Israele dovrebbe trattare con la Siria, e persino con l'Iran. Ne è certo Antonio Ferrari, nell'editoriale "Passi incerti sulla via di Damasco", pubblicato in prima pagina dal CORRIERE della SERA del 22 agosto 2006.
La sopravvivenza del regime di Assad, ci assicura l'editorialista, è persino una necessaria garanzia di stabilità regionale, nonostante il sostegno che esso garantisce a numerose organizzazioni terroristiche.
Non vogliamo entrare nella discussione in atto anche in Israele circa l'opportunità di cercare di avviare trattative con Damasco e Teheran (anche se quest'ultima ipotesi inj particolare ci appare del tutto staccata dalla realtà: il regime iraniano vuole distruggere Israele, non stipulare accordi) , ciò che vogliamo sottolineare è l'assenza, dall'analisi di Ferrari, di ogni cautela critica.
L'editorialista non si chiede nemmeno se Assad e Ahmadinejad sono davvero interessati a una trattativa, se la loro ideologia e il loro legami con il terrorismo glielo consentirebbe, e se un eventuale, improbabile accordo sarebbe poi rispettato.
Questa assenza di cautela discende da un dogma che ha più volte mostrato la propria nocività, secondo il quale ogni situazione deve essere risolta con il dialogo, anche con i più efferati e pericolosi dittatori.
Ecco il testo:
La guerra d'estate ha prodotto guasti assai gravi ma anche qualche bagliore di realismo, quindi di speranza, perché attori e comprimari dell'ultimo doloroso capitolo mediorientale stanno rendendosi conto che nulla potrà tornare come prima. C'è chi si confessa apertamente, come Israele, forte della sua democrazia e pronto a mettere in piazza le divisioni all'interno del governo e delle forze armate; chi, come i palestinesi, punta a cementare un minimo di concordia interna fra laici del Fatah e integralisti di Hamas.
Chi abbassa i toni come la Siria, dopo alcune incaute dichiarazioni del presidente Bashar el Assad, nella speranza di trarre profitto politico dall'esito della guerra. Soltanto l'Iran, galvanizzato dalla tenuta del suo figlioccio libanese Hezbollah, mantiene la linea dura nella sua corsa al nucleare e al processo di arricchimento dell'uranio: «Sospenderlo è impossibile».
Sia il presidente Ahmadinejad, sia la guida spirituale Alì Khamenei continuano la loro sfida alle grandi potenze e all'Onu, irridendo le possibili conseguenze.
Ma se è vero, come molti analisti ritengono, che la mossa più efficace sia quella di allontanare Damasco da Teheran, ecco che la Siria, che il premier israeliano Ehud Olmert ha definito un lato dal triangolo del male (gli altri due sono appunto Iran e Hezbollah), potrebbe tornare in gioco, non come nemico ma come elemento stabilizzatore. L'idea che Assad possa essere rovesciato fa venire i crampi all'intelligence di Gerusalemme, che disegna cupi scenari: con i Fratelli musulmani al di là del confine, o ancor peggio con incubi di tipo iracheno o somalo.
Israele sa che la guerra libanese contro Hezbollah si è conclusa con un sostanziale smacco. L'inchiesta per accertare le responsabilità dei militari ne è un preciso indizio. Ma quel che sta accadendo nel mondo politico, e soprattutto all'interno della maggioranza di governo, fotografa il clima di incertezza sul da farsi. Clima che ha prodotto tensioni e qualche aspra disputa fra il premier Olmert e almeno tre dei suoi ministri. Motivi del contendere sono proprio le caute aperture, per il momento tattiche, sull'atteggiamento da tenere nei confronti di Damasco. In ordine cronologico: il ministro della Difesa, Amir Peretz, esce allo scoperto per primo, sostenendo che ora bisogna rilanciare il dialogo con i palestinesi e saggiare le intenzioni di Damasco; seguendo questa strada, la ministra degli Esteri, Tzipi Livni, che ha lavorato nel Mossad, era la pupilla di Ariel Sharon e molti accreditano come la candidata più probabile alla guida di un futuro governo, si spinge oltre, e incarica uno dei suoi collaboratori, l'esperto Yaakov Dayan, di prepararle un dossier sulla possibilità di aprire un canale con la Siria di Assad. Il fronte dei possibilisti si carica di un altro intervento pesante, quello del ministro della Sicurezza interna Avi Dichter, il quale dice che le alture del Golan potrebbero essere restituite a Damasco «in cambio di una pace vera».
Passi assai lunghi, che hanno provocato l'immediata reazione di Olmert, il quale ritiene impossibile un dialogo con il regime di Assad, «finché la Siria continuerà a sostenere organizzazioni terroristiche». Le parole di Olmert sono un brusco altolà ai suoi collaboratori, ma rivelano le difficoltà del premier a mantenere compatta la squadra di governo e a evitare illusorie fughe in avanti.
È la conferma di quanto si sosteneva, in Israele, nell'ultima settimana di guerra, con la lotta sorda e il reciproco scambio di accuse fra i responsabili dell'esecutivo. Solo il navigato Shimon Peres si è accostato alle posizioni del primo ministro, sostenendo che prima di pensare alla Siria bisogna impegnarsi sul fronte palestinese.
È presto per dire se il movimentismo (per ora verbale) di Gerusalemme produrrà sviluppi importanti. Tuttavia, è certo che Israele, dopo le amarezze di quella che molti giornali hanno definito «la guerra inutile» sta rivedendo la sua strategia regionale. Tanto che, in un editoriale, l'ex capo del Mossad, Efraim Halevy, si è spinto a scrivere che si potrebbe anche pensare ad aprire un dialogo con il nemico più ostinato: l'Iran.
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