Un'intervista "senza pregiudizi", ma con qualche stereotipo di troppo quella di Pierluigi Diaco a Suha Arafat
Testata: Il Foglio Data: 22 agosto 2006 Pagina: 1 Autore: Pierluigi Diaco Titolo: «Diaco da Suha»
Dovrebbe essere un"'intervista senza pregiudizi" quella di Pierluigi Diaco a Suha Arafat, pubblicata sulla prima pagina del FOGLIO del 22 agosto 2006. Senza pregiudizi, ma anche senza molta informazione circa le poco edificanti vicende della lotta per il controllo dell'eredità di Arafat, che hanno opposto la vedova alla nomenklatura di al Fatah. O circa il ruolo di grande burattinaio del terrorismo antisraeliano del raìs. Così, per evitare i pregiudizi, Diaco finisce con il riproporre gli stereotipi: Arafat assediato e umiliato alla Muqata, senza apparente ragione, dagli israeliani la sua "eredità morale" raccolta dalla moglie, l'amicizia con Craxi descritta con i toni del rimpianto per una più accorta politica estera italiana. Ecco il testo:
Tunisi. A Tunisi domenica faceva caldo, molto caldo. Il block notes tascabile infilato nella tasca dei miei jeans non ha resistito al viaggio e le pagine si sono bagnate di sudore e fatica molto velocemente. Niente più fogli, niente più appunti. In macchina interrogo prepotentemente Bobo Craxi, sottosegretario agli Affari esteri, sul rapporto che univa suo padre a Yasser Arafat, gli chiedo di raccontarmi degli aneddoti, gli inoltro ogni tipo di curiosità su Suha Arafat, sul carattere di questa donna, sui gossip che l’hanno riguardata, sulla sua evidente diffidenza nei confronti dei mass media. Craxi risponde con affetto e amicizia nei riguardi della famiglia Arafat e con altrettanta sincera amicizia verso il sottoscritto, mi suggerisce analisi, scenari, paure. Arriviamo dopo qualche ora a destinazione, nella villa che il presidente tunisino Ben Alì (lo stesso che accolse come un fratello Bettino Craxi negli anni passati in esilio a Hammamet) ha messo a dispozione della vedova Arafat. Decine di uomini armati sorvegliano l’elegante chteu, altri si aggirano nelle stanze all’interno, taluni sono occupati esclusivamente a proteggere la piccola Zahwa, unica figlia dell’amore tra Yasser e Suha. Si respira un’aria serena, viziata piacevolmente dall’ironia e dalla dolcezza di Leila, una delle sorelle di Suha, oltre vent’anni passati in Italia, a Roma, a fare la pediatra. Leila, ogni fine settimana, da quando il popolare leader palestinese è morto, prende un aereo e viene a fare visita alla sorella: fu sempre lei a tenere compagnia alla piccola quando Suha a Parigi combatteva contro la morte di suo marito. “Non ho molto piacere a parlare con la stampa. Da quando è morto mio marito, i giornali di mezzo mondo hanno riversato su di me tutte le accuse e le riserve che nutrivano nei confronti di Yasser. Ho passato due anni molto dolorosi e del resto mi sono dovuta sottrarre dalle richieste dei media perché in primo luogo dovevo proteggere mia figlia: la sua serenità è l’unica cosa a cui tengo veramente”. La signora Arafat esordisce così, mi mette all’angolo, preferisce non rispondere a ogni mio tentativo di portare la conversazione sui recenti gossip sentimentali che l’hanno riguardata e le mie insistenze provocano inevitabilmente una dichiarazione secca e inconfondibile: “L’unico uomo che ho amato si chiama Arafat. E’ l’unico uomo del mio passato e del mio futuro. Non ho nient’altro da aggiungere”. L’incontro si fa teso, aggiungo con orgoglio che quello che ci stiamo dicendo sarà oggetto di un mio scritto sul Foglio, la sorella Leila mi domanda con curiosità come mai scrivo per un giornale cosiddetto “nemico”, io rispondo con la solita fuffa, e cioè che il Foglio assorbe intelligenze e opinioni di un’area liberale molto vasta, e aggiungo che il sottoscritto non ha tesi da sostenere (anche se ho le mie idee) ma al contrario un’opinione ancora tutta da maturare sulla figura di Suha Arafat. La sincerità paga da subito e la signora incomincia finalmente a guardarmi negli occhi e a liberarsi con una grazia e una puntualità da leader politico, cioè con un fare molto distante da chi vorrebbe che facesse solamente e più semplicemente la vedova di. “Quello che sta accadendo queste settimane in Libano mi preoccupa. La questione mediorientale – sostiene Suha – rischia di non risolversi più. Sono molto pessimista. Né da una parte né dall’altra ci sono più uomini saggi. Né i rappresentanti del popolo palestinese né quelli del popolo israeliano né Tony Blair e George W. Bush e fino a qualche tempo fa Silvio Berlusconi hanno lavorato veramente in questi ultimi due anni per il raggiungimento della pace”, dice. “E pensare che in molti avevano scomesso che dopo la morte di mio marito le cose sarebbero cambiate, migliorate – continua Suha Arafat – La verità è sotto gli occhi di tutti: l’unico padre che il popolo palestinese ha avuto si chiama Yasser Arafat. Solo mio marito ha rappresentato fino a oggi una valida e reale possibilità di pace”. Il tono e la passione con cui Suha si rivolge non lasciano dubbi: la signora Arafat è sicura che nei prossimi mesi scoppierà una sanguinosissima guerra e ai ragazzi italiani ed europei manda a dire: “Finché i popoli saranno oppressi e le terre occupate, non potremmo di certo biasimare e non comprendere quelle centinaia di giovani palestinesi che, invece di tenere fiori in mano, sono costretti a imbracciare delle armi. E’ importante che i giovani europei si rendano conto di questa condizione e si battano per costringere i loro governi a fare politiche che abbiamo sinceramente come obiettivo la pace”. Inevitabile chiedere alla signora Arafat che cosa pensa dell’attuale governo italiano: “Il governo Prodi è molto credibile. Rappresenta, meglio di quello precedente, lo spirito pacifico e gioioso del popolo italiano”. Su questa dichiarazione vorrei aprire un dibattito, inoltrarle il mio punto di vista, andare più a fondo, ma gli esprimo soltanto la gratitudine per l’amore che nutre nei confronti del nostro paese, del resto sono venuto qui per ascoltare e non certo per un faccia a faccia. Sta di fatto che non mi tengo e non faccio fatica a chiederle che cosa pensa dell’Italia e della politica italiana: ometto il giudizio, scontato, su Berlusconi, e apprendo con stupore che a Suha Arafat, quando pensa al nostro paese, vengono in mente due figure: quella di Bettino Craxi e quella di Giovanni Paolo II. Poi, a un tratto, mentre racconta gli incontri con il predecessore di Benedetto XVI, dalla bocca mi esce una domanda su cui francamente non avevo fino a quel momento pensato: le capita di sognare suo marito? Suha Arafat si commuove, piange, si lascia andare: “Non passa una settimana senza che io lo sogni. Lo incontro spesso di notte e ogni volta mi dice che vorrebbe tornare, che il suo popolo ha bisogno di lui. I miei sogni sono rimasti l’unico appuntamento che ho ancora con mio marito. Del resto la morte lo ha portato via troppo presto. Se lui fosse ancora vivo, il popolo palestinese sarebbe stato condannato a ben altre sorti”. “Sono molto pessimista” La signora Arafat parla, dichiara, sentenzia, ma sempre con una certa prudenza. Poi di sé dice: “Non c’è dubbio alcuno. Sono l’erede morale di mio marito. Il mio impegno è quello di continuare a battermi per la libertà del nostro popolo. Di raccontare al mondo e all’Europa la grandezza di Yasser. E inevitabilmente di parare i colpi, ora che lui non c’è più, di coloro i quali, quando Yasser era in vita, l’avrebbero voluto morto. Sono pronta a proseguire il suo percorso e la sua testimonianza”. Fuori dalla politica? Non possiamo starne sicuri, ma di certo la signora Arafat non rimarrà a braccia conserte e di sicuro non resterà nemmeno a guardare da lontano il destino a cui il suo popolo rischia di andare incontro. Intanto, davanti al sottoscritto e al comune amico Bobo Craxi, non nasconde il timore per “i pericoli a cui andranno incontro i vostri militari impegnati prossimamente in Libano”, e aggiunge: “Comunque il vostro popolo ci vuole bene e questo i palestinesi lo sanno. Saranno mesi complessi e difficili, spero che i vostri militari non ne paghino le conseguenze. Del resto nulla è certo, nemmeno l’avvento della guerra. Comunque io sono molto pessimista”. La conversazione continua a tavola: una ricca colazione a base di pesce e riso bianco accompagna le chiacchiere, ogni tanto si alza per mostrarmi una foto o un ritratto di Yasser, e Craxi ammette: “Questo governo non avrebbe mai permesso e acconsentito che Arafat vivesse quattro anni di prigionia e isolamento. Ne sono certo”. La signora Arafat annuisce, ringrazia, mi confida che senza l’amicizia e l’affetto del presidente Ben Alì non sa se ce l’avrebbe fatta a trovare un luogo sicuro dove crescere sua figlia, torna quindi a commuoversi quando tra i commensali si aggiunge la piccola, e con un po’ di imbarazzo mi confida che presto racconterà la sua verità in un libro. Presto, forse prima che sia troppo tardi.
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