, sembra ora trascinarsi controvoglia verso quest’impegno. Kramer sostiene che “le forze internazionali servono a tenere i civili, da entrambe le parti, fuori dal campo di battaglia”. Un contingente armato rappresenta “la neutralizzazione del confine come arena di battaglia”. Ma – spiega l’analista – se il Libano non risolve la sua contraddizione, cioè avere una milizia armata diretta dall’Iran, che determina la politica di sicurezza e difesa, ci sarà un secondo atto del conflitto nel futuro. Il cessate il fuoco è fragile. In queste ore, secondo Kramer, “Iran e Siria cercano di rimpiazzare le armi che Hezbollah ha perso durante la guerra. Si tratta di una mossa importante soprattutto per l’Iran”. Teheran ha fino al 31 agosto, secondo una risoluzione delle Nazioni Unite, per mettere fine al suo programma d’arricchimento dell’uranio. Oltre questa data, come ha ricordato due giorni fa il presidente americano George W. Bush, rischia sanzioni. Oggi, l’Iran vuole mostrare d’essere in grado di colpire Tel Aviv, se gli Stati Uniti minacciassero un attacco, spiega l’analista, e usa il “successo” di Hezbollah come deterrente. “Il punto debole della risoluzione dell’Onu 1.701 sul Libano – dice – è che non prevede alcun meccanismo d’ispezione del confine tra il paese e la Siria per bloccare l’ingresso d’armi. Dobbiamo quindi aspettarci che Israele continui a compiere voli di ricognizione e operazioni”. Il conflitto ha cambiato sensibilmente la realtà. Infatti, secondo Kramer, “il confine non sarà più uguale a prima, se le forze internazionali e l’esercito libanese agiscono. Non mi aspetto che il tipo di guerra cui abbiamo appena assistito si ripeta. Il miglior modo per evitare un secondo round è stabilire la sovranità del governo libanese lungo la frontiera, creare una situazione dove le forze internazionali controbilancino l’influenza di Iran e Siria”. E’ necessario trovare un equilibrio lungo il confine. Sostiene Kramer che il conflitto non abbia rafforzato Hezbollah: “L’influenza del Partito di Dio ha un limite: l’ampiezza della comunità sciita, numerosa ma non maggioritaria. A differenza dell’Iraq, dove gli sciiti sono la maggioranza e chi ha il loro controllo ha il potere sull’intero paese. Quando il ruolo di Hezbollah va oltre i propri limiti naturali – come in questo momento – le altre forze comunitarie cominciano a farlo indietreggiare. E quello che accadrà in Libano e nel resto del medio oriente. La popolazione in Libano comincerà a realizzare il costo di questa guerra. Hezbollah, inoltre, nel conflitto ha perso il controllo del confine con Israele”.

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