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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
21.08.2006 Missione in Libano a guida italiana?
la richiesta dal premier israeliano Olmert

Testata: Corriere della Sera
Data: 21 agosto 2006
Pagina: 2
Autore: Davide Frattini - Elisabetta Rosaspina - Gianni Riotta
Titolo: «Israele all'Italia, guidate voi la missione - E la Francia ottiene un summit a 25 dell'Unione - Le truppe dell'Onu potranno sparare sugli Hezbollah - Ma da soli no»

Dal CORRIERE della SERA del 21 agosto 2006, una cronaca di Davide Frattini sulla richiesta di Israele all'Italia di guidare la missione internazionale in Libano. Ecco il testo:

 GERUSALEMME — «È importante che l'Italia guidi la forza multinazionale in Libano». Una telefonata e qualche richiesta. Ehud Olmert ha sentito Romano Prodi e ha enfatizzato il ruolo delle nostre truppe («cruciale») perché la risoluzione 1701 della Nazioni Unite possa essere attuata. «Un contributo per la pace in Medio Oriente» lo ha definito il primo ministro israeliano. Olmert si augura che «i militari arrivino al più presto e che i soldati italiani controllino i valichi di confine tra Siria e Libano». Prodi ha anche parlato con Fouad Siniora e il premier libanese ha sottolineato la necessità di «un ruolo di prima importanza per il vostro Paese».
La richiesta di Olmert al primo ministro italiano arriva poche ore dopo che fonti del ministero degli Esteri israeliano avevano fatto capire quanto disappunto circolasse nel governo per le decisioni francesi. «La scelta deludente di limitare a 200 il numero dei soldati inviati in Libano — ha commentato un funzionario alla France Presse
— ha suscitato stupore e sgomento. Parigi in un primo tempo aveva evocato la possibilità di mandare migliaia di militari, che avrebbero dovuto costituire la colonna vertebrale della forza multinazionale. Siamo molto lontani da questa cifra».
Mentre l'Onu discute i dettagli delle regole di ingaggio e la composizione della squadra, il ministro della Difesa Amir Peretz ha spiegato che Tsahal non lascerà avvicinare al confine israeliano l'esercito regolare libanese. «Dobbiamo impedire che arrivino a due chilometri dalla frontiera, senza che prima siano presenti i militari della forza internazionale». L'ex sindacalista, leader dei laburisti, ha anche avvertito — durante la riunione settimanale del governo — che il Paese deve prepararsi fin d'ora a un possibile «secondo round» contro gli Hezbollah. Che secondo il capo di Stato Maggiore Dan Halutz sarebbero stati sconfitti «ai punti e non per K.O.» Su un altro fronte, quello siriano, Israele sembra prepararsi a un possibile dialogo. Il ministro degli Esteri Tzipi Livni ha nominato Yaakon Dayan, uno dei suoi consiglieri, alla guida di una squadra che valuti se è nell'interesse dello Stato ebraico aprire i negoziati con Bashar Assad. Dayan ha già avuto un colloquio con Itamar Rabinovich, adesso rettore dell'università di Tel Aviv, nel 1995 capo della delegazione voluta dal premier Yitzhak Rabin, pochi mesi prima di essere assassinato, per sondare l'allora presidente Hafez Assad. Nei prossimi giorni vedrà Uri Sagi, che svolse lo stesso ruolo per Ehud Barak, prima che i colloqui franassero nel marzo del 2000.

Di seguito, l'articolo di Elisabetta Rosaspina sul summiti dell'Unione europea chiesto e ottenuto dalla Francia per definire la missione in Libano e i contributi delle singole nazioni:

PARIGI — «Parliamone». Sotto pressione, soprattutto di Israele e degli Stati Uniti, per la sua riluttanza a impegnare altri uomini in Libano, il governo francese ha ottenuto un incontro a Bruxelles, mercoledì prossimo, con i vertici della diplomazia degli altri 24 Paesi europei.
L'obiettivo traspare dalle parole del ministro degli Esteri Philippe Douste-Blazy: contarsi e contare il contributo che ciascuna nazione è disposta a mettere sul tavolo per raggiungere la non facile quota di 15 mila Caschi Blu (di cui 3.500 entro il 2 settembre), indispensabili per tentare di mantenere l'ordine e il cessate il fuoco tra il Sud del Libano e Israele.
Ma, a Bruxelles, il rappresentante della Francia vuole anche confrontare le opinioni sulle garanzie di sicurezza e operatività che la nuova configurazione dell'Unifil (la Forza temporanea delle Nazioni Unite in Libano dal 1978) ha ricevuto da New York. Insomma, un chiarimento sulla ripartizione del «conto», sui mezzi a disposizione e sulla natura del lavoro da svolgere nell'ambito della risoluzione 1701.
Douste-Blazy sa bene che la Francia è ancora il capo-cordata e che tutti gli occhi, compresi quelli di Bush, sono puntati su Parigi: di sicuro non arriveranno rinforzi dagli Stati Uniti né, per ragioni storiche, truppe di terra tedesche dalle parti di Israele. Tutt'al più una nave per intercettare eventuali carichi d'armi diretti agli Hezbollah. Gli altri Paesi, secondo il vice segretario generale dell'Onu, Jean-Marie Guéhenno, aspettano un segnale da chi si è più adoperato per raggiungere la tregua: la Francia. L'appello alla solidarietà europea del ministro francese è stato raccolto dal presidente in carica dell'Unione Europea, il finlandese Erkki Tuomioja.
Il ministro degli Esteri francese sente di avere argomenti da far valere: «Siamo stati i primi a inviare ancora 200 uomini di rinforzo immediato ai 200 già in organico alla vecchia Unifil. Ne abbiamo altri 1.700 sul posto che, anche se non lavorano sotto Caschi Blu, stanno lavorando per i Caschi Blu, sul piano logistico. Siamo felici di sapere che l'Italia e, spero, la Spagna e altri Paesi europei sono disposti a intervenire con i loro contingenti». Che hanno due compiti immediati: agevolare il dispiegamento dell'esercito regolare libanese nel Sud del Paese e convincere gli israeliani a ritirarsi. E, poi, chiede il ministro: «Che intenzioni hanno i Paesi musulmani? ». La sua collega della Difesa, MichèleAlliot- Marie, teme l'impatto di una forza tutta occidentale nel Sud del Libano. Ma Israele si oppone alla presenza vicino alle sue frontiere di militari di Paesi con cui non ha relazioni diplomatiche, come la Malesia, l'Indonesia o il Bangladesh, inclini a fornire Caschi Blu all'Onu.
Il pallino torna sempre in mano alla Francia, che secondo il ministro degli Esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier, dovrebbe fare uno sforzo in più. O all'Italia, cui si rivolge invece la cancelliere Angela Merkel. Ci sono ancora due giorni di trattative prima di riunirsi a Bruxelles e verificare se il piatto piange.

Un articolo di Davide Frattini riguarda le regole d'ingaggio delle truppe Onu:

GERUSALEMME — «Le truppe Onu nel Sud del Libano saranno autorizzate ad aprire il fuoco sui miliziani Hezbollah. Se i militari della forza multinazionale si imbattono in uomini armati che rifiutano di deporre le armi, hanno il permesso di usare la forza». Poche parole di Stéphane Dujarric, portavoce del segretario generale Kofi Annan, sentito dal quotidiano
Haaretz.
Poche parole che rischiano di avere un grande peso. Dujarric si è affrettato a precisare che il giornalista israeliano lo ha male interpretato e di non aver detto nulla di più rispetto a Mark Mallock Brown, vice di Annan, quando ha annunciato di aver inviato il documento con le regole d'ingaggio ai Paesi disposti a partecipare. Ma le sue dichiarazioni sembrano delineare una missione in cui i soldati italiani e delle altre nazioni si potrebbero trovare a dover disarmare gli estremisti sciiti. Anche una fonte diplomatica a Gerusalemme — citata dal sito del giornale Yedioth Ahronoth,
il più venduto nel Paese — è convinta che il mandato Onu garantirà ai Caschi Blu «il diritto di aprire il fuoco».
«Stiamo definendo le regole d'ingaggio — spiega Vijay Nambiar, consigliere speciale di Annan — e credo che i dettagli verranno fuori nei prossimi giorni». Nambiar, che ieri è arrivato in Medio Oriente, spera che un mandato per l'operazione ben chiaro e regole precise «spingeranno le nazioni che hanno dato la loro disponibilità a impegnarsi più concretamente».
Il governo israeliano preme perché la forza internazionale abbia un mandato «robusto» e le parole di Dujarric sembrerebbero andare in quella direzione. Il dossier ricevuto dal ministero della Difesa italiano — raccontato ieri dal Corriere
— descrive i compiti dei militari come una sorta di azione di polizia, ma parla di reazione con la forza solo in presenza di atti ostili. Il problema degli armamenti dei miliziani fondamentalisti dovrebbe essere lasciato all'esercito regolare libanese, che sta continuando a dispiegarsi nelle zone abbandonate dagli israeliani. Il premier Fouad Siniora aveva annunciato nei giorni scorsi di avere ottenuto dai leader Hezbollah l'assicurazione di non far girare uomini armati per le strade.
Il documento ricevuto da Roma mantiene i limiti del mandato nella definizione di «peace keeping», le frasi del portavoce di Annan ad
Haaretz la sposterebbero verso il «peace enforcing». Una distinzione che gli analisti militari, e il governo italiano, considerano fondamentale. Tammy Farrenkopf, esperto del Royal United Services Institute for Defense Studies, importante centro studi britannico, ricorda che la missione a Beirut del 1983 era stata chiamata di «mantenimento della pace». «Il comando americano aveva deciso all'inizio delle regole d'ingaggio molto restrittive — spiega — e l'uso della forza era previsto solo per autodifesa e in risposta ad atti ostili. In sostanza, ai marines era stato detto che per rispondere al fuoco prima qualcuno doveva sparargli contro». Progressivamente — continua l'analista britannico — i militari americani si ritrovarono coinvolti, vittime di imboscate degli Hezbollah, senza che le regole d'ingaggio venissero modificate. «La situazione sul terreno divenne precaria, dopo l'attentato all'ambasciata Usa che uccise oltre 60 persone. Solo allora i comandanti sembrarono capire che gli ordini andavano cambiati». La lezione da trarre, secondo Farrenkopf: «Senza regole d'ingaggio chiare, robuste e modificabili in fretta, la forza multinazionale nel Sud del Libano rischia di incorrere in numerose perdite tra i suoi uomini».

Infine, un editoriale di Gianni Riotta che mette in guardia dai pericoli di una missione che vedesse impegnato solo il nostro paese.
Ecco il testo:

Se l'Italia si troverà da sola nella forza di pace in Libano, sarà bene non partire. Il nostro Paese, con generosità, si è esposto contro la guerra, ma l'ipocrisia, levatrice della risoluzione Onu 1701, si sta palesando crudele. Alle condizioni di oggi, i nostri soldati sarebbero ostaggio dell'impotenza, imbelli come i caschi blu Unifil, o vittime, come francesi e americani a Beirut 1983. Un destino da scongiurare.

La tregua, appena cominciata, è già finita, stupendo perfino i pessimisti per la rapidità con cui si torna a sparare.
Era inevitabile: le scintille della guerra dei 33 giorni, l'attivismo di Hezbollah contro Israele e la decisione di Gerusalemme di recidere i legami militari del Partito di Dio con Siria e Iran sono sempre vive. Il governo libanese denuncia l'attacco israeliano nel villaggio di Boudai, al confine con la Siria, come violazione del cessate il fuoco, il segretario dell'Onu Kofi Annan si dice d'accordo. Israele ribatte che a violare la tregua sono gli Hezbollah dello sceicco Yazbek, importando armi da Damasco, e lamenta che nessuno fermi il traffico vietato dalla 1701. Chiunque abbia ragione, i nostri soldati si troveranno tra due fuochi, dialettici e di artiglieria.

La pressione dell'opinione pubblica internazionale ha indotto l'Onu, in fretta e furia, a firmare una 1701 talmente mal scritta che la diplomazia francese non ha neppure ascoltato le riserve dei militari di Parigi. Così il presidente Chirac, dopo aver detto con sussiego «La Francia è pronta a fare il proprio dovere in Libano!», manda 200 vigili urbani e lasciando a noi italiani, con astuzia da Richelieu, il comando militare nell'impossibile teatro. Quando Chirac parla di «dovere» di solito intende «interesse», e dunque alla riunione dell'Unione europea convocata per mercoledì occorre forzarlo a mantenere la parola o smascherarne le velleità di cartapesta. La cancelliera Merkel, finora bravissima in politica estera, nicchia, dicendo che Berlino non manderà truppe per non puntare i fucili contro Israele (analogo timore — si obietterà — non impedì alle aziende tedesche di vendere a Saddam Hussein armi chimiche e convenzionali, puntate contro Israele).

Indonesia e Malesia offrono truppe, ma Gerusalemme non vuole nazioni con cui non ha relazioni diplomatiche. I turchi fanno gli indiani, gli indiani hanno altro cui pensare. Restiamo noi. Anche l'opinione pubblica italiana s'è mobilitata su forza di pace e cessate il fuoco con buona volontà e impegno, screziate dalla propaganda di chi invoca caschi blu italiani, per dare una lezione a Israele. L'Italia s'è mossa con energia, qualche tono è stato più aspro con il premier Olmert che con lo sceicco Nasrallah, ma alla fine il sì unanime, condiviso dall'opposizione, ci ha dato autorevolezza. Il presidente Romano Prodi e i suoi ministri, D'Alema agli Esteri e Parisi alla Difesa, non devono però lasciarsi immobilizzare dalle promesse fatte, esponendo i militari italiani alle vendette. Nessun Paese può, da solo, separare Hezbollah e Israele, e una stessa forza multinazionale ce la farebbe a stento. Nessuno, del resto, pensa più a disarmare Hezbollah, la guerra è rinviata. La valle della Bekaa, non dimenticatelo, non è il Transatlantico, le chiacchiere amabili contano poco, i nemici non si riconciliano con un gelato alla crema da Giolitti. Se entro mercoledì non avremo alleati pronti a partecipare al contingente di pace, è onesto, legittimo e serio dire che gli italiani non partiranno. Prodi deve rivendicare da Kofi Annan chiarezza sulle regole, ancora fumose, e pressione sui Paesi islamici perché qualcuno intervenga, dando per una volta prova di fratellanza non verbale. Anche dall'Europa dobbiamo pretendere fatti, soprattutto da Francia e Germania, ma anche il leggendario premier Zapatero, la cui «Z» sembra valere più di quella di Zorro, qualcosina potrebbe fare per la pace. Ieri il premier israeliano Olmert ha ribadito a Prodi che spera in una guida italiana della missione: ragion di più per ricordargli che anche Israele deve agire con grande prudenza. Altrimenti sarà bene dire che non siamo i marmittoni a cui scaricare la «mission impossible».

La guerra continua, le violazioni alla tregua saranno quotidiane, torti e ragioni, come sempre da quelle parti, avviluppatissimi. Tremilacinquecento italiani sono mobilitati e siamo disposti ad assumere il comando della missione. Dobbiamo perciò richiedere ad Onu, alleati e belligeranti parallela coerenza, perché senza partner, mandato netto e condizioni serie saremo i Tartarino di Tarascona del mondo. Battersi per la pace è nobile, pretendere di farlo mossi da ingenuità ed entusiasmi faziosi, privi di realismo e formidabili mezzi, è ubbia mortale.

Se l'Italia si troverà da sola nella forza di pace in Libano, sarà bene non partire. Il nostro Paese, con generosità, si è esposto contro la guerra, ma l'ipocrisia, levatrice della risoluzione Onu 1701, si sta palesando crudele. Alle condizioni di oggi, i nostri soldati sarebbero ostaggio dell'impotenza, imbelli come i caschi blu Unifil, o vittime, come francesi e americani a Beirut 1983. Un destino da scongiurare.

La tregua, appena cominciata, è già finita, stupendo perfino i pessimisti per la rapidità con cui si torna a sparare.
Era inevitabile: le scintille della guerra dei 33 giorni, l'attivismo di Hezbollah contro Israele e la decisione di Gerusalemme di recidere i legami militari del Partito di Dio con Siria e Iran sono sempre vive. Il governo libanese denuncia l'attacco israeliano nel villaggio di Boudai, al confine con la Siria, come violazione del cessate il fuoco, il segretario dell'Onu Kofi Annan si dice d'accordo. Israele ribatte che a violare la tregua sono gli Hezbollah dello sceicco Yazbek, importando armi da Damasco, e lamenta che nessuno fermi il traffico vietato dalla 1701. Chiunque abbia ragione, i nostri soldati si troveranno tra due fuochi, dialettici e di artiglieria.

La pressione dell'opinione pubblica internazionale ha indotto l'Onu, in fretta e furia, a firmare una 1701 talmente mal scritta che la diplomazia francese non ha neppure ascoltato le riserve dei militari di Parigi. Così il presidente Chirac, dopo aver detto con sussiego «La Francia è pronta a fare il proprio dovere in Libano!», manda 200 vigili urbani e lasciando a noi italiani, con astuzia da Richelieu, il comando militare nell'impossibile teatro. Quando Chirac parla di «dovere» di solito intende «interesse», e dunque alla riunione dell'Unione europea convocata per mercoledì occorre forzarlo a mantenere la parola o smascherarne le velleità di cartapesta. La cancelliera Merkel, finora bravissima in politica estera, nicchia, dicendo che Berlino non manderà truppe per non puntare i fucili contro Israele (analogo timore — si obietterà — non impedì alle aziende tedesche di vendere a Saddam Hussein armi chimiche e convenzionali, puntate contro Israele).

Indonesia e Malesia offrono truppe, ma Gerusalemme non vuole nazioni con cui non ha relazioni diplomatiche. I turchi fanno gli indiani, gli indiani hanno altro cui pensare. Restiamo noi. Anche l'opinione pubblica italiana s'è mobilitata su forza di pace e cessate il fuoco con buona volontà e impegno, screziate dalla propaganda di chi invoca caschi blu italiani, per dare una lezione a Israele. L'Italia s'è mossa con energia, qualche tono è stato più aspro con il premier Olmert che con lo sceicco Nasrallah, ma alla fine il sì unanime, condiviso dall'opposizione, ci ha dato autorevolezza. Il presidente Romano Prodi e i suoi ministri, D'Alema agli Esteri e Parisi alla Difesa, non devono però lasciarsi immobilizzare dalle promesse fatte, esponendo i militari italiani alle vendette. Nessun Paese può, da solo, separare Hezbollah e Israele, e una stessa forza multinazionale ce la farebbe a stento. Nessuno, del resto, pensa più a disarmare Hezbollah, la guerra è rinviata. La valle della Bekaa, non dimenticatelo, non è il Transatlantico, le chiacchiere amabili contano poco, i nemici non si riconciliano con un gelato alla crema da Giolitti. Se entro mercoledì non avremo alleati pronti a partecipare al contingente di pace, è onesto, legittimo e serio dire che gli italiani non partiranno. Prodi deve rivendicare da Kofi Annan chiarezza sulle regole, ancora fumose, e pressione sui Paesi islamici perché qualcuno intervenga, dando per una volta prova di fratellanza non verbale. Anche dall'Europa dobbiamo pretendere fatti, soprattutto da Francia e Germania, ma anche il leggendario premier Zapatero, la cui «Z» sembra valere più di quella di Zorro, qualcosina potrebbe fare per la pace. Ieri il premier israeliano Olmert ha ribadito a Prodi che spera in una guida italiana della missione: ragion di più per ricordargli che anche Israele deve agire con grande prudenza. Altrimenti sarà bene dire che non siamo i marmittoni a cui scaricare la «mission impossible».

La guerra continua, le violazioni alla tregua saranno quotidiane, torti e ragioni, come sempre da quelle parti, avviluppatissimi. Tremilacinquecento italiani sono mobilitati e siamo disposti ad assumere il comando della missione. Dobbiamo perciò richiedere ad Onu, alleati e belligeranti parallela coerenza, perché senza partner, mandato netto e condizioni serie saremo i Tartarino di Tarascona del mondo. Battersi per la pace è nobile, pretendere di farlo mossi da ingenuità ed entusiasmi faziosi, privi di realismo e formidabili mezzi, è ubbia mortale.

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