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Il Foglio Rassegna Stampa
19.08.2006 Destino e solitudine di Israele: due voci ebraico-americane
Cynthia Ozick ed Eric Hoffer

Testata: Il Foglio
Data: 19 agosto 2006
Pagina: 2
Autore: Amy Rosenthal - Giulio Meotti
Titolo: «CYNTHIA E LA VOCE -“Un vento malato soffia su Israele”. La premonizione di Eric Hoffer»
Dal FOGLIO del 19 agosto 2006, un'intervista di Amy Rosenthal alla scrittrice Cynthia Ozick :

Cynthia Ozick, nata nel 1928 da genitori ebreo-russi, a New York, dove vive, cresciuta da un lato con un’educazione religiosa ma dall’altro con una mentalità laica, ha studiato letteratura alla New York University e all’Ohio State University. Ozick è autrice di innumerevoli opere di narrativa, e non solo, e ha vinto molti premi. La sua raccolta di saggi “Quarrel & Quandary” ha vinto nel 2001 il National Books Critics Circle Award e il saggio “Fame & Folly” è stato finalista al Premio Pulitzer 1996. Senza ombra di dubbio Ozick è una delle maggiori scrittrici ebree-americane viventi. Tra i suoi libri in italiano: “La galassia cannibale” (Garzanti 1988), “Lo scialle” (Feltrinelli 2003), “Il Messia di Stoccolma” (Feltrinelli 2004) e “Eredi di un mondo lucente” (Feltrinelli 2005). Ci parla della sua ultima raccolta di saggi intitolata “The Din in the Head” (Houghton Mifflin, 2006). Nello spiegare il titolo dell’opera, Ozick dice: “Esso si riferisce a quella voce che sentiamo di continuo nelle nostre teste, che non smette mai di parlarci”. Dopo una piccola pausa pensosa, l’autrice riprende: “Probabilmente quella voce tace se è in ascolto, ma se non risponde a qualcosa essa non si ferma mai. Continua a parlare all’infinito. Affligge. E’ principalmente un tormento”, e così la scrittrice si lascia andare a una risata nervosa. Ozick è famosa per essere tanto una saggista quanto un’autrice di romanzi e le chiediamo come vive questa duplice veste. L’autrice americana risponde: “Quando si scrive si fanno scoperte in entrambi i generi poiché tanto la saggistica quanto la narrativa condividono intelletto e fantasia. Ma nelle opere di saggistica c’è un grosso vantaggio. Per esempio, nella stesura di un saggio su Henry James si è molto avvantaggiati poiché si sa già a priori cosa scrivere. Nel caso di un romanzo, però, non si ha nulla in mano quando si inizia il lavoro. Si è in uno stato di perpetuo caos ed è tutto da scoprire. Qui l’intelletto ha altresì un ruolo importante, ma è una questione di proporzioni”. Il recente volume contiene un saggio dal titolo “Tradition and (or versus) the Jewish Writer” che si apre con la seguente domanda “Cos’è un testo ebraico?”. Abbiamo chiesto all’autrice di spiegare che cosa intende dire quando asserisce che un libro ebraico rientra “nell’ambito delle tradizioni”. “Un testo ebraico – chiosa Ozick – è un libro che appartiene alla saggezza, alla filosofia e alla teologia del giudaismo, della Torah. In un modo o in un altro esso è frutto della Torah. Ritengo che il romanziere sia un ossimoro poiché nella vita devo comportarmi bene. Fondamentalmente, appartengo a una civiltà e agisco in modo civile, ma da scrittrice sono un animale selvatico e mando al diavolo chi mi piace e faccio quello che mi pare. Certo, non mi comporterò bene poiché un romanzo è una finzione e questa dipende da un conflitto, e il conflitto dipende dall’essere buoni o cattivi. Quando si entra in una storia bisogna calarsi totalmente in ogni personaggio, il che significa che abiterai anche il mondo dei cattivi”. Ozick è famosa per essere una delle migliori scrittrici ebree-americane e nel chiederle che peso abbia il giudaismo nelle sue opere lei cita prontamente Isaac Bashevis Singer che una volta disse: “Ogni scrittore deve avere un indirizzo”. “Il giudaismo è il mio indirizzo”, afferma Ozick, e poi prosegue: “E’ dove vivo. Dove la mia mente vive. E’ semplicemente lì poiché è parte del mio Dna. Ma come ho scritto in questo saggio non posso rinchiudermi in esso, poiché se lo facessi scriverei sermoni, diventerei mielosa e avrei parole edificanti. Non voglio scrivere parole edificanti poiché non mi atterrei alla realtà. Desidero scrivere del mondo, di come esso è, specialmente adesso”. E qui la Ozick fa una digressione e ci racconta di avere un nipote nelle forze armate israeliane e che lei e suo marito dal 12 luglio – il giorno in cui i miliziani di Hezbollah, in un’incursione in territorio israeliano, hanno rapito soldati dell’Idf – ascoltano incessantemente la radio e sono incollati davanti alla televisione. Nell’esprimere la sua opinione in merito alla guerra che Israele combatte contro Hezbollah in Libano, la scrittrice dichiara inequivocabilmente: “Non si può scendere a compromessi con coloro che perpetrano atti di terrorismo e che vogliono eliminare uno stato. Come scrissi non molto tempo fa in un saggio, ‘un attentatore suicida che lancia un attacco contro una pizzeria piena zeppa di carrozzine non è una persona che desidera costruire una nazione’. L’altro giorno pensavo a come siamo così riluttanti a dire cose che sembrano primitive come la guerra di religione. Beh, da parte nostra, e mi riferisco a Israele e all’occidente, non stiamo combattendo una guerra di religione. Ma loro sì. Non si può fare nulla contro questo tipo di fanatismo, se non sconfiggerlo. L’occidente deve avere la forza deterrente di fermarlo.” Le domandiamo cosa ne pensa delle numerose comunità musulmane presenti in Europa, e lei, scoppiando in una risata cinica, risponde: “Scommetto che gli europei desiderano riavere gli ebrei al posto delle minoranze oggi presenti. Rispetto ai loro equivalenti musulmani gli ebrei furono bravi cittadini, dettero grossi contributi all’arte, alla letteratura, alla musica e all’economia. Per non menzionare poi quelli che furono più italiani degli italiani, più francesi dei francesi stessi, etc. E coloro che non si assimilarono furono elementi tranquilli e passivi che non dettero fastidio a nessuno. Io penso che nel profondo dei loro cuori gli europei desiderino veramente di riavere gli ebrei”. Nonostante Ozick sia un’ebrea che scrive nella diaspora, racconta di tenere sempre a mente il destino degli ebrei, e aggiunge: “Oggi più che mai. Nelle ultime settimane questo mi ha affatto permesso di lavorare”. A questo punto, la scrittrice sente l’urgenza di parlare del destino degli ebrei e con un tono di voce solenne dice: “Spero che noi, gli ebrei di Israele, vinciamo. Dico noi, malgrado io viva nella diaspora, ma Israele dovrebbe e deve sconfiggere totalmente Hezbollah. Spero, inoltre, che Israele recupererà la sua forza deterrente. L’altro giorno ho sentito alla radio un israeliano intervistato che diceva cose meravigliose. L’uomo ha spiegato che gli israeliani amano Churchill, ma non hanno un leader churchilliano. E io spero che lo stato ebraico trovi il suo Churchill”. Se ne deduce che l’autrice non considera il premier israeliano, Ehud Olmert, un churchilliano, e infatti è molto critica: “Mi sono piuttosto arrabbiata quando ho sentito il primo ministro affermare che, non appena la battaglia fosse finita, avrebbe ‘proceduto allo smantellamento degli insediamenti in Cisgiordania’. Mi sembra una follia parlare così in questo momento. E’ come se stia pensando nel bel mezzo della guerra alla sua agenda politica personale e a essere fedele al suo servilismo verso le grandi potenze alle quali ha fatto promesse”. L’irritazione di Ozick echeggia nelle sue parole ed ella prontamente si interrompe e dice: “Basta così. Probabilmente sto entrando in troppi dettagli politici”. Così torniamo alla letteratura e alla sua recente raccolta di saggi che include “Throwing Away the Clef: Saul Bellow’s Ravelstein”. Come è risaputo, Saul Bellow fu fortemente criticato da molti per aver svelato l’omosessualità dello scomparso filosofo Allan Bloom, in quello che fu il suo ultimo libro (“Ravelstein”). Inoltre, Bellow era famoso per suscitare la collera degli amici e anche delle ex mogli, immortalate nelle pagine dei suoi romanzi. Detto questo, Ozick sembra difendere Bellow per la stravaganza del suo volume. E’ così? “Assolutamente, sì!”, esclama l’autrice. E prosegue: “Quando tutti coloro che hanno rimostranze contro Bellow saranno morti, il loro ricordo cadrà nell’oblio, mentre le opere di Bellow continueranno a esistere nella letteratura. Può darsi che qualcuno fosse infuriato con Tolstoj, forse l’uomo che era il marito di Anna Karenina. Potrebbe anche darsi che lo scrittore russo conoscesse una donna che si gettò sotto un treno, ma francamente noi non sappiamo chi lei fosse e non ci interessa affatto come è nato questo capolavoro della letteratura. Quello che conta è che siamo in possesso di questo straordinario romanzo. Poco importa se in ambito letterario, che pullula di pettegolezzi, alcuni dei quali veramente divertenti, vi siano persone che nutrono qualche ruggine. So che Bellow ha rimpianto di aver rilasciato un’intervista al New York Times poco prima di morire in cui ha ammesso che ‘Ravelstein’ si è ispirato alla vita di Allan Bloom. Ma questo era irrilevante poiché era chiaro in ogni caso, indipendentemente dal fatto che l’ammettesse oppure no. Nella stesura di un romanzo ci si può basare su fatti reali, ma poi ti fai trascinare dall’immaginazione e fai tuo quel personaggio. Gustave Flaubert diceva: ‘Madame Bovary sono io’. E’ vero. E’ sempre così”. In seguito alla morte di Susan Sontag, Ozick le ha dedicato un altro scritto. Prima di porle una domanda a riguardo, la scrittrice interviene dichiarando: “La dolente nota riguarda quanto da lei asserito dopo l’11 settembre, vale a dire che ‘l’America se l’è meritato’. E poi, ricordo che non disse nulla di quanto accaduto quando ricevette il Jerusalem Prize. Sontag fu esortata dai suoi amici a non recarsi in quello che a loro dire era uno stato oppressivo, ma lei vi si recò comunque e incassò il premio in denaro, e non mancò di criticare ‘lo stato oppressivo’. Francamente, reputo spregevole la sua condotta”. Passiamo a chiederle in cosa consiste il retaggio della Sontag. “In ogni cosa che lei ha scritto, a eccezione forse di ciò che tocca l’argomento malattia, che sgorga dalla pieghe dell’anima. Le sue opere saranno ricordate come un documento dei tempi e ciò che esse attestano è la svolta avvenuta nella vita culturale americana, e in cui ha fine la distinzione tra alta e bassa cultura”. Ozick ha dedicato un altro saggio al famoso critico letterario Lionel Trilling, di cui in gioventù la scrittrice fu allieva. Nel sentire pronunciare il nome di Trilling, la sua voce si incrina e racconta di aver vissuto un momento estremamente imbarazzante nel corso di un seminario tenuto da Trilling. “Avevo 21 anni, ma non c’erano scusanti per quanto ingenuamente dissi”. Accorgendosi di balbettare, Ozick prosegue: “Barbuglio poiché mi imbarazza raccontare quanto segue. Parlai a Trilling dei tre grandi demiurghi del mondo contemporaneo: Marx, Freud e Einstein”. Un attimo di pausa e poi finisce di raccontare la storia: “Anche se incidentalmente, devo dire che adesso Freud è in declino e grazie a Dio lo è anche Marx. Ma per Einstein non è così. A quel tempo – ed era il 1951 o il 1952 – costoro erano tre mostri sacri e io chiesi a Trilling se riteneva che ci fosse qualche legame tra loro, visto che erano tutti ebrei. A queste mie parole, egli ebbe una reazione di sconcerto e si incollerì. Ciò era per lui inconcepibile, stava rifuggendo dalla sua identità ebraica. Ma, ironia della sorte, oggigiorno le nuove generazioni di laureati non conoscono affatto chi egli sia e se lo sanno, lo ricordano come il primo docente ebreo di letteratura inglese alla Columbia University. Ed egli lottò per ottenere quella cattedra”. Il mondo letterario non è un ambiente facile per una donna e pertanto chiediamo a Ozick quali sono state le sfide personali che ha dovuto affrontare per ritagliarsi una nicchia. La risposta è semplice, assicura: “Non penso affatto che essere una donna rappresenti una sfida. Non me ne faccio un problema. Credo che entrambi i sessi abbiano degli oneri ed è molto dura la vita per uno scrittore. Hai bisogno di tantissimo tempo di cui è molto difficile poter disporre, a prescindere dal fatto che tu sia uomo o donna. Ma scrivi lo stesso. E’ la tua vocazione. E’ un dono ed è un privilegio poterne godere e svolgi al meglio questa attività, senza curarti delle lamentele esterne. Questo è per me il femminismo.” Prima di congedarci, Ozick dice di voler parlare dell’Italia. “Sono stata in Italia innumerevoli volte e devo dire che nel corso di quei soggiorni ho vissuto alcuni dei giorni più felici della mia vita. Sebbene io sia estranea alla politica italiana, ho sempre pensato all’Italia come a un paese in cui si vive bene. E vorrei che l’Italia fosse fedele al suo senso della famiglia estendendolo in questo cruciale momento ad Israele”. E anche noi condividiamo questo desiderio. (traduzione di Angelita La Spada)

Dal FOGLIO  del 18 agosto un articolo di Giulio Moetti sul pensatore  americano Eric Hoffer:

Era un meraviglioso fuori luogo. Il padre riparava mobili, la madre morì che aveva due anni. Il più appartato filosofo americano del dopoguerra, Eric Hoffer, non ha mai avuto un passaporto o un certificato di nascita. Niente fratelli né sorelle, da piccolo non frequentò scuole, era autodidatta. Della sua esistenza durante la Grande Depressione resta uno sbiadito certificato della mutua. Il nome di questo aruspice solitario è tornato alla ribalta nel 2000, quando gli archivi della Hoover Foundation ne hanno accolto l’intera produzione, libri, taccuini, lezioni a Stanford. Fumatore incallito, scriveva su bigliettini in attesa dei treni. Un profilo del 1956 su Look lo descriveva come “l’autore preferito di Ike”, il presidente Eisenhower. Voleva combattere i nazisti, ma lo scartarono per motivi medici. Hoffer si mise a fare “lo scaricatore di porto”, da cui il soprannome. Alternava il suo tempo fra banchine e biblioteche. E’ morto nel 1983, appena in tempo per essere premiato da Ronald Reagan con la medaglia della libertà, la massima onorificenza negli Stati Uniti. Poi di nuovo nell’ombra, fino a oggi. Perché riparlare di questo antifanatico elogiato da Bertrand Russell e da liberal come Arthur Schlesinger? Alcuni settimanali della destra americana, da National Review a Commentary, durante le drammatiche notti di Gaza, con Israele alla ricerca del soldato rapito, e la guerra di sopravvivenza in Libano, hanno rispolverato una serie di articoli fulminanti che Eric Hoffer scrisse per il Los Angeles Times a ridosso della guerra dei Sei giorni. Da quegli scritti dimenticati si profila la sagoma di un profeta che si interroga sul “perché” dell’esistenza d’Israele. “Bisogna leggere di più la primissima storia dell’islam”, scriveva Hoffer nel 1950 a proposito della decapitazione a Medina degli ebrei Quraiza da parte delle truppe di Maometto. “Il fatto centrale è che gli arabi non vogliono proposte di pace, non vogliono concessioni, loro vogliono distruggere Israele”. Sull’assassino di Sadat, colpevole per gli islamisti di aver stretto la mano all’ebreo Menachem Begin, Hoffer scriveva: “L’assassinio di Sadat rende le cose più chiare. La reazione fredda delle masse egiziane, a differenza della morte di Nasser, suggerisce che gli arabi siano più prossimi nel profondo all’orgoglio dell’arabismo coltivato da Nasser, piuttosto che al nazionalismo egiziano di Sadat. Le politiche contro Israele avranno un potente appeal nel medio oriente. Sarà un suicidio per gli israeliani credere nella possibilità di un cambiamento popolare profondo”. Il saggio più sorprendente, che oggi torna a emozionare coloro che palpitano per il mistero israeliano, viene pubblicato il 26 maggio del 1968. “Gli ebrei sono un popolo singolare: ciò che è permesso ad altre nazioni è proibito agli ebrei. Altri paesi hanno cacciato migliaia di persone, se non milioni, e non c’è problema di rifugiati. La Russia lo ha fatto, come Polonia e Cecoslovacchia, la Turchia ha cacciato milioni di greci e l’Algeria di francesi. L’Indonesia ha espulso Dio solo sa quanti cinesi e nessuno ha detto una parola sui rifugiati. Ma nel caso di Israele, gli arabi dispersi sono diventati eterni profughi. Tutti insistono che Israele dovrebbe riprendersi ogni singolo arabo”. Questo straordinario scrittore aveva annusato il fetore negazionista lasciato dallo sciame di intellettuali e scribacchini sempre pronti a paragonare i figli dei tanti David Grossman ai sicari delle SS, da José Saramago a Tom Paulin, da Asor Rosa allo slogan sinistro che tappezza i muri di Parigi: “Hitler ha un figlio: Sharon”. “Arnold Toynbee ha definito la mobilitazione degli arabi un’atrocità più grande di quelle commesse dai nazisti – scriveva Hoffer – Le altre nazioni quando sono vittoriose in battaglia dettano i termini della pace. Quando è Israele a vincere, deve supplicare per la pace. Un vento malato soffia su Israele”. Hoffer seppe decifrare in tempo il cuore tragico di un’eventuale sconfitta sul campo dello stato ebraico: “Le altre nazioni quando sono sconfitte sopravvivono e ricostruiscono, se Israele dovesse essere sconfitto verrebbe distrutto. Se Nasser avesse trionfato lo scorso giugno, Israele sarebbe stato cancellato dalla carta geografica e nessuno avrebbe mosso un dito per salvare gli ebrei. Nessun impegno verso gli ebrei da parte di qualunque governo è degno della carta su cui è scritto”. Poi la terribile profezia: “Gli ebrei sono soli al mondo. Se Israele sopravvive, sarà solo grazie agli sforzi ebraici. Ho una premonizione che non mi lascia in pace; come va per Israele così andrà per tutti noi. Se Israele perisse l’olocausto sarà su tutti noi”. Con la semplicità di un uomo che aveva fatto il boscaiolo e che, per nostra fortuna, non ha vinto il Nobel.

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